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martedì 24 maggio 2016

Inno ai Sensi di Primavera

Il dì precìpita
in Sogno incauto
di Primavera,
nel maggio flèbile,
è un dolce flauto
prima di sera.

Vedo le nùvole,
falbe e serene,
i girasoli
che freschi nàscono,
quiete amarene,
i rigagnòli.

Sento le allòdole,
i lieti canti,
i cinguettìi
d’in su’ le tòrtore,
i corvi affranti,
i tintinnìi.

Fiuto le prìmule,
le margherite,
le fulve rose,
i caldi zèfiri,
il vento mite,
le viole afose.

Gusto le lìmpide
onde di un rivo,
le spighe prime
del grano trèmulo,
il cièl giulivo,
l’ombra sublime.

Sfioro le ràpide
erbe dei campi,
il rosso-fuoco
dei miei papàveri,
la scia dei lampi
che dura poco.

Passeggio in ròrida
quieta campagna,
inassopita
dopo i suoi fùlmini,
dove mi bagna
senso di Vita.

Ammiro i plàtani,
i pioppi bianchi,
le querce, i sàlci,
l’ôr dei ranùncoli,
i fanghi stanchi
presso le falci.

Vedo risplèndere
l’arcobaleno,
ièr Temporale,
sciolta è la gràndine,
col suo veleno,
col mäèstrale:

gli occhi si inèbriano,
la rifrazione
di tanta luce,
dal cosmo estàtico
una canzone
che non traduce

codeste immàgini,
e questi suoni,
e il suo mistero,
ciclo di vìvere,
urlo di tuoni
nel cielo intero.

Le lepri nàscono,
nàscono i tassi,
i beccaccini
ai nidi vòlano,
vìvono i sassi,
tempi divini.

Regna la nòbile
Vita, Natura,
serena e bella,
feconda Vènere,
priva di cura,
splendente stella.

Ma giungo ai lìmiti
del mio päèse,
e il cielo è nero,
e Tutto ha tèrmine:
sorge, e palese
è il cimitero.

Un Sogno è dunque la Natura, ed io
tremo e m’inchino al Silenzio di Dio.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




In Dì di Martedì XXIV Maggio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

mercoledì 10 giugno 2015

1815 - Ode ad Apollyon

Furioso un gemito
emana un uomo,
grida alle nuvole,
tremulo atòmo,

veste dell'Erebo,
Sterminatore,
tinto dell'Ecate,
l'Imperatore,

ed egli s'agita
stringe l'Impero,
strilla all'esercito,
tetro guerriero,

beffa le splendide
stelle del Cielo,
scaglia a Dio i Dèmoni
oltre quel velo,

afferra le Màrtiri,
le vuol ghermire,
un Mostro intrepido
in collera, ire

d’un vespro, l’ultimo,
or disumano,
il dì si scalpita
del culto arcano,

d’un credo ignobile,
Sàtana il Nume,
l’ira degli Angioli
ne infuria un lume.

Apollyon giùngesi,
Re del Destino,
possente e formido,
torvo e meschino,

tiene la porpora
del suo Potere,
l’alloro flebile,
regna alle sere,

è egli il terribile
figlio ribelle,
tristo s’illumina,
pallida pelle,

s’inebria attonito
della Ragione,
del cupo bàratro
egli è il Demòne,

e scava i tumuli
ai cavalieri,
semina i loculi
lungo i sentieri,

ed egli è l’essere
forse più invitto,
sempre più immemore
del male inflitto,

egli è dimentico
delle tradite
donne, dei Popoli,
di tante Vite,

ed egli è l’Ordine
del tetro Inferno,
mieteva l’Anime
nel russo inverno,

Apollyon, rorido
di sangue sguardo,
Sir degli Spiriti
e d’ogni azzardo,

e in furie sanguina
col fiel degli altri,
brinda col calice
dei Numi scaltri,

Eroe diabolico
di questa terra,
Marte satanico,
Dio della guerra,

egli che ha orribile
offeso Iddio,
un giglio pallido,
rapito Pio,

Sire dei brividi,
spir del divorzio,
serpe venefica,
marziàl consorzio,

d’un trono in lagrime
l’Usurpatore,
uomo non nobile,
Genio in Furore.

Egli è retorica,
democrazia
che lenta e tacita
è tirannia,

Apollyon, vipera
tra i Santi misto,
afferra spastico
la man del Cristo,

Mente dei Codici,
Costituzione
mendace e languida,
le fauci prone.

Egli incammìnasi,
va contro il mondo,
ne schiera gli Ussari,
ed è iracondo,

l’Europa immobile
brama, i celesti,
l’Asia desìdera,
i mar funesti,

si crede un Angiolo,
Onnipotente,
è solo un Spirito,
fiero e demente,

prega al deïstico
del Dèmon culto,
illuministico
folle singulto,

egli è la debole
Ragion umana,
sogno spasmodico,
la voglia arcana

d’essere simile
al Dio che vive,
figlio di Sàtana,
risa giulive,

vede una Vergine,
le corre incontro,
la vuole uccidere,
brama lo scontro.

Ma scritto il gemito
del suo è Destino,
con lui decadono
Ribelli infino

fiamme che s’alzano,
fuoco infernale,
i Ciel ripetono:
«Tu sei un mortale!».

Apollyon stolido
ignora tutto,
non sa: l’aspettano
l’esilio e il lutto,

non sa: un eroïco
prode lo incalza,
pei fanghi torbidi,
per ogni balza,

non sa che è il Diavolo,
quel che ha perduto,
Vita medesima,
che sarà muto.

Gloria ad Apòllyön,
il Seduttore,
gloria, a lui Cesare
senza l’Amore,

gloria ai desìderi
di lui che apprende
del truce numero
l’arcano, e pende

sopra le nuvole
verso l’abisso,
e su lui splèndesi
il Crocifisso!

Gloria all’attonito
fior del suo pugno,
gloria agli eserciti,
diciotto giugno!

Gloria all’immobile
spoglia al miraggio,
ai spiri, gli ultimi,
del cinque maggio!

Ecco: il suo termine,
il fine rio.
Gloria all’esercito
del vivo Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì X Giugno AD MMXV

lunedì 23 marzo 2015

Un'Ode romantica alla Notte

I. Oh candida e notturna e oscura quiete,
cranio perenne d’una Notte informe,
ahi quanto ne divori queste mete!....

E quanto questi boschi, e a’ terra l’orme
degl’incubi fuggenti, e un’alma viola
nel petalo racchiusa che sen dorme;

e tanto mi tormenti e in ragna e in spola,
folli desiri d’un mesto Poëta
che spasmando si lagna e si consòla!

Morti gli onori, si crolla la pièta,
e nel petto mi mesci insan dolore,
né i’ so più qual ne sia l’ambita meta.

Notte perenne, eternamente in core,
e la Luna che splende è un scialbo fiore!

II. Vanamente s’attende ‘l ciel dell’alba,
l’argento delle nubi al Sol che torna,
rosea la luce che s’agita scialba.

Non v’è che questa Notte, ombrosa e adorna
di spettri vagolanti a un fonte cupo,
e mai ‘la si finisce e si raggiorna.

Tristo n’appare un eterno dirupo,
un bàratro di tomba, e un sepolcrale
canto di nenia, un lamento d’un lupo;

e cotesto pensar che schiude l’ale
a’ miei sensi irrequieti e a’ folle lagna,
flebilmente si grida e qui m’assale.

Oh Notte, oh Spettro, ve’, quel che mi bagna,
un pianto di paüra alla campagna!

III. Le Valchirie de’i nembi, intanto, or negro
condensano l’empìro, e co’ fulgori -
d’empi destrieri - l’orizzonte allegro;

donde le Norne ne grondan furori,
le ragne della Vita e della Morte,
degl’invitti guerrieri i sacri allori.

Oh Notte! Or queste mani all’Orco assorte,
guarda: che tàglian i fatal capei
che adducono ‘l Sole a’ oscure porte!....

Odi! Un murmure eterno, ‘l vol d’augei,
strige che canta un mortal pentimento
che se non fosse muto i’ ben udrei.

Allora pur del vespro al lenimento,
in te, o tenebra, accresce lo spavento.  

IV. Frattanto alle foreste un truce corno
delle cacce n’annunzia ‘l fin protervo,
e ‘l lugubre sonàr s’espande intorno.

Sanguina al legno l’aggrappato cervo,
e ‘l cànide falchetto al ciel guaïsce,
e al rostro insanguinato or scende un nervo,

e un galoppante Mostro si nitrisce
e in tra l’ombre dilegua, e al bosco rude,
vittima insana che lenta vagisce.

Sono le chiome delle cerve ignude,
i gemiti de’i morti, e augei sanguigni
che ‘l cacciator di ricompensa illude.

Ma tu, oh Notte che ‘l senti, a che mai frigni?....
Bèviti ‘l Fato degli ultimi cigni!

V. Eternamente allora e in ansie e a stento
nelle tenebre i’ n’erro, e vagabondo
al mio labbro i’ ne suggo ‘l freddo vento.

Allor i miei sentieri i’ ben ne pondo,
bendato dalle Furie e gli Elementi,
cielo che mugge e che tòna iracondo.

Illusioni ne fûr i Sentimenti,
sogni le ragne tessuti dal Fato,
perenni lamentanze e patimenti;

né tenèr una tede or qui m’è dato,
l’ardor d’una lucerna al passo incerto,
né posse i’ n’ho tuttor, né Vita e fiato.

Forse i’ raccolgo lo strazio che merto,
lo scettro delle lagne, e d’ansie ‘l serto!

VI. Così nel tenebror delle foreste,
e all’inchiostro del ciel i’ affranto poso,
e lampeggiar ne veggo le Tempeste.

Queste ne sono lontane e all’ombroso
e tremulo ghiacciar d’un erto monte,
un cui picco si tòna ed è impetuoso;

e la pece a squarciar dell’orizzonte
dinnante al guardo mio sen vanno, e all’ime
valli e a’ ruscelli, e alla riviera e a un fonte.

Ma vano è questo lume, e queste cime,
e le folgori orrende e svelte e mute,
e ‘l Temporal che s’agita sublime;

e i’ le speni tuttor n’ho più perdute,
e un nugolo ‘l terror nel cor m’incute.

VII. Crepuscolo perenne! E muor l’aurora
nel letto delle tenebre e de’i salci,
e nel sepolcro muto allor s’infiora.

Fumo di spettri nel lagnar dell’alci,
oh Notte, tu ne se’ eterna e infinita,
vòmere infame, e ne’i campi le falci!....

E allora ne berrai cotesta Vita,
e le pulsanti vene, e ‘l labbro e ‘l volto
che inquietamente i’ volgo in via smarrita?....

Dunque godrai di cotesto raccolto
che giovine e perduto si dispera,
e cui Amore e la requie e tutto è tolto?....

Oh Notte antica e rea di Primavera,
sii meco più melliflua e men altèra!

VIII. E quanto la tua Luna agli arboscelli
fiocamente splendendo a me impaurisce,
al canto de’i funerei e negri augelli!

Esta nel cielo sen sta e tetra agisce
in su’i boschi affannosi e all’alte vette,
ma pur più d’un momento si svanisce.

Cupa in tra’i nembi ne scaglia saëtte
di latte che infocato indarno cola,
gote di marmo, l’impronte neglette.

Così nell’aër che tremulo vola
una tomba ‘la appar e un’urna in rame,
e ‘l lume suo oramai n’è trista fola.

Non è che in tra’ le nubi un cupo ossame,
altro che un spettro che vaga al fogliame.

IX. Ma frattanto ‘l silenzio ovunque inghiotte
le nenie delle nottole, e i rapaci,
e le ripe selvagge e queste grotte.

Incognite le posse e i ciel fugaci
soffiano muti pe’i torrenti altèri,
ove perennemente, o Notte, giaci.

Invisibili spettri or pe’i sentieri
si distendono, e in loro tu ne gridi,
urla feroci d’insani guerrieri.

Eppur e sempre calmi questi lidi
sono, e ne veggo la Luna fanciulla
che timida si splende a’ vaghi nidi.

Ma tuttora ne temo, e a una betulla
una Furia m’assale: ‘l fiero Nulla.

X. Oh Notte, ‘l tramontar del Sole hai scorto,
un roseo tintinnio di nembi e d’alta
vetta d’un monte che brillava assorto.

Ma or pur me ne contempli a questa malta
notturna e a questi boschi, e all’imbrunire
della Vita che trema; onde m’assalta

l’orrida spira del tuo aspro avvenire,
l’irrequieto mistèr del cielo occulto,
e ‘l flebile sopor che vôl dormire.

Pertanto in te i’ mi giacio, e co’ un singulto
l’ultime e dolci speni al ciel emetto,
spir d’un Poëta che si lagna inulto.

Allor i’ poserò d’in sul tuo letto,
oh Notte, oh strige, oh arcano, oh bruno aspetto!

XI. Or nel sonno i’ n’ascolto ‘l lupo ansante,
la muta zampa al suolo, e l’orma greve,
e la voce del grillo tintinnante.

Odo le doglie dell’erba che lieve
al vento le sue polvi ne trascina,
e quel che sòna un bronzo d’una pieve.

Allora a un sogno ‘l sonno mi destina,
incubo estremo d’un vibrante core,
e l’aura istessa e in cielo m’è ferina.

Sempre paüra e sempre più dolore,
inquietudine amara, e tetra e folle;
e così i’ ne trascorro e in ansie l’ore.

Oh Notte che ne gridi in fin a un colle!
Spettro che sorge da tremende zolle!

XII. Ma verrà almeno l’alba? Questa che i’ nego?....
Paüra fu soltanto, e stordimenti?....
Ciel! Che mi desti e sia alba; ‘l vò, e ‘l prego!

Tra le cune sen vanno i freddi venti,
della Luna uno stral di pio rubino,
e forse ‘l giorno viene, e i lumi lenti.

Notte che taci e che esalti ‘l Destino,
allora ti rischiari e lentamente
allumini di Sole e ‘l cardo e ‘l pino.

Oh Notte che ne muori e che dormiente
a svanir qui t’appresti, oh Notte, addio,
Notte che tanto m’hai fatto soffrente!....

Alfine ne sorride ‘l core mio;
ecco! n’appare ‘l giorno: ha vinto Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XX, Sabato XXI, Domenica XXII Marzo AD MMXV

martedì 17 marzo 2015

La Morte di Mameli

Stretto in mano e in sul petto ‘l tricolore,
al vento ei si lagnava d’empia Morte,
quei che ‘l stringeva ne fuvvi ‘l cantore
e al spirar ne mirava l’ombre assorte.

Pel guerresco soffrir piagnea e all’assorte
nubi del cielo ei n’orava e al Signore,
e presso le celesti e invitte porte
all’Italia volgeva ‘l suo dolore;

e velato e scomposto e ‘l ciglio e il core
pell’alta Patria e a Iddio spirò da forte,
cui e al natio suol ne spremette l’Amore,
speni e antiche e possenti e mai risorte.

La sua lacera gola or sanguinava,
e in sulla fredda terra ei si giaceva,
donde co’un spiro alle sfere ei cantava:

cantò l’Inno guerrier che gli doleva;
e in mezzo a tanta e bianca e rossa bava
al Signore dei Giusti si volgeva,

e morendo diceva
alla Patria soffrente, e nostra balia,
co’ singhiozzi feroci: «Viva Italia!».

mercoledì 3 dicembre 2014

Ode romantica e scapigliata a una Notte di Dicembre

Era una sera pallida
d’autùn orribile.
Splendevano le brume,
e d’in su’ tetti
lagnavansi le nòttole
giacenti in fregola,
e di Luna all’implume
stral, e a’ sospetti
notturno urlava ‘l cielo,
e ‘l suol gemeva,

e nel serale velo
degli Elementi ‘l grido ne fremeva,
e si torceva;

e qui i’ ascoltando ‘l lugubre
canto di quest’Ecate,
immensamente in core
piucché paüra
n’aveva tra le lagrime
un miserabile
senso d’arcan dolore,
e la Natura
or terribile m’era,
e bruta e arcigna,

e mi parve foriera
d’una Furia che andava in su’una vigna,
cadea la pigna.

Fuor veggendo le tenebre
e fauci formide
del nembo e della sera
i’ ne tremava
com’impaurito pargolo
dal passo debile,
e i’ sciogliea una preghiera
all’aura cava,
e n’udìa l’ansia pioggia,
e ‘l fero vento,

e in su’un’arida roggia
quest’acqua omai n’andava, e ‘l scorrimento
suo era spavento!

N’avea all’ischiena i brividi,
i folli tremiti,
un senso indefinito -
melanconia -
un bacio d’inquietudine,
un duol dell’anima,
e al Cielo e all’Infinito
la voce mia
strillava or forse muta,
or forse in ira,

ed era omai perduta -
colei che ancor soffrente or si sospira -
in cupa spira;

e pur giacendo esanime,
esangue e fervido
in questo smarrimento
i’ amava ‘l pianto
che mi scendea spasmodico -
tosse di tisico -
e un cheto Sentimento
nel petto affranto
in gaudio e in pace e in requie
i’ contemplava,

sensazione d’esequie,
e la civetta oscura si lagnava,
e un bosco orbava.

Sentiva i’ ‘l core stringersi
nel petto timido,
e mi pungea l’inquieto
attimo in Notte,
tra gl’immobili palpiti
e in sulle costole,
presso ‘l misero greto -
notturne motte -
e un dolor n’era intenso,
l’alma smarrita,

e pel nugolo denso
la Natura giacea oramai assopita,
qual la mia Vita;

e pensai: forse ‘l lugubre
Destino e ‘l tumulo,
ora mi spinge a Morte,
e ‘l reo pensiero
mi raggelava l’anima,
e tacque ‘l spirito…
vedea compir la Sorte,
un menzognero
confin tra sonno e spene,
tra ‘l vespro e l’alba,

e tremavanmi le vene,
e d’in sul finestrel la brina scialba
scorgeva e falba.

Mancar udiva l’alito,
crollare ‘l vivere,
e questa dicembrina
Notte d’orrore
sentìa d’intorno fremere
in crudo gemito,
ed era ‘la meschina,
tetro terrore,
e disumanamente
or s’inoltrava,

e all’orizzonte spente
quest’aure cupe stavan, e gridava
e nevicava.

Allor s’ergeva un murmure,
un fero fremito,
nel bosco urlava ‘l lupo
all’orno bieco,
e questo reo piagnucolo
lambiva i nugoli,
e ‘l ruscello e ‘l dirupo,
e ‘l pioppo cieco
e intanto si scendeva
la fredda neve,

e ‘l fiocco si spremeva,
e la terra sen stava e bianca e lieve,
e poscia greve.

Oh Notte torva e orribile,
fauce spasmodica,
oh Notte rea e ansimante
a te qui canto,
e ancor mi sorgon incubi
che a frotte vengono
nell’orbo guardinfante
del denso pianto;
e appen morto ‘l novembre
si schiude ‘l verno,

e s’appressa dicembre,
or solenne e festoso, e ascoso ischerno
d’un Fato eterno….

E mi domando, o tenebra,
se fia possibile
perduto pur l’onore -
e spiccò l’ale
l’Amor, la Vita giovine -
un mar di cenere
sorridere nell’ore
d’esto Natale.
Ma so che la canzone
m’è stral di rovo:

i’ penso che illusione
or ne fora perfino l’anno novo,
e mi commòvo.

Eternamente illuso!
Ma prego Iddio
e sempre guardo in suso!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì II, Mercoledì III Dicembre AD MMXIV