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mercoledì 18 marzo 2015

Ode-sonetto d'un Poeta romantico dinnante alle Montagne

I. Un Paesaggio di Montagna

All’orizzonte i’ veggo i monti antichi,
e le cime innevate, e i calli e i boschi,
l’ime convalli e i praticèl aprichi.

I ghiacci che sen stanno or muti e foschi
pe’i ruscel si dileguano, e acquitrino
l’alveo è di questi e pe’i ghiacciati toschi.

Ma dinnante i’ n’ammiro ‘l negro pino,
e l’erta che rocciosa in suso sale,
Mostro che grida un insano Destino;

e qui soävemente ‘l maëstrale
pell’argento del ghiaccio altèro spira,
e l’aquila in cotesto or n’apre l’ale.

Allor quest’occhio mesto in ciel ammira
esta regina che trista s’aggira.

Frattanto ne risòna un oricalco
d’un cacciator che va pel sasso alpestre,
mentre in tra’i nembi si lamenta un falco;

e quivi e mesto i’ volgo al fior silvestre
d’un timo che si cresce all’erba fresca,
come all’ermo ne fan le pie ginestre.

Ma quella ch’i’ ne veggo la donnesca
ombra d’un picco cotanto i’ pavento
che sublime mi par; e pria che cresca

questa paüra, i’ ne contemplo ‘l vento,
un gelido sorriso d’un torrente
che in petto mi ravviva ‘l cor sgomento.

Così melliflua m’appar la sorgente,
che sciògliesi la neve a un ciel gemente.

Eppur, ora che all’ima valle i’ volgo
e i baratri i’ n’ammiro, e i campanili,
un tormento tuttor tra’i monti accolgo.

Piccioli sono i campagnòl fienili,
e quasi con un pugno i’ qui li afferro,
quivi in su’un monte e in tra’i venti gentili.

Così i’ mi perdo in esti, e sempre i’ n’erro
co’un stordimento all’occhio e in sensi inqueti,
tra le terre pietrose, e ‘l monte è un sgherro;

e i ruscelli mi sono or sì irrequieti
che ‘l loro sospirar m’è ‘l sangue in core,
nivei e argentati e tormentati greti.

Oh sconfinate valli in bel sopore!....
Oh erte che sale ‘l crudel cacciatore!

II. Al Sospir della Montagna

Ahi tu che i’ qui n’intendo, oh tenue spiro,
dell’eterna montagna in nivee cime,
or pel qual palpitando i’ ognor m’aggiro!

D’in sull’occàso urlando e in fino all’ime
valli tu involi una lagnanza alpina,
sicchè or quivi mi se’ e dolce e sublime;

e agli incogniti boschi e a’ mirti in spina
la tua possa m’adduce e in torneamento
agli ultimi ghiacciai or qui mi destina.

Allor nel tuo soffiar un Sentimento
di gelide inquietudini mi splende,
e al tuo ciel vagolando i’ n’erro lento;

e forse ‘l tuo sorriso già m’attende,
e i passi miei in tra’i venti tosto intende.

Come le grida d’un destriero errante
frattanto ne lamenti un canto oscuro,
una lagna d’un nembo rattristante,

e tristo risoffiando e bieco e impuro
m’appar d’una Valchiria in possa estrema,
donde dell’ansie fatal mi spaüro.

Se’ tu forse la nenia e l’anatèma
d’este convalli che vanno alla Morte?....
Se’ tu che vuoi che ‘l core omai mi gema?....

Oh spiro, oh spir dell’Alpe in cime assorte,
che per le valli vai e per le foreste,
ahi quanto se’ la collera di Sorte!....

E i’ qui teco mi gemo, e in tue tempeste
le lagrime ne tergo ansiose e meste!

Come ‘l vespro che grida, vien! e annienta
l’orride pietre e de’i torrenti i sassi
e ‘l fonte che montano si tormenta,

e i valichi notturni a’ qual ne passi,
e i propinqui villaggi, e ‘l cielo immenso,
e i guadi e l’alte speni, e gli urli e i lassi!....

Perché tu se’ una Furia, e ‘l queto senso
mi dice d’istigarti al vol de’i fonti,
e ben perché tu se’ or possente e immenso.

Oh spiro di montagna! Oh spir de’i monti,
ansie d’un folle che muore e che tace!
Oh cantico di pianto agli orizzonti!....

Ma nel tuo mormorar tetro e rapace,
pur spaürando n’ho un’ambita pace!

III. Un Sogno. Eterna Valanga

A un corno che si geme e a’ monti i’ piagno
nel mellifluo membrar d’un sogno muto,
donde nel vento tormentando i’ lagno.

Allor i’ qui mi giacio e son perduto,
al gelo delle nevi e della sera,
e quel che m’è rimasto è questo liuto.

Ahimè, che lasso arpeggio, e qual preghiera!....
La valanga si scioglie e grida all’eco
esto cantar che mi duol d’arpa altèra;

e la Natura or volge un labbro bieco
nel qual mirando un’ira i’ n’ho tormenti,
volto di Notte dilettuoso e cieco.

Seppellite, oh convalli, e in furia a’ venti
quei che rimembro i fugaci momenti!

Tanto i’ piagneva d’Amore e i’ soffrìa
nel maggio che dall’Alpe un ghiaccio espose,
e qual la Primavera ‘la fuggìa,

donde fûr sogni le donate rose,
e i sospir d’un Poëta or vagolante
pe’i valichi irrequieti e in selve ascose.

Nemmen i’ n’ho le posse e l’ansimante
estro in narrar le trascorse sventure,
e febbrìl i’ tramonto; e l’albeggiante

ciel m’è conteso da’i sensi, e le cure
m’opprimono le speni, e l’avvenire
in forme si palesa orrende e oscure.

Per esto sogno che sen va a morire
maledetto ne sia costì ‘l dormire!

Cupa si grida la montagna negra,
e all’orizzonte i’ ascolto un urlo arcano,
mesta canzone di pia cingallegra.

Ma del sogno la vetta e a un cal lontano
sciogliendosi m’annega, e seppellisce
l’ansio canto, esto labbro e questa mano.

La valanga!.... E chi adesso ‘l compatisce
questo Poëta che geme sepolto?....
Silenzio! E la convalle si frinisce.

Non ho più sogni, né un occhio, né un volto,
la Primavera fugge, e ‘l sogno muore
naufragando ne’i ghiacci, eterno e sciolto.

Fuvvi un membrar, un sognare d’Amore,
un senso che durò un spiro d’un core!

IV. Le Rovine d’un Villaggio di Montagna

Alle chiome de’i sassi ‘ve i’ mi seggo,
quando i’ ne volgo all’ime contrade,
in ruderi un villaggio alpin i’ veggo;

e un’ansia prepotente in cor m’invade,
senso di duolo alle rovine antiche,
e una trave i’ ne scorgo a un mur che cade.

Ma d’intorno si stan le valli aprìche,
e al gaudio e alla mestizia i’ mesco ‘l core,
come ne’i campi la falce alle spiche,

e delle pietre ‘l negro e inqueto ardore
dolcemente i’ contemplo in scialba neve,
nel Sole che in sul vespro or scende e muore.

Oh ghiaccio che ti sciogli e che se’ lieve!
Oh ruderi de’i tetti e d’una pieve!....

Oscure le dimore in ghiaccio eterno
la valanga si posa e ‘l seppellisce,
quivi, nell’Alpe dond’è sempre ‘l verno,

e una stalla gelata omai nitrisce
d’orrida Morte e di possanze arcane,
e i’ non so dove ‘l villaggio finisce:

forse all’ombra delle soglie e veglie e vane,
o forse ‘ve si giace ‘l campanile,
del qual un sacro bronzo si permane.

Ma questo mar di sassi or m’è gentile,
un fior di smarrimento a’ mente lassa,
ove si soffia in su’i venti l’aprile.

Così quest’occhio a’ ruderi s’ammassa,
e d’in su’un cielo e un altro or tosto passa.

Vola a mirar l’orizzonte che inghiotte
i nivei e tersi tetti e l’orbe soglie
nel tacito venir di questa Notte,

e i cardi e i pini attigui e l’alme foglie,
e la sepolta chiesa, e ‘l cimitero
‘ve d’uno spettro lo spasmo s’accoglie.

Calpesto i’ forse l’ossa?.... Oh reo sentiero
le tombe n’hai sepolto, e qui i’ ne calco
la Morte che sen dorme al vespro altèro!....

Così rabbrividisco, e sprezzo ‘l vâlco
che in su’ una vetta porta e cupa e bieca,
nido feroce d’un gemente falco;

e spasmando in timore ‘l labbro preca,
e i’ quivi mi tormento a’ Notte cieca.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XV, Lunedì XVI, Martedì XVII, Mercoledì XVIII Marzo AD MMXV

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