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venerdì 6 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

II. La Caverna delle Norne

E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
tetra nel vitreo terrore d’un pianto,
e sul far della sera un monte grida,
dove il giorno tramonta e non s’avanza:
il regno delle Norne, primigènie
figliuole di Erda, e tessitrici
dei velami segreti del Destino.
Ùror, Skùld e Verdàndi vèston gli albi
pepli del Fato, e indagano col canto
ciò che nei Vivi di mistèr s’annida;
e vanno… e vanno, e si tèngon per danza,
oscura e dura e immatura Progènie,
e della Sorte son le genitrici,
han bello il volto, ma il cuor han meschino.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
mentre sul Reno ondeggia la Dea bella,
tessendo scherzi alle Figlie delle onde,
le placide Sirene degli scogli;
dov’ella il crine cinge di ninfee, e
solleticato sente il sèn dall’àlighe,
e la gioja della sua Vita; e ove sella
le acque danzanti, e sulle chiome bionde
dei salci intorno accoglie i bei germogli,
ella, la più fatale delle Dee,
la più ridente tra gli Dei immortali.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi;
e all’ombra di Ygdrasìl sovviene il Fato,
il scialbo telo d’un Dio inesorato.  

Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste
sotto le fronde della sacra pianta,
le cui frasche tremanti urlano al cielo,
tra l’argento che è effuso dalla Luna,
Mostri ancestrali delle terre oscure.
E Notte è sempre, e orrende le Nature,
ed esse hanno alle mani un’empia runa,
ordita nelle nevi. Oh eterno è il gelo!
E questa pietra flebilmente canta,
e affanni invòca, e carestie e Tempeste.
Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste,
avvolte nei velami della Notte,
figlie di Erda, lo Spettro, e brute streghe;
e qui, sotto Ygdrasìl, han l’arcoläio,
tomba funerea di guerrieri e amanti,
onde tràggon le ragne del Destino.
Hanno divelto nel legno le grotte,
e vivono nascoste, e fan congreghe,
col vischio e il vento, e il salice e il roväio;
e hanno gli occhi fatti di adamanti,
e il torvo collo piegato e supino.
Son giovinette ululanti e deformi,
sguardi di lupi, e voci come i corni.

Mostri ancestrali delle terre oscure,
tutto esse sanno: la Vita e la Morte,
e il vile e il prode, e il tempo degli Dei,
e il Divenire eterno del Vivente,
e la possa temuta del Dio Loge[1],
e tessono coi ragni le lor tele.
Sui lor pepli discèndon l’ambra e il miele
della sacra Ygdrasìl; e han tetre toghe,
e all’Infinito han rivolta la Mente,
e non conòscon gioje né imenei,
Posse occulte e feroci della Sorte.
Ed Erda ora le chiama e appàr tra loro
per ordìr il Fato a quel crine che è d’oro.

«Figlie!» ella sclama: «Ho dato agli Dei un’altra
Dea la più bella, la giovine, e balda,
Figlia del mio Volere, e fior divino,
Freya, gioventù del Cielo, Freya l’Amore,
Potenza prima del nostro Universo.
Ella ha un’ora di Vita, e ride al Reno,
e ignuda sfide fa scherzosamente
alle Ninfe fluviali e alle viöle.
Tanto appàr dolce, e celestiale e scaltra,
e nella Vita già si crede salda.
Tessete, oh voi, tessete il suo Destino!
Or decidete l’ora del suo cuore,
quando del suo Dèstin il mondo asperso
sarà e nel pianto, e quando il seno
morirà della Dea! Oh Figlie mie: lente…
lente ordìtele i giorni e il quieto Sole!».
E lor, le Norne, obbediscono al Genio
della Madre che tièn l’immenso Regno;
poiché anche le celesti e posse prime
per Erda, per Erda, lo Spettro, hanno fine!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì VI Novembre AD MMXV



[1]  Loge, da pronunciarsi Loghe, è il Dio del Fuoco nella Mitologia norrena e germanica. 

martedì 3 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

I. La Nascita di Freya

Erda! Erda! Madre della Stirpe, oh tu, Erda!
Oh Ventre di Ùror, di Skùld e di Verdàndi!
Erda! Erda! Ordisci la gioventù eterna;
e chiàmala bellezza, e gioja e Amore!
Primigènia perenne degli Dei,
Erda! Erda! Madre della Stirpe, oh tu, Erda!
Oh! Prendi le onde del Mare; oh tu, espandi
la tua alta creäzione, alba superna
della Vita gaudente; e sul biancore
delle spume, oh tu, fa’ i quieti imenei
della più bella tra tutte le Dee,
poiché risplenda, ella, tra le ninfee!

Erda! Erda! Spettro sibilante e puro,
prendi la sabbia del lido vicino;
e plasma: il crine con le fronde d’oro,
e le sue guance, e il volto, e il mento oscuro,
e il giòvin seno, e il ventre, e il suo Destino,
e l’inguine, e le gambe, e i piedi, e il moro
ombreggiàr lieto delle membra sue!
Erda! Erda! Spettro sibilante e puro,
prendi le frasche dell’àlighe fresche,
e tessi a lei così un serto d’argento,
e un pìccol peplo da annodarle ai fianchi,
perché costei sia ignuda sol coi seni
e con il ventre, Regina dei Numi.
Oh Erda! Sia gloria alle ciglia donnesche
che vai plasmando nel soffio del vento;
e d’acque le pupille agli occhi bianchi,
occhi che sono eternamente ameni,
e che splèndon di truci e altèri lumi!
Erda! Erda! Oh possente Creätrice!
Plasma Freya! Plàsmala! Oh la Dea più altrìce!

Allor dall’onde l’Ondine belle vanno,
e tèssono la Donna, la Dea bella;
nuda la plàsmano, ed ella respira.
Ed Erda dà alle Norne, le sue figlie,
la ragna oscura del di lei Destino,
perché lo scrìvano a un stel d’una runa.
E Freya, frattanto, sorride in affanno,
e vien vestita, oh la diva donzella!
E per la prima volta ella sospira,
e i piè suoi immersi bàcian le conchiglie
che vêr la sponda stanno al suo cammino;
ed è meriggio, in ciel è il Sol, la Luna.
Figlia la chiama Wòtan, il possente,

sorella Dònner, dal tuono lucente!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Martedì III Novembre AD MMXV

lunedì 2 novembre 2015

Tre Odi di Prosa di un ultimo Poëta romantico

I. Maturità senescente

Selva di pruni, e di pioppi, e di sàlici
con me la sera allùmina, e le spoglie
frasche, e le ignude fronde, ombre di Notte,
e gli irrequieti faggi, e i tetri càrpini,
e queste nubi in sul far della Luna
che viene pàllida
dopo il passàr
del mio meriggio,
come argento àrido,
specchio d’un mar,
dove sta un riccio
che èsule dell’autunno è, e del castagno,
qui, in sulla via che io percorro in affanno,
io rimembrando l’ùltima mia estate,
e sconsolando il cuor nel mio sognare,
e gemendo io di làgrime infinite,
e allor d’indefiniti àttimi, e speni,
perché ‘l so: piàngere
debbo io a’ perduta
mia giovinezza,
il vespro d’ìncubi,
la fonte muta
della sua ebbrezza; e
perché io fantàsima
passeggio e ascolto
fosco silenzio,
tra i scialbi plàtani,
ricordo un volto:
labbro d’assenzio.
E così un altro giorno va a morire,
un dì che ho in meno da vìvere, e Morte,
e Fato, e Tempo d’intorno mi vàgolano,
dove so che beltà non fu che un sonno,
e Idëàle l’Amore, vero il duolo. E
come le Norne ròride
del pianto dei defunti,
e come le mie Sìlfidi
danzanti a’ piè congiunti,
e Villi, e Gnomi, ed Elfi,
fantàsimi dei Guelfi,
io corro a tramontàr.
E questo mio tramonto è una pena
che mi fa inquieta l’Anima, e convulsa
la mente, e bieca la cura, e inaudito
il petto. E per la mia campagna corro
a raccògliere gli ultimi miei fiori. 

II. Il Lamento del Bivacco

E canterò io alle fiamme della Luna,
mesto e perduto, e sepolto in mia Notte,
e urlerà il cuore mio agli astri che muòiöno,
nell’orizzonte oscuro di un Idillio,
e piangeranno gli Elementi indòmiti,
e ombra d’un sàlice
l’orma mia copre,
e il fuoco scialbo,
ombre fuggèvoli,
di Dèmoni opre,
presso il prunalbo.
Non temèr, folle! Non avèr paüra!
Un’ombra ha mai umiliato un uomo? Forse?
Ma canta! Canta! Qui spensïèrando
tu, in vêr la Luna del tuo focolare,
e della tua arpa, e dei sogni tuoi estremi,
màschere vagolanti e sempre inquiete
di Mostri di tue attese, e di Titàni
ribelli ai giuramenti orditi ai fùlmini,
e di questa giovinezza svanita,
e dell’indefinite speni tue!
E io urlando canto; io, ràpsodo
della melliflua Notte, e
del suo sudario fùnebre,
come Orfeo per le grotte
del più lùgubre lupo,
che da un fosco dirupo
qui lamentando ei sèguita
mestamente a ululàr.
Perché è questo che resta: questo dono
maledetto da Dio, la Poësia,
lungo questa giovinezza che muore,
e questo mio tramonto in una Vita
dove è peccato amare, e sognare ancora.

III. L’ultima Rosa dell’Estate

Ripenso: gli àttimi, e i tuoi, e i miei e orbi sogni,
e l’Alpe in fùlmini,
le rugiadose
perdute cime.
La vetta a un tùrbine ululava oscura:
roccioso ràpsodo,
e silenziosa
valle sublime.
E tu? Rosa melliflua, un dì piangevi,
tu prevedendo questo mio tramonto,
e questo mio silenzio, e questa Sorte,
portando tu nel cuore un tuo mistero,
che non volli io discèrnere. E fu un sogno.
Ricordo: i pàlpiti
del delicato
tuo giòvin seno,
che m’era un pètalo
tosco del Fato,
Destìn che temo.
E la Notte sovvenne, e giunse il tetro
sguardo dell’astro di una Luna cupa,
e poscia questo vespro, mi inghiottì
l’alba, e il sognàr mio, e l’ìride
dei tuoi singhiozzanti occhi,
e gli àttimi miei e gli ìncubi,
e il bronzo e i suoi rintocchi,  
l’eco pe’ i mesti vàlichi,
e il cuor a singhiozzàr.
E tu, pìccolo stame, rosa mia,
come il sogno tu fosti, e come il vento.
il più ràpido, e spenta sei alla fine;
e io - folle! - non t’ho mai il labbro baciato,
e nàüfrago in Dio.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro





In Dì Martedì XIX, Mercoledì XX Gennaio AD MMXV

giovedì 22 ottobre 2015

Al Melezzo

Oh Melezzo che scorri all’Alpe amata e ai miei vàlichi,
‘ve un dì a un villaggio io mi nutrii d’Eterno,
e di assai palpitate attese, e carichi ivi sono
di fresco vento i frondosi all’inverno e all’autunno
i pini e i tigli; oh Melezzo, al cui suono
riacquisto istanti perduti di Vita, dove il sogno
come un Unno mi persèguita immane, oh
ruscelletto lontano al Ghiridòne abbracciato;
oh mio Melezzo, di che rimane se non
un ricordo ghiacciato: e d’una rosa e d’un fiore,
se non un’ombra all’Anima mia affissa
dei tuoi rovi e i tuoi cespi, se non cuore ora perduto
della mia Estate, porto ultimo e cieco
della mia giovinezza che è svanita e compianta, e
se non l’eco dell’onde tue arenate alle vette,
e i tuoi bàratri tetri, giù, alle valli irrequiete?
E la mia Rose tristemente affranta all’insonne
veglia mi doni, oh bieco rivo! E schiette son l’ombre
di queste tombe di ricordi remoti e mietuti;
e te lontano, non vi son più sogni che s’infuriano,
né vi son donne. E sulle cime alte, e orbe, e ombrose,
oh Melezzo, ahimè! Muore la mia Rose!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXII Ottobre AD MMXV  

martedì 20 ottobre 2015

Bèviti! E bacia il mio Sogno!

Oh Rose, oh Rose, infinita ombra del Nord, fanciulla, a’
betulle e al Ghiridone ascolti forse - tu? - il mio sogno,
e i miei febbricitanti sospir. Le ansie! E
ricordo: il solitario e là ombreggiato sentiero,
scendendo dalla piccola collina, e andando altrove,
verso Dìssimo forse. E muto ero io
tra le chine lontane e meste. Ove tu eri con me.
Oh Rose, perché… perché ora mi vergogno in miei sonni,
dove il mio cuore si lamenta? E piange!
È forse Amore un’onta d’un fanciullo che è inerme
per cui provàr vergogna v’abbisogna?
E questo sogno vaga… e va sul nero crepuscolo…
e sogna… e sogna come in tomba il verme. E
poss’io chiederti di baciarne? E il mio
visionario sentìr tramonterà in quel bacio
che tu allòr chinerai a un’ombra morente e sconsolata.
Oh Rose! Può esalare ove qui giaccio un freddo sogno
l’estrèm sospìr suo e l’Anima infamata; e tu… avrai
così raccolto con le rosse labbra e le tue gote
un respiro di Vita e di ricordo, e un sovvenìr
d’un istante defunto. Ed è la Notte che regna, oh Rose!
E il mistico baciàr piove al mattino
sulla tua bocca la fredda rugiada del mio Destino;
e per me sarà egli un sogno che muore d’accanto
per farmi accòglier da altri sogni insonni,
come uno scoglio l’onde del suo mare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XIX, Martedì XX Ottobre AD MMXV  

domenica 18 ottobre 2015

La Visionaria

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

E la fanciulla passeggiava. Nero
era il suo crine, poiché avea dormito
tra il cenere funereo del camino,
mentre nel letto un misero dormiva.

Lo accolse nella Notte e lo accudiva,
ed egli era soltanto un pargolino.
E ora ella andava… e andava, e all’Infinito
muoveva il passo a un ignoto sentiero.

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

Venìr scorgeva un lontàn falconiero,
e un Principe a cavallo. E era smarrito
il volto suo all’ombra di un vecchio pino:
guardò più volte. Nulla! E il dì svaniva.

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

E all’orizzonte fuggivano i sogni:
e ella vedeva la Vita e il suo Nulla,
piànger udiva i neonati infelici.

Ma… ma v’era una donna alle pendìci
d’un tenue colle: «Guarda come culla!».
E un Mostro qui era il vento: «E a che vergogni?».

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

Niente! Svanìvan sogni:
e ella guardava i questuänti intorno,
poveri in cerca del pane del giorno.

«Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
dove vai solitaria e bella e bionda?
Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
perché la treccia è nera a questa sponda?».

«Ier ho dormito nel camino oscuro
per dare il letto a un bimbo vagabondo.
Ier ho dormito nel camino oscuro
il cenere annerì il mio crine biondo».

«Non era il bimbo quei di questa donna?
Vedi! Lo porta lontano e al sicuro.
Non era il bimbo quei di questa donna?
Ha paüra dell’Orco, il monte oscuro».

«Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
Forse la madre ha fame. Venga: ho i pani.
Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
No… no! Non farli andàr tanto lontani!».

«Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Hai visto la miseria della guerra?
Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Sii la speranza di questa tua terra».

Ed ella discorreva… e discorreva,
e con chi non si sa, né ella ‘l mirava,
tra un trasognato istante e un’aspra veglia,
forse al suo cuore, o forse alla Natura.
E lontano… lontano ella volgeva,
e fuori del villaggio se ne andava.
Era felice e - saltellando - sveglia,
una fanciulla visionaria e pura.
E quando fu la sera tornò indietro,
verso il tugurio. Cenava nel tetro
legno del lare; e disse sotto un perno:
«Padre, padre… lo sai? Che oggi ho parlato con l’Eterno?».

Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
ascolta e taci!.... Ascolta il cuore mio:
quest’Eterno che ti chiama non è che Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XVIII Ottobre AD MMXV

venerdì 16 ottobre 2015

Il Temporale di Ottobre

Può essere che d’autunno un temporale oscuro
tra i sogni del mio cuore perseguiti il cielo,
dove più gli conviene lampeggiare; e tristo e…

e muta può ora essere l’eco che ripete i tuoni, e osceno
il tuono che li segue quasi beändo di gloria,
e le piogge che cadono sono veleni oscuri.

Ma certo è che nella Tempesta il mio cuore sogna,
quando il tintinnìo delle piogge culla il sonno suo,
lì, dove gli orbati orizzonti e mori si splendono.

E va… e va il sogno mio, ai piedi della Luna falba,
e qui placidamente si confonde nel suo volto,
come uno specchio che è in mano a una fanciulla. E va!

E trema alle saëtte oscure e iraconde, e ha paüra.
E Tu, Infinito, non t’ho forse colto in questo sogno?

Può essere che d’autunno un temporale
scorra infelice le sue lingue di pioggia di vendemmia,
e che le ultime rose dell’estate nel suo mare inghiotta,

dove straripano di pianto le rogge più vessate,
sotto il mio sguardo che a una finestra le contempla,
quando sul vetro ogni stilla scivola e s’appoggia.

Ma certo è che nella Tempesta il mio cuore sogna,
perché non può far nient’altro, il visionario, il folle,
e sognando lamenta una canzone di Vita. E

nei sogni inciampa nelle tele dei ragni della Sorte,
e nelle sue piovose e tremolanti onde di follia
mi suggerisce le angosce e i dubbi tutelari.

E trema alle saëtte oscure e iraconde, e ha paüra.
E Tu, Infinito, non t’ho forse colto in questo sogno?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Giovedì XV Ottobre AD MMXV

venerdì 9 ottobre 2015

Inquietudine del Sogno e della Poesia

La Notte è pallida.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte mormora.
Dov’è il tuo incubo?
E la larva ‘l cullava
presso la cruna
dei Sentimenti. E i palpiti?
Non fûr che maschere.
Triste le illuminava
la fredda Luna,
la scialba Luna nell’incanto d’argento.

Eh! Sàtana ti ha illuso,
e schernito ti ha Iddio.
Danza! Su’, danza, il sabba, la ridda confusa!
E si sperda l’addio…
e si sperda l’addio!

La Notte è in tenebra.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte si agita.
Dov’è il tuo incubo?
Sono arrivati i vecchi,
l’incomprensione,
poiché ignoto è lo Spirito
della dolce epoca (della tua giovinezza).
E i rami sono secchi.
Spento è l’embrione.
E si sperda l’addio,
l’ultimo addio!

La Notte spasima.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte oscùrasi.
Dov’è il tuo incubo?
Lo ha udito il lupo nero,
lo divorava.
Ma è buona la carne arida
d’un cigno, le àlighe
sue? E il sangue sul sentiero (del)
lago albeggiava.
E si sperda l’addio…
e si sperda l’addio!

La Notte è in gemiti.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte è tremula.
Dov’è il tuo incubo?
Dissero: non avesse
un Sentimento.
Frutto dell’aritmètica,
tubercolòtica
delle sue smanie stesse! E
non fu che vento.
E si sperda l’addio,
l’ultimo addio!

Dov’è il tuo sogno, oh giovine? Hai vissuto
per un canto di Morte in tanta Vita. E…
e fu la Poësia un sogno perduto,
e era l’Amore una doglia infinita.
E dunque chiederai che ha in serbo il Fato,
e dunque chiederai se sei sprezzato.
Ogni piacèr ha fine. È il Tempo della Morte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Giovedì VIII Ottobre AD MMXV 

martedì 29 settembre 2015

Ode a Euterpe, ovvero L'Ingenuità e l'Inconsapevolezza

E io sto a scrìvere Poësie a una Musa che lo ignora,
vanamente aspettando un sogno, ov’ io in cuore così
mi chiedo: «Ov’è? La mia fanciulla?». E l’illusa mia mente
la scorge tra le danze del grigiore dell’autunno.

Vive, ma è morta; e va una cornamusa a piangerne il Fato.
Defunse nel mio sogno e nel suo bagliore che accecava, e…
e forse tra le Villi va alla rinfusa a danzare,
e chiede la vendetta del mio Amore di silenzio.

No! Mentre io scrivo quel che non discerne è viva,
e se alla mia finestra io sto, ella inonda di gioia
le feste del paëse, e sono eterne le sue danze; e…

e mentre dico che la amo, la bionda sua chioma
bacerà il senso a un altro uomo inerme al suo fascino, e
così l’avrò perduta. E m’è iraconda questa Sorte, per sempre.

Piangerò eterna un’onda di lacrime!
E ti costava molto, oh folle cuore - oh codardo! -
non scrìver niente, e confessarle Amore? E il sogno più non v’è!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXVII Settembre AD MMXV

giovedì 24 settembre 2015

Idillio d'Autunno

Canto!

Le brine gelide, e
i scialbi nugoli,
l’aurore roride, e un
grido d’un Unno,
spettro selvatico,
tombe di tenebre,
viene l’autunno;

e il mio cuore non scorge che le foglie
che cadono ingiallite, e sente doglie.

Canto!

Giunge immobile,
inesorabile, un
sepolcro timido
di lìgneo ossame, e…
e si precipita
dal nudo platano,
dal tetro frassino, il
secco fogliame. E

sembra la mia gioventù che s’invola,
dove son cieco, e non so dìr parola.

Canto!

Lungi va l’iride
mia che qui spasima
al canto flebile
della vendemmia,
gelo terribile,
volto di Sìlfide, e
grida interminabili
d’una bestemmia;

ed è forse costui sul mio cammino
quello che ha un nome oscuro, il mio Destino.

Canto!

Fugge l’allòdola,
geme la rondine,
strìllan le nòttole, e…
e i cardellini,
ha fame un pàssero,
i corvi trèmano, e
sui campi gèmono
i beccaccini;

strilla di liuti, di sogni e di canti,
arcana voce dei miei antichi pianti.

Canto!

Odo quest’àliti
di vento indocile,
di piogge e di oïdi,
coprìrsi il giorno, e
le nubi cèrule,
le terre pallide, e
intendo i palpiti
d’un truce corno,

sogno represso nel sangue secreto,
cure d’un folle Poëta irrequieto.

Canto!

Le cacce squillano,
i cani inseguono,
le selve mùtansi
in camposanti,
càdon le tortore,
ferite all’ùgola
dai piombi languidi,
i cuori infranti,

com’è il mio cuore, piangente in eterno,
da un dubbio asperso, conteso dal scherno.

Canto!

Gelano l’àlighe
sull’acque limpide
dei stagni tremuli, e
ghigno autunnale
s’erge al crepuscolo,
con guance orribili,
è il maëstrale, e…

e senso visionario di ponente
dell’occhi mio che sogna ed è demente.

Canto!

Odo: sta in fremiti
la sera giovane
che presto s’agita, e…
e viene bruna, e
più oscura e lugubre -
di streghe i pòllici
che il cielo graffiano -
lungo la Luna,

ossame scialbo, qui ordìto d’argento - che -
sopra il mio volto s’angoscia tra il vento.

Canto!

Notte di funebri,
ombre e fantàsimi,
pianto di ràmore
vecchie e lontane, e
impronte rigide
di Luna candida,
di stelle deboli, e
lanterne vane,

dove è giunta così l’ora del sogno,
l’insonne pianto del qual mi vergogno.

Canto!

Volti trapàssano
d’inquieti vàlichi,
oltre le formide
cime dei monti, e…
e a Morte suonano
i flutti spastici
delle più tisiche, e
gelate fonti; e…

e mentre giaccio in un grido di lagna, or
m’è più caro il pensàr della montagna,
dov’era estate nel giòvin mio cuore,
un preludio d’autunno e di dolore.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXIV Settembre AD MMXV