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martedì 7 giugno 2016

Sonetto in Terzine dantesche - Attesa e Sogno di un'Ombra di una Notte di Giugno

Ombra è di Estate; è la Luna di un quieto
nembo di giugno, e rosseggiando è là,
là… a’ i monti del mio orizzonte. E… e non lieto,

però, mi è il lento vespro che non va
svelto nella sua Notte, e nel mio ambìr
il sapòr dei miei Sogni, e… e che non sa

quanto privato del Sogno è il soffrìr
per me… me sognatòr che di orme vive
dell’Ànima che giace in suo dormìr,

Sonno infecondo, che per orbe rive
tintinna con il canto delle rane,
ombre notturne, e assopite e giulive.

E le speni di sera sòn lontane,
di Notte le chimere ben più vane.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Van der Neer, Paesaggio al Chiaro di Luna, Classicismo fiammingo, XVII-XVIII Secolo



In Dì di Martedì VII Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

venerdì 16 ottobre 2015

Il Temporale di Ottobre

Può essere che d’autunno un temporale oscuro
tra i sogni del mio cuore perseguiti il cielo,
dove più gli conviene lampeggiare; e tristo e…

e muta può ora essere l’eco che ripete i tuoni, e osceno
il tuono che li segue quasi beändo di gloria,
e le piogge che cadono sono veleni oscuri.

Ma certo è che nella Tempesta il mio cuore sogna,
quando il tintinnìo delle piogge culla il sonno suo,
lì, dove gli orbati orizzonti e mori si splendono.

E va… e va il sogno mio, ai piedi della Luna falba,
e qui placidamente si confonde nel suo volto,
come uno specchio che è in mano a una fanciulla. E va!

E trema alle saëtte oscure e iraconde, e ha paüra.
E Tu, Infinito, non t’ho forse colto in questo sogno?

Può essere che d’autunno un temporale
scorra infelice le sue lingue di pioggia di vendemmia,
e che le ultime rose dell’estate nel suo mare inghiotta,

dove straripano di pianto le rogge più vessate,
sotto il mio sguardo che a una finestra le contempla,
quando sul vetro ogni stilla scivola e s’appoggia.

Ma certo è che nella Tempesta il mio cuore sogna,
perché non può far nient’altro, il visionario, il folle,
e sognando lamenta una canzone di Vita. E

nei sogni inciampa nelle tele dei ragni della Sorte,
e nelle sue piovose e tremolanti onde di follia
mi suggerisce le angosce e i dubbi tutelari.

E trema alle saëtte oscure e iraconde, e ha paüra.
E Tu, Infinito, non t’ho forse colto in questo sogno?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Giovedì XV Ottobre AD MMXV

lunedì 4 maggio 2015

Ode a un Lupo di Montagna

I. Culla ‘l baglior d’un Temporale un fiore,
e ‘l petalo ne terge, e ‘l montanaro
vespro si pinge d’insano dolore.

Qui la pioggia si gronda, e ‘n suso ‘l raro
cardo la felce ne scioglie un lamento,
e ‘l valico s’estolle e oscuro e amaro.

Le arcane Furie vanno, e urlando ‘l vento
le frasche e le foreste altèro spoglia,
un’ombra orrenda di crudel tormento.

Geme di strazio un’incognita foglia,
e la quercia si trema, e ‘l suol s’inonda,
e l’orizzonte si rosseggia in doglia.

Ahi quanto ‘n cielo la folgore bionda
quivi si mostra, un’Anima iraconda!

II. Urlano or l’Alpi a un fatal maëstrale,
la pietra che si lagna ‘n muto grido,
la lenta Morte che dischiude l’ale.

D’in su un ghiaccio un torrente avanza infìdo,
e de’i fulgòri l’ombra all’onde ei flette,
qual ne trema al tonàr un terreo nido.

Eppur, frattanto, alle scoscese vette
un’eco si diffonde a un tòno altèro,
un insolito trillo a’ rocce grette.

Non è cotesto ‘l corno che a un sentiero
queto ne stringe ‘l cacciator errante,
né ‘l tetro rostro d’un folle sparviero.

E che fia se non questo?.... Un spasimante
manto di lupo, uno Spettro, un viandante!

III. Ulula ‘l guardo famelico e avverso,
d’in su’ un calle si piagne e duolsi in fame,
e lento s’avvicina a un sasso asperso.

Un nembo ‘l copre, e ‘l contièn un fogliame,
e la pioggia ne avvince ‘l cupo vello,
l’occhio si splende di sangue e di rame.

In tra’ la Furia iniqua un fosco augello
n’ode ei cantar un invito alla Morte
che si distende alle valli e a un ruscello.

Le pupille ne volge a’ monti, e assorte
stanno le membra nell’acre Tempesta,
e un nome oscuro n’hanno; e quest’è Sorte.

Allor la zampa mòve, ed è funesta,
e la montagna or si divien più mesta.

IV. Negro ei n’invoca le Norne del Fato,
e lento si cammina, e l’aër sbrana,
e truce ‘l fere col tetro ululato;

e a un valico procede, e all’aspra e arcana
saëtta che si grida irride l’ossa,
la fredda cuna che si mostra vana.

La vittima - una lepre - ormai è commossa,
e più non può fuggir dal suo Destino,
dente feroce, l’incrollabile possa.

Così ‘l lupo l’addenta e presso un pino
terribilmente e inferocito ‘l scuote
sicchè ne avrìa paüra anco un mastino.

Splendon di sangue e di fiele le gote,
le membra trucidate or sono immote.

V. Frattanto in ciel si placa ‘l Temporale,
e l’alpin orizzonte un po’ rischiara,
chè ormai si regna la Notte immortale.

La Luna si risplende e torva e amara
piagne l’argento alle fauci del lupo,
‘ve dell’ossame estremo v’è una bara.

L’assassin nel frattempo va a un dirupo
e agli Spiriti alpestri un canto schiude,
e ululando s’immerge a un nembo cupo.

Grida ansimando qual rapsodo rude,
e domina furioso i sassi e l’ime
selve e le cune che di spene illude.

Orrido sire ei s’estolle alle cime,
come un Titàno che sfida ‘l Sublime.

VI. Gemito bieco costui ne guaïsce,
come un corvo ‘n su’ un cranio che si muore,
e ‘l tristo pianto meschin non finisce.

Fors’ei ne intende una lagna nel core,
indefinito strazio all’osso ucciso,
pella vittima un greve e vil dolore.

Piagne la Furia che v’era al suo viso,
e flebile prosegue in tanto assillo,
chè un giovin fior ei purtroppo ha reciso.

Allora l’ululato or quale un squillo
intenerisce or le montagne aprìche,
e ‘n tra l’erbe bagnate un queto grillo.

Gemon col lupo le pietre più antiche,
e delle felci le bacche e le spiche.

VII. Oh tu… tu miserabile e infelice,
lupo cui la Natura or fu meschina,
quanto l’istinto, ahimè, ti maledice!....

Senso se’ tu, un inesorabil dente
che l’innocente preme, e non se’ ‘l Male,
donde co’ un morso ‘l tuo core si pente.

Esser vorresti fors’anche un fatale
Orco che in petto non ha che una pietra,
e un Mostro orrendo che dovunque assale.

Ma in tanta sofferenza e al cielo e all’etra
ergi uno spasmo d’arcan dispiacere,
e la tua fame nel dolor penètra.

Sbrani le coppe d’eterno dolère,
e sempre vane or son le tue preghiere!

VIII. Che ti resta alle cime? Una tristezza
cieca che specchia l’ardor della Luna,
e ‘l ventre che l’ossame ‘n fiel ne svezza.

Orsù, animale, or nella Notte bruna
va’ alla tua quercia, e consòla i figliuoli,
cui ‘l Fato istesso n’ha iscritto la runa.

Ma almen conforto sieno gli usignuoli,
e ‘l canto de’i ghiacciai, e i valichi eterni,
e degli arditi falchi i prischi voli.

La foglia attende i tuoi sospir superni,
negro l’istinto nel sonno si seda,
e ‘l sogno ne sotterra gli ansi ischerni.

Oh tu misero, oh tu che pria che ceda
la Sorte se’, qui e predator e preda!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì IV Maggio AD MMXV