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domenica 5 settembre 2021

Sonetto in Terzine - Mi chiami, o Autunno, e Mi condanni al Verno

Mi chiami, o Autunno, e mi condanni al verno

con le mentite giornate di Sole

e con il volo estremo degli stormi,

 

allorché Persefòne il sonno eterno -

dall’Orco minacciata - invoca, come

una Parca che i freddi capei informi

 

strappa del Fato… E chiamandomi, mi urli

infinite parole di silenzio,

donde mi porti cure vecchie e vecchi

 

Sogni, quelli del cuor che li sublima.

Poi, mi sussurri nebbia ebbra di assenzio

mentre si lamentano i primi stecchi

 

che denudar di foglie il vento brama

nella lunga discesa all’Ade buio.

 

Ma vorrei bere un sorso di Ebe prima

del morir che dalle tenebre chiama.

Dipinto di Thomas Moran (1837-1926), Tramonto sul Moro (Sunset on the Moor), Tardo-Romanticismo, Realismo, Impressionismo, Post-Impressionismo statunitense, Hudson River School. 1880. Olio su Tela. Collezione privata.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Domenica V Settembre AD MMXXI.

domenica 18 novembre 2018

Il Tramonto d'una Domenica d'Autunno

Tramonto

Oh Tramonto!.... Tramonto!.... Della sera
pallido annunzio... pallida quiete
del meriggio; del vespro eterno incanto
di profonda mestizia!
Oh Tramonto!.... Tramonto!.... Mancan pochi
attimi al tuo sovvenir nuovo! E il Sole
si addormenta leggero; e il cielo è triste.
Oh Tramonto!.... Tramonto!
Dei segreti notturni mio custode,
guardiano de' i Sogni ripetuti,
della Notte singulto di terrore
disumano e feroce,
lagrima mia che scende e che distoglie
lo sguardo dalle foglie che precipitano
con vergognoso chiasso palpitato
dalla lor timidezza!
Oh Tramonto!.... Tramonto!  Delle estive
tife riposo, sonno delle ripe,
pallida cera di pallido cielo
dove tutte le mie ombre
si sfumano e si sperdono in un'unica
nera sembianza: la Notte che viene,
la nebbia che governa e che si espande...
la mia Notte profonda!

John Atkinson Grimshaw, Tramonto di Campagna, Tardo-Romanticismo inglese, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signor Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

L'Ora del Tè

Viene il morente meriggio che ride.
Vedo le nebbie salire d'intorno.
Sento la sera che chiama il mio nome.

L'immane corpo dell'Autunno or schiude,
anzi, spalanca le fauci sue crude;
e brividi mi infonde col suo vento.

Scorgo i camini che fumano a' nuvoli,
l'odore annuso del legno bruciato.
Tutto s'abbuia tra i campi che dormono.

E il Tramonto mi copre del suo Sole
che debilmente muore, ergendo rosei
petali della sofferenza sua ultima.

Nel gelo della sera allor mi scaldo
bevendo un Tè che vien dall'India ardente.

James Tissot, L'Ora del Tè, Accademismo francese, Fine del Secolo XIX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

La Fuga dell'Autunno

Cupo è il meriggio. La nebbia è più cupa.
Inganno è il Sole, profonda menzogna
di un mite giorno d'Autunno inoltrato.

Eppur, ieri soltanto era l'Estate.
Era la Gioia, l'incanto della Luna,
dei ricordi, dei Sogni. Era la Vita.

Passa veloce l'Agosto, e con sé
trascina Ottobre, il figliuol vendemmiante 
che, come me, vuol fare colpo su Ebe.

Resta il nevischio che piove il mattino,
la brina sulle foglie irrigidite
dalla caduta. Novembre è Re eterno.

Rimane che fra poco vien Natale...
e dianzi al mio cuor starà un altro inverno.

Scuola russa dei Peredvizhniki (I Vaganti), Autunno, Tardo-Romanticismo russo, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

Anacreontica Ebe

Ebe! Non siamo che foglie di mosto
spumanti ne' torrenti della Vita
che sovente ci illude e ci dispera.

Così è la mano del Destino che erge
alla sera i bicchieri dove viviamo:
mano robusta... empia... fatta di vento,

man che ha piacere a seguire le voci
delle rune tacenti... man tremenda
d'un labbro che ci sorseggia in gran quiete.

Sì, Ebe!.... Qui siamo i sòliti figliuoli
delle tue illusioni di vendemmia,
che co' i Titani patteggiano segreti.

Ma almeno co' il tuo vino non dimentichi
di far la danza per noi che moriamo.

Otto Pilny, Una Danzatrice del Deserto, Tardo-Romanticismo svizzero, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

Le Rune della Notte

Oh rune vagabonde della Notte!
Così svelte venite a coglier le ombre
del giorno! e nebbie date a queste terre!

La Natura vi ha scritti i vaticini
di questo cambiar di stagioni spente
che sempre si rinnovano e defungono,

che ritornano eterne, belle come
erano prima di posar su' i funebri
letti del sonno lor, finto perpetuo.

Ma io, a voi dinnanzi, mestizie catturo
e noie perenni, e tremebonde lagrime,
e irripetibili oscuri tormenti;

donde alla fine il lume del Tramonto
mi seppellisce nel suo oblio di Morte.

Andreas Achenbach, Le Coste di Capri, Tardo-Romanticismo fiammingo, Fine del Secolo XIX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

La Messa

Imman fortezza è il Signor nostro Iddio.
Squilla, Domenica, i bronzi delle chiese,
dove risuona l'eco della Notte!

Ma a mezzogiorno le vetrate gotiche
possono forse rifletter la Luna
che presto giungerà a illuminar le ombre?....

Ma tra le fiamme delle mie candele
è già il buio a imporre il suo regno tacente?
E si traveste da Mostro l'altare!

Il Sole, infatti, decade e si spegne.
Il giorno è troppo breve per pregare
senza paura della sera oscura.

Non so più quale Gioia la Messa evoca.
Su un legno io vedo solo un Uom che muore.

Adolf Humborg, La Cucina dei Frati, Accademismo satirico tedesco, Fine del XIX Secolo
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica XVIII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

mercoledì 18 marzo 2015

Ode-sonetto d'un Poeta romantico dinnante alle Montagne

I. Un Paesaggio di Montagna

All’orizzonte i’ veggo i monti antichi,
e le cime innevate, e i calli e i boschi,
l’ime convalli e i praticèl aprichi.

I ghiacci che sen stanno or muti e foschi
pe’i ruscel si dileguano, e acquitrino
l’alveo è di questi e pe’i ghiacciati toschi.

Ma dinnante i’ n’ammiro ‘l negro pino,
e l’erta che rocciosa in suso sale,
Mostro che grida un insano Destino;

e qui soävemente ‘l maëstrale
pell’argento del ghiaccio altèro spira,
e l’aquila in cotesto or n’apre l’ale.

Allor quest’occhio mesto in ciel ammira
esta regina che trista s’aggira.

Frattanto ne risòna un oricalco
d’un cacciator che va pel sasso alpestre,
mentre in tra’i nembi si lamenta un falco;

e quivi e mesto i’ volgo al fior silvestre
d’un timo che si cresce all’erba fresca,
come all’ermo ne fan le pie ginestre.

Ma quella ch’i’ ne veggo la donnesca
ombra d’un picco cotanto i’ pavento
che sublime mi par; e pria che cresca

questa paüra, i’ ne contemplo ‘l vento,
un gelido sorriso d’un torrente
che in petto mi ravviva ‘l cor sgomento.

Così melliflua m’appar la sorgente,
che sciògliesi la neve a un ciel gemente.

Eppur, ora che all’ima valle i’ volgo
e i baratri i’ n’ammiro, e i campanili,
un tormento tuttor tra’i monti accolgo.

Piccioli sono i campagnòl fienili,
e quasi con un pugno i’ qui li afferro,
quivi in su’un monte e in tra’i venti gentili.

Così i’ mi perdo in esti, e sempre i’ n’erro
co’un stordimento all’occhio e in sensi inqueti,
tra le terre pietrose, e ‘l monte è un sgherro;

e i ruscelli mi sono or sì irrequieti
che ‘l loro sospirar m’è ‘l sangue in core,
nivei e argentati e tormentati greti.

Oh sconfinate valli in bel sopore!....
Oh erte che sale ‘l crudel cacciatore!

II. Al Sospir della Montagna

Ahi tu che i’ qui n’intendo, oh tenue spiro,
dell’eterna montagna in nivee cime,
or pel qual palpitando i’ ognor m’aggiro!

D’in sull’occàso urlando e in fino all’ime
valli tu involi una lagnanza alpina,
sicchè or quivi mi se’ e dolce e sublime;

e agli incogniti boschi e a’ mirti in spina
la tua possa m’adduce e in torneamento
agli ultimi ghiacciai or qui mi destina.

Allor nel tuo soffiar un Sentimento
di gelide inquietudini mi splende,
e al tuo ciel vagolando i’ n’erro lento;

e forse ‘l tuo sorriso già m’attende,
e i passi miei in tra’i venti tosto intende.

Come le grida d’un destriero errante
frattanto ne lamenti un canto oscuro,
una lagna d’un nembo rattristante,

e tristo risoffiando e bieco e impuro
m’appar d’una Valchiria in possa estrema,
donde dell’ansie fatal mi spaüro.

Se’ tu forse la nenia e l’anatèma
d’este convalli che vanno alla Morte?....
Se’ tu che vuoi che ‘l core omai mi gema?....

Oh spiro, oh spir dell’Alpe in cime assorte,
che per le valli vai e per le foreste,
ahi quanto se’ la collera di Sorte!....

E i’ qui teco mi gemo, e in tue tempeste
le lagrime ne tergo ansiose e meste!

Come ‘l vespro che grida, vien! e annienta
l’orride pietre e de’i torrenti i sassi
e ‘l fonte che montano si tormenta,

e i valichi notturni a’ qual ne passi,
e i propinqui villaggi, e ‘l cielo immenso,
e i guadi e l’alte speni, e gli urli e i lassi!....

Perché tu se’ una Furia, e ‘l queto senso
mi dice d’istigarti al vol de’i fonti,
e ben perché tu se’ or possente e immenso.

Oh spiro di montagna! Oh spir de’i monti,
ansie d’un folle che muore e che tace!
Oh cantico di pianto agli orizzonti!....

Ma nel tuo mormorar tetro e rapace,
pur spaürando n’ho un’ambita pace!

III. Un Sogno. Eterna Valanga

A un corno che si geme e a’ monti i’ piagno
nel mellifluo membrar d’un sogno muto,
donde nel vento tormentando i’ lagno.

Allor i’ qui mi giacio e son perduto,
al gelo delle nevi e della sera,
e quel che m’è rimasto è questo liuto.

Ahimè, che lasso arpeggio, e qual preghiera!....
La valanga si scioglie e grida all’eco
esto cantar che mi duol d’arpa altèra;

e la Natura or volge un labbro bieco
nel qual mirando un’ira i’ n’ho tormenti,
volto di Notte dilettuoso e cieco.

Seppellite, oh convalli, e in furia a’ venti
quei che rimembro i fugaci momenti!

Tanto i’ piagneva d’Amore e i’ soffrìa
nel maggio che dall’Alpe un ghiaccio espose,
e qual la Primavera ‘la fuggìa,

donde fûr sogni le donate rose,
e i sospir d’un Poëta or vagolante
pe’i valichi irrequieti e in selve ascose.

Nemmen i’ n’ho le posse e l’ansimante
estro in narrar le trascorse sventure,
e febbrìl i’ tramonto; e l’albeggiante

ciel m’è conteso da’i sensi, e le cure
m’opprimono le speni, e l’avvenire
in forme si palesa orrende e oscure.

Per esto sogno che sen va a morire
maledetto ne sia costì ‘l dormire!

Cupa si grida la montagna negra,
e all’orizzonte i’ ascolto un urlo arcano,
mesta canzone di pia cingallegra.

Ma del sogno la vetta e a un cal lontano
sciogliendosi m’annega, e seppellisce
l’ansio canto, esto labbro e questa mano.

La valanga!.... E chi adesso ‘l compatisce
questo Poëta che geme sepolto?....
Silenzio! E la convalle si frinisce.

Non ho più sogni, né un occhio, né un volto,
la Primavera fugge, e ‘l sogno muore
naufragando ne’i ghiacci, eterno e sciolto.

Fuvvi un membrar, un sognare d’Amore,
un senso che durò un spiro d’un core!

IV. Le Rovine d’un Villaggio di Montagna

Alle chiome de’i sassi ‘ve i’ mi seggo,
quando i’ ne volgo all’ime contrade,
in ruderi un villaggio alpin i’ veggo;

e un’ansia prepotente in cor m’invade,
senso di duolo alle rovine antiche,
e una trave i’ ne scorgo a un mur che cade.

Ma d’intorno si stan le valli aprìche,
e al gaudio e alla mestizia i’ mesco ‘l core,
come ne’i campi la falce alle spiche,

e delle pietre ‘l negro e inqueto ardore
dolcemente i’ contemplo in scialba neve,
nel Sole che in sul vespro or scende e muore.

Oh ghiaccio che ti sciogli e che se’ lieve!
Oh ruderi de’i tetti e d’una pieve!....

Oscure le dimore in ghiaccio eterno
la valanga si posa e ‘l seppellisce,
quivi, nell’Alpe dond’è sempre ‘l verno,

e una stalla gelata omai nitrisce
d’orrida Morte e di possanze arcane,
e i’ non so dove ‘l villaggio finisce:

forse all’ombra delle soglie e veglie e vane,
o forse ‘ve si giace ‘l campanile,
del qual un sacro bronzo si permane.

Ma questo mar di sassi or m’è gentile,
un fior di smarrimento a’ mente lassa,
ove si soffia in su’i venti l’aprile.

Così quest’occhio a’ ruderi s’ammassa,
e d’in su’un cielo e un altro or tosto passa.

Vola a mirar l’orizzonte che inghiotte
i nivei e tersi tetti e l’orbe soglie
nel tacito venir di questa Notte,

e i cardi e i pini attigui e l’alme foglie,
e la sepolta chiesa, e ‘l cimitero
‘ve d’uno spettro lo spasmo s’accoglie.

Calpesto i’ forse l’ossa?.... Oh reo sentiero
le tombe n’hai sepolto, e qui i’ ne calco
la Morte che sen dorme al vespro altèro!....

Così rabbrividisco, e sprezzo ‘l vâlco
che in su’ una vetta porta e cupa e bieca,
nido feroce d’un gemente falco;

e spasmando in timore ‘l labbro preca,
e i’ quivi mi tormento a’ Notte cieca.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XV, Lunedì XVI, Martedì XVII, Mercoledì XVIII Marzo AD MMXV