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sabato 13 giugno 2015

Ode ai Monti dell'Orizzonte estivo

I. Cime di nevi or disciolte, ascoltate
questo canto nel giorno d’un Poëta,
valli montane e dolci e intemerate;

voi che mi siete l’agognata meta
e che a questo orizzonte vi splendete,
e di cui l’ombra si mostra irrequieta

e che le fresche impronte ne spargete
a questo piano, oh voi, serene cime
delle quali perenne io n’odo or sete,

e che ispirate queste belle rime,
oh voi, che al nembo sembrate smarrite,
senso d’Eterno e sentir di Sublime,

questo mio canto, su! presto sentite,
oh montagne sublimi, oh voi romite!

II. Non ho che un sogno al rimirarvi, o monti,
voi che gemete i freschi maëstrali
e che ivi abbeverate i greggi e i fonti,

o voi superni, che all’aquile l’ali
all’Infinito trascinate, e il falco,
a cullar ne volgete, o voi immortali

che dalle rocce ne traëte il talco,
e che quest’eco ripetete mesta,
d’un cacciator che soffia è l’oricalco,

non ho che un sol desìo a voi, acre Tempesta
d’immota pietra, e freddi ruscelli, e ore,
voi, che alle nubi alzate la foresta

e che regnate la convalle in fiore,
o voi che siete il perno del mio cuore,

III. voi, serene potenze all’Alpi e ai sordi
orecchi degli Spiriti montani,
Mostri gentili di sassi e di fiordi,

sterpi pietrosi che s’èrgon lontani,
o voi, valichi eterni in cui mi spreco
e che reggete i castel, quei più arcani,

e che aver ne sembrate un aër bieco,
il qual inizialmente fa paüra,
molteplici occhi d’un Ciclope cieco,

non ho che un’ansia brama e che una cura
a voi che siete aguzzi come acciari,
e che ne dominate la Natura,

o voi campestri e alpestri e nudi mari
dei boschi e dei lor spirti tutelari,

IV. non ho che un sol volèr, voi del Melezzo
ripe rocciose che aprite i confini
all’elvetica terra, o voi che il vezzo

tanto mi siete dell’Anima, e i pini
nutrite di torrenti, e io ho un sogno, e dico:
che bramo rivedèr i vostri alpini

freschi villaggi, e l’orizzonte aprìco,
e le boscaglie vostre, e i lusinghieri
valichi ombrosi, or del viandante intrìco,

e i vostri cupi, e imi e lunghi sentieri,
i quieti tigli, e i placidi castagni,
e l’alte nevi falbe come ceri,

e te vò rivedèr ruscel che bagni  
quest’aspre sponde dalle qual ti lagni.

V. Oh monti, voi mi siete e Vita e spene,
voi che argentate le vette sublimi
nei brividi segreti di mie vene.

Voi, piacèr tutto mio, piccoli ed imi
sogno perdutamente, e i vostri pruni,
e i fiorellini vostri e amari i timi,

voi che mi siete le fonti d’alcuni
gaudi frequenti, e d’un calmo pensiero,
sguardi di sassi onnipossenti e bruni.

Ma qui in pianura si perde nel nero
truce tramonto questo vostro ardore,
e per me siete avvolti nel mistero.

Pur, tra le fosche vi scorgo il pallore,
voi che montagne sarete il mio Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XIII Giugno AD MMXV

lunedì 4 maggio 2015

Ode a un Lupo di Montagna

I. Culla ‘l baglior d’un Temporale un fiore,
e ‘l petalo ne terge, e ‘l montanaro
vespro si pinge d’insano dolore.

Qui la pioggia si gronda, e ‘n suso ‘l raro
cardo la felce ne scioglie un lamento,
e ‘l valico s’estolle e oscuro e amaro.

Le arcane Furie vanno, e urlando ‘l vento
le frasche e le foreste altèro spoglia,
un’ombra orrenda di crudel tormento.

Geme di strazio un’incognita foglia,
e la quercia si trema, e ‘l suol s’inonda,
e l’orizzonte si rosseggia in doglia.

Ahi quanto ‘n cielo la folgore bionda
quivi si mostra, un’Anima iraconda!

II. Urlano or l’Alpi a un fatal maëstrale,
la pietra che si lagna ‘n muto grido,
la lenta Morte che dischiude l’ale.

D’in su un ghiaccio un torrente avanza infìdo,
e de’i fulgòri l’ombra all’onde ei flette,
qual ne trema al tonàr un terreo nido.

Eppur, frattanto, alle scoscese vette
un’eco si diffonde a un tòno altèro,
un insolito trillo a’ rocce grette.

Non è cotesto ‘l corno che a un sentiero
queto ne stringe ‘l cacciator errante,
né ‘l tetro rostro d’un folle sparviero.

E che fia se non questo?.... Un spasimante
manto di lupo, uno Spettro, un viandante!

III. Ulula ‘l guardo famelico e avverso,
d’in su’ un calle si piagne e duolsi in fame,
e lento s’avvicina a un sasso asperso.

Un nembo ‘l copre, e ‘l contièn un fogliame,
e la pioggia ne avvince ‘l cupo vello,
l’occhio si splende di sangue e di rame.

In tra’ la Furia iniqua un fosco augello
n’ode ei cantar un invito alla Morte
che si distende alle valli e a un ruscello.

Le pupille ne volge a’ monti, e assorte
stanno le membra nell’acre Tempesta,
e un nome oscuro n’hanno; e quest’è Sorte.

Allor la zampa mòve, ed è funesta,
e la montagna or si divien più mesta.

IV. Negro ei n’invoca le Norne del Fato,
e lento si cammina, e l’aër sbrana,
e truce ‘l fere col tetro ululato;

e a un valico procede, e all’aspra e arcana
saëtta che si grida irride l’ossa,
la fredda cuna che si mostra vana.

La vittima - una lepre - ormai è commossa,
e più non può fuggir dal suo Destino,
dente feroce, l’incrollabile possa.

Così ‘l lupo l’addenta e presso un pino
terribilmente e inferocito ‘l scuote
sicchè ne avrìa paüra anco un mastino.

Splendon di sangue e di fiele le gote,
le membra trucidate or sono immote.

V. Frattanto in ciel si placa ‘l Temporale,
e l’alpin orizzonte un po’ rischiara,
chè ormai si regna la Notte immortale.

La Luna si risplende e torva e amara
piagne l’argento alle fauci del lupo,
‘ve dell’ossame estremo v’è una bara.

L’assassin nel frattempo va a un dirupo
e agli Spiriti alpestri un canto schiude,
e ululando s’immerge a un nembo cupo.

Grida ansimando qual rapsodo rude,
e domina furioso i sassi e l’ime
selve e le cune che di spene illude.

Orrido sire ei s’estolle alle cime,
come un Titàno che sfida ‘l Sublime.

VI. Gemito bieco costui ne guaïsce,
come un corvo ‘n su’ un cranio che si muore,
e ‘l tristo pianto meschin non finisce.

Fors’ei ne intende una lagna nel core,
indefinito strazio all’osso ucciso,
pella vittima un greve e vil dolore.

Piagne la Furia che v’era al suo viso,
e flebile prosegue in tanto assillo,
chè un giovin fior ei purtroppo ha reciso.

Allora l’ululato or quale un squillo
intenerisce or le montagne aprìche,
e ‘n tra l’erbe bagnate un queto grillo.

Gemon col lupo le pietre più antiche,
e delle felci le bacche e le spiche.

VII. Oh tu… tu miserabile e infelice,
lupo cui la Natura or fu meschina,
quanto l’istinto, ahimè, ti maledice!....

Senso se’ tu, un inesorabil dente
che l’innocente preme, e non se’ ‘l Male,
donde co’ un morso ‘l tuo core si pente.

Esser vorresti fors’anche un fatale
Orco che in petto non ha che una pietra,
e un Mostro orrendo che dovunque assale.

Ma in tanta sofferenza e al cielo e all’etra
ergi uno spasmo d’arcan dispiacere,
e la tua fame nel dolor penètra.

Sbrani le coppe d’eterno dolère,
e sempre vane or son le tue preghiere!

VIII. Che ti resta alle cime? Una tristezza
cieca che specchia l’ardor della Luna,
e ‘l ventre che l’ossame ‘n fiel ne svezza.

Orsù, animale, or nella Notte bruna
va’ alla tua quercia, e consòla i figliuoli,
cui ‘l Fato istesso n’ha iscritto la runa.

Ma almen conforto sieno gli usignuoli,
e ‘l canto de’i ghiacciai, e i valichi eterni,
e degli arditi falchi i prischi voli.

La foglia attende i tuoi sospir superni,
negro l’istinto nel sonno si seda,
e ‘l sogno ne sotterra gli ansi ischerni.

Oh tu misero, oh tu che pria che ceda
la Sorte se’, qui e predator e preda!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì IV Maggio AD MMXV

lunedì 23 marzo 2015

Un'Ode romantica alla Notte

I. Oh candida e notturna e oscura quiete,
cranio perenne d’una Notte informe,
ahi quanto ne divori queste mete!....

E quanto questi boschi, e a’ terra l’orme
degl’incubi fuggenti, e un’alma viola
nel petalo racchiusa che sen dorme;

e tanto mi tormenti e in ragna e in spola,
folli desiri d’un mesto Poëta
che spasmando si lagna e si consòla!

Morti gli onori, si crolla la pièta,
e nel petto mi mesci insan dolore,
né i’ so più qual ne sia l’ambita meta.

Notte perenne, eternamente in core,
e la Luna che splende è un scialbo fiore!

II. Vanamente s’attende ‘l ciel dell’alba,
l’argento delle nubi al Sol che torna,
rosea la luce che s’agita scialba.

Non v’è che questa Notte, ombrosa e adorna
di spettri vagolanti a un fonte cupo,
e mai ‘la si finisce e si raggiorna.

Tristo n’appare un eterno dirupo,
un bàratro di tomba, e un sepolcrale
canto di nenia, un lamento d’un lupo;

e cotesto pensar che schiude l’ale
a’ miei sensi irrequieti e a’ folle lagna,
flebilmente si grida e qui m’assale.

Oh Notte, oh Spettro, ve’, quel che mi bagna,
un pianto di paüra alla campagna!

III. Le Valchirie de’i nembi, intanto, or negro
condensano l’empìro, e co’ fulgori -
d’empi destrieri - l’orizzonte allegro;

donde le Norne ne grondan furori,
le ragne della Vita e della Morte,
degl’invitti guerrieri i sacri allori.

Oh Notte! Or queste mani all’Orco assorte,
guarda: che tàglian i fatal capei
che adducono ‘l Sole a’ oscure porte!....

Odi! Un murmure eterno, ‘l vol d’augei,
strige che canta un mortal pentimento
che se non fosse muto i’ ben udrei.

Allora pur del vespro al lenimento,
in te, o tenebra, accresce lo spavento.  

IV. Frattanto alle foreste un truce corno
delle cacce n’annunzia ‘l fin protervo,
e ‘l lugubre sonàr s’espande intorno.

Sanguina al legno l’aggrappato cervo,
e ‘l cànide falchetto al ciel guaïsce,
e al rostro insanguinato or scende un nervo,

e un galoppante Mostro si nitrisce
e in tra l’ombre dilegua, e al bosco rude,
vittima insana che lenta vagisce.

Sono le chiome delle cerve ignude,
i gemiti de’i morti, e augei sanguigni
che ‘l cacciator di ricompensa illude.

Ma tu, oh Notte che ‘l senti, a che mai frigni?....
Bèviti ‘l Fato degli ultimi cigni!

V. Eternamente allora e in ansie e a stento
nelle tenebre i’ n’erro, e vagabondo
al mio labbro i’ ne suggo ‘l freddo vento.

Allor i miei sentieri i’ ben ne pondo,
bendato dalle Furie e gli Elementi,
cielo che mugge e che tòna iracondo.

Illusioni ne fûr i Sentimenti,
sogni le ragne tessuti dal Fato,
perenni lamentanze e patimenti;

né tenèr una tede or qui m’è dato,
l’ardor d’una lucerna al passo incerto,
né posse i’ n’ho tuttor, né Vita e fiato.

Forse i’ raccolgo lo strazio che merto,
lo scettro delle lagne, e d’ansie ‘l serto!

VI. Così nel tenebror delle foreste,
e all’inchiostro del ciel i’ affranto poso,
e lampeggiar ne veggo le Tempeste.

Queste ne sono lontane e all’ombroso
e tremulo ghiacciar d’un erto monte,
un cui picco si tòna ed è impetuoso;

e la pece a squarciar dell’orizzonte
dinnante al guardo mio sen vanno, e all’ime
valli e a’ ruscelli, e alla riviera e a un fonte.

Ma vano è questo lume, e queste cime,
e le folgori orrende e svelte e mute,
e ‘l Temporal che s’agita sublime;

e i’ le speni tuttor n’ho più perdute,
e un nugolo ‘l terror nel cor m’incute.

VII. Crepuscolo perenne! E muor l’aurora
nel letto delle tenebre e de’i salci,
e nel sepolcro muto allor s’infiora.

Fumo di spettri nel lagnar dell’alci,
oh Notte, tu ne se’ eterna e infinita,
vòmere infame, e ne’i campi le falci!....

E allora ne berrai cotesta Vita,
e le pulsanti vene, e ‘l labbro e ‘l volto
che inquietamente i’ volgo in via smarrita?....

Dunque godrai di cotesto raccolto
che giovine e perduto si dispera,
e cui Amore e la requie e tutto è tolto?....

Oh Notte antica e rea di Primavera,
sii meco più melliflua e men altèra!

VIII. E quanto la tua Luna agli arboscelli
fiocamente splendendo a me impaurisce,
al canto de’i funerei e negri augelli!

Esta nel cielo sen sta e tetra agisce
in su’i boschi affannosi e all’alte vette,
ma pur più d’un momento si svanisce.

Cupa in tra’i nembi ne scaglia saëtte
di latte che infocato indarno cola,
gote di marmo, l’impronte neglette.

Così nell’aër che tremulo vola
una tomba ‘la appar e un’urna in rame,
e ‘l lume suo oramai n’è trista fola.

Non è che in tra’ le nubi un cupo ossame,
altro che un spettro che vaga al fogliame.

IX. Ma frattanto ‘l silenzio ovunque inghiotte
le nenie delle nottole, e i rapaci,
e le ripe selvagge e queste grotte.

Incognite le posse e i ciel fugaci
soffiano muti pe’i torrenti altèri,
ove perennemente, o Notte, giaci.

Invisibili spettri or pe’i sentieri
si distendono, e in loro tu ne gridi,
urla feroci d’insani guerrieri.

Eppur e sempre calmi questi lidi
sono, e ne veggo la Luna fanciulla
che timida si splende a’ vaghi nidi.

Ma tuttora ne temo, e a una betulla
una Furia m’assale: ‘l fiero Nulla.

X. Oh Notte, ‘l tramontar del Sole hai scorto,
un roseo tintinnio di nembi e d’alta
vetta d’un monte che brillava assorto.

Ma or pur me ne contempli a questa malta
notturna e a questi boschi, e all’imbrunire
della Vita che trema; onde m’assalta

l’orrida spira del tuo aspro avvenire,
l’irrequieto mistèr del cielo occulto,
e ‘l flebile sopor che vôl dormire.

Pertanto in te i’ mi giacio, e co’ un singulto
l’ultime e dolci speni al ciel emetto,
spir d’un Poëta che si lagna inulto.

Allor i’ poserò d’in sul tuo letto,
oh Notte, oh strige, oh arcano, oh bruno aspetto!

XI. Or nel sonno i’ n’ascolto ‘l lupo ansante,
la muta zampa al suolo, e l’orma greve,
e la voce del grillo tintinnante.

Odo le doglie dell’erba che lieve
al vento le sue polvi ne trascina,
e quel che sòna un bronzo d’una pieve.

Allora a un sogno ‘l sonno mi destina,
incubo estremo d’un vibrante core,
e l’aura istessa e in cielo m’è ferina.

Sempre paüra e sempre più dolore,
inquietudine amara, e tetra e folle;
e così i’ ne trascorro e in ansie l’ore.

Oh Notte che ne gridi in fin a un colle!
Spettro che sorge da tremende zolle!

XII. Ma verrà almeno l’alba? Questa che i’ nego?....
Paüra fu soltanto, e stordimenti?....
Ciel! Che mi desti e sia alba; ‘l vò, e ‘l prego!

Tra le cune sen vanno i freddi venti,
della Luna uno stral di pio rubino,
e forse ‘l giorno viene, e i lumi lenti.

Notte che taci e che esalti ‘l Destino,
allora ti rischiari e lentamente
allumini di Sole e ‘l cardo e ‘l pino.

Oh Notte che ne muori e che dormiente
a svanir qui t’appresti, oh Notte, addio,
Notte che tanto m’hai fatto soffrente!....

Alfine ne sorride ‘l core mio;
ecco! n’appare ‘l giorno: ha vinto Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XX, Sabato XXI, Domenica XXII Marzo AD MMXV

mercoledì 18 marzo 2015

Ode-sonetto d'un Poeta romantico dinnante alle Montagne

I. Un Paesaggio di Montagna

All’orizzonte i’ veggo i monti antichi,
e le cime innevate, e i calli e i boschi,
l’ime convalli e i praticèl aprichi.

I ghiacci che sen stanno or muti e foschi
pe’i ruscel si dileguano, e acquitrino
l’alveo è di questi e pe’i ghiacciati toschi.

Ma dinnante i’ n’ammiro ‘l negro pino,
e l’erta che rocciosa in suso sale,
Mostro che grida un insano Destino;

e qui soävemente ‘l maëstrale
pell’argento del ghiaccio altèro spira,
e l’aquila in cotesto or n’apre l’ale.

Allor quest’occhio mesto in ciel ammira
esta regina che trista s’aggira.

Frattanto ne risòna un oricalco
d’un cacciator che va pel sasso alpestre,
mentre in tra’i nembi si lamenta un falco;

e quivi e mesto i’ volgo al fior silvestre
d’un timo che si cresce all’erba fresca,
come all’ermo ne fan le pie ginestre.

Ma quella ch’i’ ne veggo la donnesca
ombra d’un picco cotanto i’ pavento
che sublime mi par; e pria che cresca

questa paüra, i’ ne contemplo ‘l vento,
un gelido sorriso d’un torrente
che in petto mi ravviva ‘l cor sgomento.

Così melliflua m’appar la sorgente,
che sciògliesi la neve a un ciel gemente.

Eppur, ora che all’ima valle i’ volgo
e i baratri i’ n’ammiro, e i campanili,
un tormento tuttor tra’i monti accolgo.

Piccioli sono i campagnòl fienili,
e quasi con un pugno i’ qui li afferro,
quivi in su’un monte e in tra’i venti gentili.

Così i’ mi perdo in esti, e sempre i’ n’erro
co’un stordimento all’occhio e in sensi inqueti,
tra le terre pietrose, e ‘l monte è un sgherro;

e i ruscelli mi sono or sì irrequieti
che ‘l loro sospirar m’è ‘l sangue in core,
nivei e argentati e tormentati greti.

Oh sconfinate valli in bel sopore!....
Oh erte che sale ‘l crudel cacciatore!

II. Al Sospir della Montagna

Ahi tu che i’ qui n’intendo, oh tenue spiro,
dell’eterna montagna in nivee cime,
or pel qual palpitando i’ ognor m’aggiro!

D’in sull’occàso urlando e in fino all’ime
valli tu involi una lagnanza alpina,
sicchè or quivi mi se’ e dolce e sublime;

e agli incogniti boschi e a’ mirti in spina
la tua possa m’adduce e in torneamento
agli ultimi ghiacciai or qui mi destina.

Allor nel tuo soffiar un Sentimento
di gelide inquietudini mi splende,
e al tuo ciel vagolando i’ n’erro lento;

e forse ‘l tuo sorriso già m’attende,
e i passi miei in tra’i venti tosto intende.

Come le grida d’un destriero errante
frattanto ne lamenti un canto oscuro,
una lagna d’un nembo rattristante,

e tristo risoffiando e bieco e impuro
m’appar d’una Valchiria in possa estrema,
donde dell’ansie fatal mi spaüro.

Se’ tu forse la nenia e l’anatèma
d’este convalli che vanno alla Morte?....
Se’ tu che vuoi che ‘l core omai mi gema?....

Oh spiro, oh spir dell’Alpe in cime assorte,
che per le valli vai e per le foreste,
ahi quanto se’ la collera di Sorte!....

E i’ qui teco mi gemo, e in tue tempeste
le lagrime ne tergo ansiose e meste!

Come ‘l vespro che grida, vien! e annienta
l’orride pietre e de’i torrenti i sassi
e ‘l fonte che montano si tormenta,

e i valichi notturni a’ qual ne passi,
e i propinqui villaggi, e ‘l cielo immenso,
e i guadi e l’alte speni, e gli urli e i lassi!....

Perché tu se’ una Furia, e ‘l queto senso
mi dice d’istigarti al vol de’i fonti,
e ben perché tu se’ or possente e immenso.

Oh spiro di montagna! Oh spir de’i monti,
ansie d’un folle che muore e che tace!
Oh cantico di pianto agli orizzonti!....

Ma nel tuo mormorar tetro e rapace,
pur spaürando n’ho un’ambita pace!

III. Un Sogno. Eterna Valanga

A un corno che si geme e a’ monti i’ piagno
nel mellifluo membrar d’un sogno muto,
donde nel vento tormentando i’ lagno.

Allor i’ qui mi giacio e son perduto,
al gelo delle nevi e della sera,
e quel che m’è rimasto è questo liuto.

Ahimè, che lasso arpeggio, e qual preghiera!....
La valanga si scioglie e grida all’eco
esto cantar che mi duol d’arpa altèra;

e la Natura or volge un labbro bieco
nel qual mirando un’ira i’ n’ho tormenti,
volto di Notte dilettuoso e cieco.

Seppellite, oh convalli, e in furia a’ venti
quei che rimembro i fugaci momenti!

Tanto i’ piagneva d’Amore e i’ soffrìa
nel maggio che dall’Alpe un ghiaccio espose,
e qual la Primavera ‘la fuggìa,

donde fûr sogni le donate rose,
e i sospir d’un Poëta or vagolante
pe’i valichi irrequieti e in selve ascose.

Nemmen i’ n’ho le posse e l’ansimante
estro in narrar le trascorse sventure,
e febbrìl i’ tramonto; e l’albeggiante

ciel m’è conteso da’i sensi, e le cure
m’opprimono le speni, e l’avvenire
in forme si palesa orrende e oscure.

Per esto sogno che sen va a morire
maledetto ne sia costì ‘l dormire!

Cupa si grida la montagna negra,
e all’orizzonte i’ ascolto un urlo arcano,
mesta canzone di pia cingallegra.

Ma del sogno la vetta e a un cal lontano
sciogliendosi m’annega, e seppellisce
l’ansio canto, esto labbro e questa mano.

La valanga!.... E chi adesso ‘l compatisce
questo Poëta che geme sepolto?....
Silenzio! E la convalle si frinisce.

Non ho più sogni, né un occhio, né un volto,
la Primavera fugge, e ‘l sogno muore
naufragando ne’i ghiacci, eterno e sciolto.

Fuvvi un membrar, un sognare d’Amore,
un senso che durò un spiro d’un core!

IV. Le Rovine d’un Villaggio di Montagna

Alle chiome de’i sassi ‘ve i’ mi seggo,
quando i’ ne volgo all’ime contrade,
in ruderi un villaggio alpin i’ veggo;

e un’ansia prepotente in cor m’invade,
senso di duolo alle rovine antiche,
e una trave i’ ne scorgo a un mur che cade.

Ma d’intorno si stan le valli aprìche,
e al gaudio e alla mestizia i’ mesco ‘l core,
come ne’i campi la falce alle spiche,

e delle pietre ‘l negro e inqueto ardore
dolcemente i’ contemplo in scialba neve,
nel Sole che in sul vespro or scende e muore.

Oh ghiaccio che ti sciogli e che se’ lieve!
Oh ruderi de’i tetti e d’una pieve!....

Oscure le dimore in ghiaccio eterno
la valanga si posa e ‘l seppellisce,
quivi, nell’Alpe dond’è sempre ‘l verno,

e una stalla gelata omai nitrisce
d’orrida Morte e di possanze arcane,
e i’ non so dove ‘l villaggio finisce:

forse all’ombra delle soglie e veglie e vane,
o forse ‘ve si giace ‘l campanile,
del qual un sacro bronzo si permane.

Ma questo mar di sassi or m’è gentile,
un fior di smarrimento a’ mente lassa,
ove si soffia in su’i venti l’aprile.

Così quest’occhio a’ ruderi s’ammassa,
e d’in su’un cielo e un altro or tosto passa.

Vola a mirar l’orizzonte che inghiotte
i nivei e tersi tetti e l’orbe soglie
nel tacito venir di questa Notte,

e i cardi e i pini attigui e l’alme foglie,
e la sepolta chiesa, e ‘l cimitero
‘ve d’uno spettro lo spasmo s’accoglie.

Calpesto i’ forse l’ossa?.... Oh reo sentiero
le tombe n’hai sepolto, e qui i’ ne calco
la Morte che sen dorme al vespro altèro!....

Così rabbrividisco, e sprezzo ‘l vâlco
che in su’ una vetta porta e cupa e bieca,
nido feroce d’un gemente falco;

e spasmando in timore ‘l labbro preca,
e i’ quivi mi tormento a’ Notte cieca.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XV, Lunedì XVI, Martedì XVII, Mercoledì XVIII Marzo AD MMXV