Nubi di lampi all’orizzonte oscuro,
e turbini e tempeste e piogge io sento,
donde il mio cuor si perde a questo vento,
e l’iride del cielo ansioso e impuro
che piove scorgo su un cadente muro,
e la
Tempesta s’erge, e il patimento
dell’estiva e irrequieta odo Natura,
e queste vagabonde e orrende gote
della grandine svelta io ascolto e ignote
forze di Furie, la Norna immatura
che della Morte non tiene una cura,
e nubi intendo vagolar immote.
Ho freddo, e gelo, e paüra e timore,
e contemplando vado i lampi e i tuoni,
e a questi lumi gli occhi miei stan proni,
e ho un soffrir qui che dir non so, e un tremore,
sbigottimento, e angoscioso dolore,
e arpeggio e canto i tempestosi suoni,
trilli d’un’arpa che non so che vuole:
dir qualcosa del cuor che mesto piange,
urlar il mio Destin, quel che s’infrange
il mare torvo del perduto Sole,
e forse il senso che al campo di viole
quieto nutrivo, la passiòn che m’ange,
o forse disvelàr i miei secreti pianti,
i Sentimenti che van come in giostra,
o la demenza che a un Genio si prostra,
gridar, urlar, patir, gemèr i canti,
soffrir d’arcano, i misteri d’infranti
sogni d’un giòvin che mìser si mostra.
Così quest’arpa che in man tengo or grida,
e senza ch’io la pizzichi, gli accordi
della Sorte proclama ai nembi sordi,
e questo delicato urlar s’annida
nella Tempesta che si lagna infìda,
e intenerisce gli irrequieti fiordi,
e confusa ne canta una canzone
che narra un sogno, l’Animo segreto,
e che per questo ha un mantèl dell’inquieto
torrente ignoto d’un’ansia passione
che indefinita va qual cacciagione,
altrove, ignoto, a un altro e dolce greto,
un cantico che parla or di me, e or d’uomo,
timidamente, or ràpsodo e or Poëta,
e che nei miei dolor, gaudi s’allieta,
e questo canto più non si fa domo,
ed è l’indivisìbil, tristo atòmo
d’un cuor che di Poësia è l’esegeta.
Frattanto il tuono, il lampo, e il piòver odo,
la pioggia che si cade al fango e ai boschi,
e ai solitari e irremovìbil chioschi,
e il fil della mia Vita in ansia annodo,
e al Temporale io di cantici godo,
come un bardo che chiama i Numi foschi,
e sento e intendo, e contemplo e n’ascolto
il tintinnàr, e il cadèr, e il passare
di grandini feroci, e il passeggiare
del vento tetro privato d’un volto,
e il ramo all’arie, e il crin del pioppo sciolto,
e all’orizzonte le montagne e il mare,
e ho qualcosa nel cuor che tanto geme
e che purtroppo non so alzar e dire,
come un sopore d’un che vuol dormire,
e la
Tempesta e il Destino or qui insieme
ripetono la stolta e invana speme,
eterno il pianto, perenne il soffrire.
Oh Temporale! Oh fulmini! Oh fatale
aria di gelo! Oh pioggerelle antiche!
Oh dall’acque piegate, bionde spiche!
Oh Furie! Erinni! Oh cupo Maëstrale!
Oh Genio irato! Titano immortale!
Oh valli intemerate e belle e aprìche!
Canto le doglie dei tuoni che intendo,
canto la
Notte che fulmina i monti,
canto i dolenti, splendenti orizzonti;
e cantando e sedendo il Fato apprendo,
silenzio insano, e a cantare m’arrendo,
e sònmi amare perfìn queste fonti!
Son lagne non racconti:
doglianze fiere d’un gemente cuore,
lagne di nembi, di lampi il furore!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Martedì IX Giugno AD MMXV
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