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mercoledì 10 giugno 2015

1815 - Ode ad Apollyon

Furioso un gemito
emana un uomo,
grida alle nuvole,
tremulo atòmo,

veste dell'Erebo,
Sterminatore,
tinto dell'Ecate,
l'Imperatore,

ed egli s'agita
stringe l'Impero,
strilla all'esercito,
tetro guerriero,

beffa le splendide
stelle del Cielo,
scaglia a Dio i Dèmoni
oltre quel velo,

afferra le Màrtiri,
le vuol ghermire,
un Mostro intrepido
in collera, ire

d’un vespro, l’ultimo,
or disumano,
il dì si scalpita
del culto arcano,

d’un credo ignobile,
Sàtana il Nume,
l’ira degli Angioli
ne infuria un lume.

Apollyon giùngesi,
Re del Destino,
possente e formido,
torvo e meschino,

tiene la porpora
del suo Potere,
l’alloro flebile,
regna alle sere,

è egli il terribile
figlio ribelle,
tristo s’illumina,
pallida pelle,

s’inebria attonito
della Ragione,
del cupo bàratro
egli è il Demòne,

e scava i tumuli
ai cavalieri,
semina i loculi
lungo i sentieri,

ed egli è l’essere
forse più invitto,
sempre più immemore
del male inflitto,

egli è dimentico
delle tradite
donne, dei Popoli,
di tante Vite,

ed egli è l’Ordine
del tetro Inferno,
mieteva l’Anime
nel russo inverno,

Apollyon, rorido
di sangue sguardo,
Sir degli Spiriti
e d’ogni azzardo,

e in furie sanguina
col fiel degli altri,
brinda col calice
dei Numi scaltri,

Eroe diabolico
di questa terra,
Marte satanico,
Dio della guerra,

egli che ha orribile
offeso Iddio,
un giglio pallido,
rapito Pio,

Sire dei brividi,
spir del divorzio,
serpe venefica,
marziàl consorzio,

d’un trono in lagrime
l’Usurpatore,
uomo non nobile,
Genio in Furore.

Egli è retorica,
democrazia
che lenta e tacita
è tirannia,

Apollyon, vipera
tra i Santi misto,
afferra spastico
la man del Cristo,

Mente dei Codici,
Costituzione
mendace e languida,
le fauci prone.

Egli incammìnasi,
va contro il mondo,
ne schiera gli Ussari,
ed è iracondo,

l’Europa immobile
brama, i celesti,
l’Asia desìdera,
i mar funesti,

si crede un Angiolo,
Onnipotente,
è solo un Spirito,
fiero e demente,

prega al deïstico
del Dèmon culto,
illuministico
folle singulto,

egli è la debole
Ragion umana,
sogno spasmodico,
la voglia arcana

d’essere simile
al Dio che vive,
figlio di Sàtana,
risa giulive,

vede una Vergine,
le corre incontro,
la vuole uccidere,
brama lo scontro.

Ma scritto il gemito
del suo è Destino,
con lui decadono
Ribelli infino

fiamme che s’alzano,
fuoco infernale,
i Ciel ripetono:
«Tu sei un mortale!».

Apollyon stolido
ignora tutto,
non sa: l’aspettano
l’esilio e il lutto,

non sa: un eroïco
prode lo incalza,
pei fanghi torbidi,
per ogni balza,

non sa che è il Diavolo,
quel che ha perduto,
Vita medesima,
che sarà muto.

Gloria ad Apòllyön,
il Seduttore,
gloria, a lui Cesare
senza l’Amore,

gloria ai desìderi
di lui che apprende
del truce numero
l’arcano, e pende

sopra le nuvole
verso l’abisso,
e su lui splèndesi
il Crocifisso!

Gloria all’attonito
fior del suo pugno,
gloria agli eserciti,
diciotto giugno!

Gloria all’immobile
spoglia al miraggio,
ai spiri, gli ultimi,
del cinque maggio!

Ecco: il suo termine,
il fine rio.
Gloria all’esercito
del vivo Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì X Giugno AD MMXV

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