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lunedì 23 marzo 2015

Un'Ode romantica alla Notte

I. Oh candida e notturna e oscura quiete,
cranio perenne d’una Notte informe,
ahi quanto ne divori queste mete!....

E quanto questi boschi, e a’ terra l’orme
degl’incubi fuggenti, e un’alma viola
nel petalo racchiusa che sen dorme;

e tanto mi tormenti e in ragna e in spola,
folli desiri d’un mesto Poëta
che spasmando si lagna e si consòla!

Morti gli onori, si crolla la pièta,
e nel petto mi mesci insan dolore,
né i’ so più qual ne sia l’ambita meta.

Notte perenne, eternamente in core,
e la Luna che splende è un scialbo fiore!

II. Vanamente s’attende ‘l ciel dell’alba,
l’argento delle nubi al Sol che torna,
rosea la luce che s’agita scialba.

Non v’è che questa Notte, ombrosa e adorna
di spettri vagolanti a un fonte cupo,
e mai ‘la si finisce e si raggiorna.

Tristo n’appare un eterno dirupo,
un bàratro di tomba, e un sepolcrale
canto di nenia, un lamento d’un lupo;

e cotesto pensar che schiude l’ale
a’ miei sensi irrequieti e a’ folle lagna,
flebilmente si grida e qui m’assale.

Oh Notte, oh Spettro, ve’, quel che mi bagna,
un pianto di paüra alla campagna!

III. Le Valchirie de’i nembi, intanto, or negro
condensano l’empìro, e co’ fulgori -
d’empi destrieri - l’orizzonte allegro;

donde le Norne ne grondan furori,
le ragne della Vita e della Morte,
degl’invitti guerrieri i sacri allori.

Oh Notte! Or queste mani all’Orco assorte,
guarda: che tàglian i fatal capei
che adducono ‘l Sole a’ oscure porte!....

Odi! Un murmure eterno, ‘l vol d’augei,
strige che canta un mortal pentimento
che se non fosse muto i’ ben udrei.

Allora pur del vespro al lenimento,
in te, o tenebra, accresce lo spavento.  

IV. Frattanto alle foreste un truce corno
delle cacce n’annunzia ‘l fin protervo,
e ‘l lugubre sonàr s’espande intorno.

Sanguina al legno l’aggrappato cervo,
e ‘l cànide falchetto al ciel guaïsce,
e al rostro insanguinato or scende un nervo,

e un galoppante Mostro si nitrisce
e in tra l’ombre dilegua, e al bosco rude,
vittima insana che lenta vagisce.

Sono le chiome delle cerve ignude,
i gemiti de’i morti, e augei sanguigni
che ‘l cacciator di ricompensa illude.

Ma tu, oh Notte che ‘l senti, a che mai frigni?....
Bèviti ‘l Fato degli ultimi cigni!

V. Eternamente allora e in ansie e a stento
nelle tenebre i’ n’erro, e vagabondo
al mio labbro i’ ne suggo ‘l freddo vento.

Allor i miei sentieri i’ ben ne pondo,
bendato dalle Furie e gli Elementi,
cielo che mugge e che tòna iracondo.

Illusioni ne fûr i Sentimenti,
sogni le ragne tessuti dal Fato,
perenni lamentanze e patimenti;

né tenèr una tede or qui m’è dato,
l’ardor d’una lucerna al passo incerto,
né posse i’ n’ho tuttor, né Vita e fiato.

Forse i’ raccolgo lo strazio che merto,
lo scettro delle lagne, e d’ansie ‘l serto!

VI. Così nel tenebror delle foreste,
e all’inchiostro del ciel i’ affranto poso,
e lampeggiar ne veggo le Tempeste.

Queste ne sono lontane e all’ombroso
e tremulo ghiacciar d’un erto monte,
un cui picco si tòna ed è impetuoso;

e la pece a squarciar dell’orizzonte
dinnante al guardo mio sen vanno, e all’ime
valli e a’ ruscelli, e alla riviera e a un fonte.

Ma vano è questo lume, e queste cime,
e le folgori orrende e svelte e mute,
e ‘l Temporal che s’agita sublime;

e i’ le speni tuttor n’ho più perdute,
e un nugolo ‘l terror nel cor m’incute.

VII. Crepuscolo perenne! E muor l’aurora
nel letto delle tenebre e de’i salci,
e nel sepolcro muto allor s’infiora.

Fumo di spettri nel lagnar dell’alci,
oh Notte, tu ne se’ eterna e infinita,
vòmere infame, e ne’i campi le falci!....

E allora ne berrai cotesta Vita,
e le pulsanti vene, e ‘l labbro e ‘l volto
che inquietamente i’ volgo in via smarrita?....

Dunque godrai di cotesto raccolto
che giovine e perduto si dispera,
e cui Amore e la requie e tutto è tolto?....

Oh Notte antica e rea di Primavera,
sii meco più melliflua e men altèra!

VIII. E quanto la tua Luna agli arboscelli
fiocamente splendendo a me impaurisce,
al canto de’i funerei e negri augelli!

Esta nel cielo sen sta e tetra agisce
in su’i boschi affannosi e all’alte vette,
ma pur più d’un momento si svanisce.

Cupa in tra’i nembi ne scaglia saëtte
di latte che infocato indarno cola,
gote di marmo, l’impronte neglette.

Così nell’aër che tremulo vola
una tomba ‘la appar e un’urna in rame,
e ‘l lume suo oramai n’è trista fola.

Non è che in tra’ le nubi un cupo ossame,
altro che un spettro che vaga al fogliame.

IX. Ma frattanto ‘l silenzio ovunque inghiotte
le nenie delle nottole, e i rapaci,
e le ripe selvagge e queste grotte.

Incognite le posse e i ciel fugaci
soffiano muti pe’i torrenti altèri,
ove perennemente, o Notte, giaci.

Invisibili spettri or pe’i sentieri
si distendono, e in loro tu ne gridi,
urla feroci d’insani guerrieri.

Eppur e sempre calmi questi lidi
sono, e ne veggo la Luna fanciulla
che timida si splende a’ vaghi nidi.

Ma tuttora ne temo, e a una betulla
una Furia m’assale: ‘l fiero Nulla.

X. Oh Notte, ‘l tramontar del Sole hai scorto,
un roseo tintinnio di nembi e d’alta
vetta d’un monte che brillava assorto.

Ma or pur me ne contempli a questa malta
notturna e a questi boschi, e all’imbrunire
della Vita che trema; onde m’assalta

l’orrida spira del tuo aspro avvenire,
l’irrequieto mistèr del cielo occulto,
e ‘l flebile sopor che vôl dormire.

Pertanto in te i’ mi giacio, e co’ un singulto
l’ultime e dolci speni al ciel emetto,
spir d’un Poëta che si lagna inulto.

Allor i’ poserò d’in sul tuo letto,
oh Notte, oh strige, oh arcano, oh bruno aspetto!

XI. Or nel sonno i’ n’ascolto ‘l lupo ansante,
la muta zampa al suolo, e l’orma greve,
e la voce del grillo tintinnante.

Odo le doglie dell’erba che lieve
al vento le sue polvi ne trascina,
e quel che sòna un bronzo d’una pieve.

Allora a un sogno ‘l sonno mi destina,
incubo estremo d’un vibrante core,
e l’aura istessa e in cielo m’è ferina.

Sempre paüra e sempre più dolore,
inquietudine amara, e tetra e folle;
e così i’ ne trascorro e in ansie l’ore.

Oh Notte che ne gridi in fin a un colle!
Spettro che sorge da tremende zolle!

XII. Ma verrà almeno l’alba? Questa che i’ nego?....
Paüra fu soltanto, e stordimenti?....
Ciel! Che mi desti e sia alba; ‘l vò, e ‘l prego!

Tra le cune sen vanno i freddi venti,
della Luna uno stral di pio rubino,
e forse ‘l giorno viene, e i lumi lenti.

Notte che taci e che esalti ‘l Destino,
allora ti rischiari e lentamente
allumini di Sole e ‘l cardo e ‘l pino.

Oh Notte che ne muori e che dormiente
a svanir qui t’appresti, oh Notte, addio,
Notte che tanto m’hai fatto soffrente!....

Alfine ne sorride ‘l core mio;
ecco! n’appare ‘l giorno: ha vinto Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XX, Sabato XXI, Domenica XXII Marzo AD MMXV

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