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lunedì 17 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. In Ode delle Lagnanze d'un Visionario

Monti di rocce perenni e di Morte,
dov’è una fonte all’ombra d’un castagno?
Oh voi tacete, oh pietre, oh cime insorte
alla mia sete! e perché ancor mi lagno?
Sono io un sogno represso, un visionario;
e stanco, oh vette, intorno peregrìno,
e il cielo e l’orizzonte m’è Destino,
donde rigiro un piangente rosario!
Lo ripeto alle nubi oscure e nere,
singhiozzi sono di vane preghiere!
Ho fame, e ho sete, oh mio Iddio; e m’abbandoni?
Tanto mi prometti; ma mi scagli i tuoni!

Sempre sentieri, e non ho altro d’intorno,
e tu, montagna, non è vero, esulti?
E quando finirà il chiaròr del giorno,
non avrò un pasto, ma angosce e singulti.
Vetta sublime infestata dai lupi,
dimmi, vuoi tu vedèr soffrìr un uomo?
È l’ombra tenue d’un debole atòmo.
La vuoi coprìr con i tuoi alti dirupi?
Mi inghiottirà la nascitura Notte!
Addio, oh foreste, addio, oh ruscelli e grotte!
O forse un covo troverò nel vento?
Folle sognàr d’un vano Sentimento!

Iddio, ti prego: dove sei, oh sublime
volto incognito? E a che mai fuggi via?
Mi restano le rocce, e queste cime,
l’empia catena che ha nòm Poësia.
Ma qui nel bosco scorgo un fungo, e forse
una fonte e il mio pasto, e il desiderio
lento s’avvera; e un canto di saltèrio
nel cuor ha Vita, nel cuor dove accorse.
Pur questi funghi mi dìcon: «Non ceno!»
chè rossi sono d’infame veleno.
È il Mostro della Croce: è morto Iddio?
No, no… abbi fede! Egli vive in cuor mio!

Vetta montana, il vespro s’avvicina;
e ancor ramingo pei valichi io giro.
Scorgo la sera, la fiamma turchina
nel rubìno del Sole che ora ammiro.
Ho paüra! La Notte sopraggiunge,
e i boschi e rivi seppellisce oscura,
e la dormiente e funerea Natura
più che dormire, purtroppo, defunge.
Ora è dei sogni; è ora delle visioni,
di queste mute e perdute canzoni!
Ma, Iddio, l’intendo: una lucerna scialba,
certamente vedrò la nuova tua alba!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XVII Agosto AD MMXV

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Sogno del Cuore

Sogno del cuore, che cosa tu brami?
Forse un ritorno alle fresche Alpi e ai monti,
all’ombre mattutine di alti rami,
e nella sera i montani orizzonti.
Oro, ricordi? è il crepuscolo alpestre,
tra le nubi di sangue e l’infinita
eco dei ghiacci ove, Anima smarrita,
tu contemplavi il ciel dalle finestre.
Ma attimi sono d’un dì tramontato;
e ora ti preme e ti resiste il Fato!
Insonne sogno del sonno dell’Io,
è dunque all’Alpe che senti d’Iddio?

Sonni irrequieti, perché spasimate?
Siete più muti del chiostro più nero,
freddi e spettrali, e insicuri tremate.
Non rivivete! Dov’è il cimitero?
Quivi vi attende la negletta bara,
e la Notte vi mostra e l’ossa e i crani,
e non siete che spettri umidi e vani.
Non è vèr che la Vita è tanto amara?
L’Alpe dilegua nel vespro del giorno,
e cosa vi rimane, ahimè, d’intorno?
I campi dei sepolcri e delle lagne,
l’atee e irredente e funeree campagne!

Insonne sonnecchiàr, che mai ricordi?
I fiori alpini e le possenti cime.
Tu eri - sognavi! - sui nordici fiordi,
Wòtan tuonava con urlo sublime.
Eri tu presso una vetta indomata,
gli Angeli e il soffio del Nume vivente,
e passavano l’ore e lente, e lente.
Ma questa sera oramai è tramontata!
Sogno del cuore, che cosa tu pensi?
Forse è meglio annegàr tra i nembi densi!
Eppur alla tua guancia in pianto e falba
verrà il Sole. Ma come sarà l’alba?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XVII Agosto AD MMXV 

domenica 16 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. Ode al Lamento d'un Contrabbandiere

Hai tu dell’oro, oh bandito irredento?
Senti! Va’ al monte e compra la tua Vita,
sì, lei che un dì hai perduta; e nel vento
ascolta! Suona il ciel d’un’eremita.
Oh piacèr del fugace contrabbando!
I boschi scruti, e hai timòr dei fucili,
ghigni vi sono più oscuri e più vili,
e il tetro sterpo può esserti nefando.
Orsù! Orsù! Bevi il liquòr della Luna,
sfida la Sorte, e la vana Fortuna!
Non senti che il pugnàl preme le spine?
È Notte tarda. Dov’è il tuo confine?

Taci! Nascondi il tuo sigaro. Senti?
V’è un frèmer di lanterne e di mastini.
Se muori, dimmi: cosa emani ai venti?
Sogni d’Amore, e angosce di Destini.
Ma qui i tuoi passi camminano lenti,
e riparo ti sono i neri pini.
Fermati! E pensa! Cos’hai nel tuo cuore?
Torna al paëse, ritorna al tuo Amore!

Zingara alpina la Notte t’avvince,
docile danza coi veli lunari,
e l’Alpe ha un occhio come d’una lince;
e ora sei un’ombra, sottìl più dei mari,
e al seno della roccia ti giaci al sicuro,
e invochi i Santi, quelli tutelari.
Così a un castagno nudo e tristo e impuro
la sera inghiotti, l’Infinito oscuro!

La ronda s’allontana. Non la intendi?
Varca il confine, e compi il tuo mestiere!
Ora tu compri, contratti e poi vendi,
e dei banditi tu sei il cavaliere.
Allor tu puoi tornàr alla tua donna;
ma attento, oh folle, oh tu, alle carabine.
Non sognàr già le guance femminine,
e la temente e spasimante gonna!
Hai comprato la Vita; e vuoi morire?
Scappa! Stai quieto! Ora è meglio fuggire!
E se il tuo cuore tormentando sogna,
sappi: t’aspetta o la forca o la gogna!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XVI Agosto AD MMXV
 

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Viandante alpestre

L’Alpe è una donna che fugge il Poëta,
lo sai, oh viandante, oh tu, che erri lontano?
Tra le nevi disciolte ella s’allieta;
ma no, non del tuo canto ansio e profano.
Canti alle pietre, e ti lamenti ai falchi,
e nel Nulla dei monti e delle sere
tacciono l’arpe e le fredde preghiere,
e cos’è mai? Ah! Nel ciel senti: oricalchi!
Pellegrina ombra! È venuta la Notte;
e chiedo: «Avrai tu rifugio alle grotte?».
La caccia muore, e l’orizzonte è cupo;
lento, lento cammina! V’è un dirupo.

L’Alpe tra i tuoni annuncia un Temporale,
lo vedi che sei in pasto ai lampi e al vento?
Cupa è la sera di gelida opàle,
e tu lo sai? Forse avrai un patimento,
gelerà il cuore in mezzo al maëstrale,
palpito indarno d’insàn Sentimento.
Viandante, forza, la Sorte disfida,
e non temèr quel che in costei s’annida!

Curvo come ombra di spettro sottile,
fermati e ascolta! È il tuo affanno in respiro,
e nulla più ti par quieto e gentile,
nemmèn la fonte col fresco suo spiro,
né il vecchio pane che addenti dal sacco,
né un vuoto sorso di vino, né il ghiro
che va a dormire, e l’impronta del tacco
ti fa paüra. Non fare il bivacco!

L’Alpe è una Luna, argento capriccioso,
l’hai scorta, allora? E il tuo peregrinare
mai finirà, e nel venìr silenzioso
dell’alba nuova, camminerai, e urlare
forse dovrai supplicando il Destino,
e il viaggio eterno ti vedrà più solo,
come d’inverno a un ramo un usignolo,
e tu, ami ancora questo sasso alpino?
Ami purtroppo! Una pietra che è niente,
un folle sogno, oh sonnecchiàr demente!
Ma per te l’Alpe è davvero una fanciulla.
Meriti forse morìr nel suo Nulla?

L’Alpe è un segreto che tieni nel cuore,
e perché non lo dici all’Infinito?
Il cielo tace, anche il lampo in furore,
dillo, oh viandante! Perché sei smarrito?
La valle intende questo tuo dolore,
e Dio ha orecchi e occhi nel suolo impietrito.
Grida alle stelle e al vespro oscuro e nero
l’Anima tua con il suo almo mistero!

Silenzio oscuro si regna d’intorno,
e stanco e smorto or continui pei monti,
e qui ti fermerà almen l’altro giorno?
Giaci affamato e scruti gli orizzonti,
come se in te qualcosa s’è perduto,
e a stento baci le pietre dei ponti.
Non sai cos’è, e il tuo labbro si fa muto,
e a terra cade e s’infrange il tuo liuto.

L’Alpe è il Destino che ti chiama ai lunghi
sentièr perenni d’un insàn dolère.
Mangerai sassi, discorrerai ai funghi,
vedrai i giorni morìr nell’orbe sere.
Viandante, è il Fato; e tu ancor lo sopporti?
La Vita ti abbandona, e non hai un fiore
sulla bara vivente, e tane e Amore,
vivi fuggendo, e vivi come i morti.
All’alba dice la fresca montagna
niente se non la tua tremula lagna.
Vivesti male, lo dice il tuo volto,
fuoco d’un’ombra nei sogni sepolto!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XV Agosto AD MMXV

sabato 27 giugno 2015

Il Crepuscolo dinnanzi a un Bardo

I. L’ultimo bardo cantava la nenia
delle Valchirie nel cielo adirate,
e con l’arpa lagnava empio un Destino
di Morte e di Dolore e di Tramonto.

Irminsùl, in effetti, andò al Tramonto
dei cieli e delle terre; e fu il Destino
che dominò le nuvole adirate,
dove la pioggia gemeva una nenia;

ed era questa una funebre nenia,
e le saëtte urlavano adirate.
Così giungeva il decreto, e il Destino:
«Si copra Mìdgard d’eterno Tramonto!».

Allor dovunque lampeggiò il Tramonto,
e gli Elementi inghiottiva il Destino.

Fu quivi che le Norne il vel vitale
della Vita strapparono, e nel vento
ombre di crani ondeggiavano cupi.

Fu ora che i cieli gridavano cupi,
e che freddo e furioso andava il vento,
e che nulla si salvò che fu vitale.

Pur degli Dei la baldanza vitale
adesso sibilava lungo il vento,
e monti devastati stavan cupi.

Ma al cuor dei nembi terribili e cupi
un’ombra si volava in mezzo al vento.

E questa in questo vento
illuminava gli Elementi cupi,
co’ un carro di destrieri e d’orbi lupi.

II. Era una dama coll’usbergo al seno,
e l’elmo intemerato al crine biondo,
e che un mantello aveva vagabondo,
e che ammirava le fiamme del Reno.

Giovane parve, e bella, e forte e scialba,
e qui segretamente aveva in cuore
un desiderio di rivedèr l’alba,
e una doglianza perenne d’Amore;
e si scagliò nel fuoco redentore,
e vendicava le dame del lido
di questo fiume, e il perduto Sigfrìdo,
e il corpo suo si bruciava sereno.

Il suo cenere divenne un veleno,
e il Nibelungo ‘l bevé e fremebondo
svelto moriva con urlo iracondo,
e si placàron le fiamme del Reno.

III. Il Temporale sibilava tanto,
e dell’Ondine si sentiva un canto
che nel tuonàr della trista saëtta
gridò: «Vendetta!».

Ma dalle regge infuocate e lontane
nel fiume cadde il suo tesoro immane,
e tra le Ninfe ciascuna fanciulla
trionfò sul Nulla.

Il Crepuscolo sparve e l’alba venne,
co’ un Sole più mellifluo e più perenne,
e sorgevano i cieli e gli Dei e poi
stirpi d’Eroi.    

IV. Finiva il bardo la canzone mesta,
e la tribù gli tributava i plausi,
e nel frattempo la Notte splendeva,
e argentea si mostrava l’ansia Luna.

La selva si tingeva della Luna,
e del suo argento timida splendeva,
dove le frasche le facèvan plausi,
sebbèn ne fosse lievemente mesta.

Questo fu il canto della Sorte mesta
degli Eroi ai quali toccarono i plausi;
e questa Poësia lieve splendeva
sulle capanne come un’altra Luna.

Se ora nel cielo si mostrò la Luna,
prima il Tramonto purtroppo splendeva.

La Vita è come il giorno e l’orba Notte,
e il senso scorre ripetutamente
di quel che esiste, e che vive e che duole.

Ora v’è il gaudio, e ora il cuore si duole,
s’erge il Tramonto, e ripetutamente
s’alternano così il giorno e la Notte.

L’Amore è il giorno, il Disprezzo è la Notte,
cresce il conflitto ripetutamente.
Ma al fin si è lieti, oppur sempre si duole?

Ahimè! Forse si duole;
e questa stirpe ripetutamente
di speni e d’allegria si fa demente!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XXVII Giugno AD MMXV

martedì 9 giugno 2015

Impressioni sopra una Tempesta estiva

Nubi di lampi all’orizzonte oscuro,
e turbini e tempeste e piogge io sento,
donde il mio cuor si perde a questo vento,
e l’iride del cielo ansioso e impuro
che piove scorgo su un cadente muro,
e la Tempesta s’erge, e il patimento

dell’estiva e irrequieta odo Natura,
e queste vagabonde e orrende gote
della grandine svelta io ascolto e ignote
forze di Furie, la Norna immatura
che della Morte non tiene una cura,
e nubi intendo vagolar immote.

Ho freddo, e gelo, e paüra e timore,
e contemplando vado i lampi e i tuoni,
e a questi lumi gli occhi miei stan proni,
e ho un soffrir qui che dir non so, e un tremore,
sbigottimento, e angoscioso dolore,
e arpeggio e canto i tempestosi suoni,

trilli d’un’arpa che non so che vuole:
dir qualcosa del cuor che mesto piange,
urlar il mio Destin, quel che s’infrange
il mare torvo del perduto Sole,
e forse il senso che al campo di viole
quieto nutrivo, la passiòn che m’ange,

o forse disvelàr i miei secreti pianti,
i Sentimenti che van come in giostra,
o la demenza che a un Genio si prostra,
gridar, urlar, patir, gemèr i canti,
soffrir d’arcano, i misteri d’infranti
sogni d’un giòvin che mìser si mostra.

Così quest’arpa che in man tengo or grida,
e senza ch’io la pizzichi, gli accordi
della Sorte proclama ai nembi sordi,
e questo delicato urlar s’annida
nella Tempesta che si lagna infìda,
e intenerisce gli irrequieti fiordi,

e confusa ne canta una canzone
che narra un sogno, l’Animo segreto,
e che per questo ha un mantèl dell’inquieto
torrente ignoto d’un’ansia passione
che indefinita va qual cacciagione,
altrove, ignoto, a un altro e dolce greto,

un cantico che parla or di me, e or d’uomo,
timidamente, or ràpsodo e or Poëta,
e che nei miei dolor, gaudi s’allieta,
e questo canto più non si fa domo,
ed è l’indivisìbil, tristo atòmo
d’un cuor che di Poësia è l’esegeta.

Frattanto il tuono, il lampo, e il piòver odo,
la pioggia che si cade al fango e ai boschi,
e ai solitari e irremovìbil chioschi,
e il fil della mia Vita in ansia annodo,
e al Temporale io di cantici godo,
come un bardo che chiama i Numi foschi,

e sento e intendo, e contemplo e n’ascolto
il tintinnàr, e il cadèr, e il passare  
di grandini feroci, e il passeggiare
del vento tetro privato d’un volto,
e il ramo all’arie, e il crin del pioppo sciolto,
e all’orizzonte le montagne e il mare,

e ho qualcosa nel cuor che tanto geme
e che purtroppo non so alzar e dire,
come un sopore d’un che vuol dormire,
e la Tempesta e il Destino or qui insieme
ripetono la stolta e invana speme,
eterno il pianto, perenne il soffrire.

Oh Temporale! Oh fulmini! Oh fatale
aria di gelo! Oh pioggerelle antiche!
Oh dall’acque piegate, bionde spiche!
Oh Furie! Erinni! Oh cupo Maëstrale!
Oh Genio irato! Titano immortale!
Oh valli intemerate e belle e aprìche!

Canto le doglie dei tuoni che intendo,
canto la Notte che fulmina i monti,
canto i dolenti, splendenti orizzonti;
e cantando e sedendo il Fato apprendo,
silenzio insano, e a cantare m’arrendo,
e sònmi amare perfìn queste fonti!

Son lagne non racconti:
doglianze fiere d’un gemente cuore,
lagne di nembi, di lampi il furore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì IX Giugno AD MMXV

mercoledì 3 giugno 2015

1815 - Immagini d'Accampamento di Vita notturna

A un focolare un bivacco gemeva,
e tremule canzoni alzava al vento,
e l’orba sera in tenebròr splendeva,
e l’orizzonte urlava di tormento,
e una ronda la Notte n’attendeva,
e intorno andava con un passo lento,
e un nappo ergeva un brìndis militare
a Marte, del guerrier il Tutelare.

Alcuni prodi pulìvan lo schioppo,
ben altri si lustràvan gli stivali,
bevèvan l’ombre al ramoscèl d’un pioppo,
e un dado si lagnò ai giuochi fatali,
e un tamburino camminava zoppo,
e un’aria osava ai freddi maëstrali,
e seduti ai ruscèl di vil campagna
i prodi stàvan tra i gaudi e la lagna.

Nel cielo oscuro, frattanto, la Luna
a vestire le nubi s’apprestava,
e il ciel pareva un’argentea laguna
che le deposte spade illuminava,
e l’argento lunàr per questa bruna
Notte di campo, in effetti, brillava;
e lungi un lupo a costui asperse un canto,
negro di Furia, più cupo di manto.

Il sonno si fuggiva, e un occhio insonne
all’Inghilterra volse i desidèri,
e giòvin rammentava le sue donne
e i seduttori inganni e i menzogneri
baci alle pieghe dell’agili gonne,
e dei suoi campi i recinti e i sentieri,
ed egli - un seduttore! - aveva strazio
di questo ferro di sangue mai sazio.

La recluta pensava al sen materno,
e si tingeva di tetra paüra,
sonno gli apparve un sepolcro d’Eterno,
presagio infausto di cui n’ebbe cura,
e intorno il Cielo, il medèsmo, il superno,
di Morte tinse l’inquieta Natura,
e il fanciullìn tremava inerme, e poscia
fu vinto dai sospetti e dall’angoscia.

Nel frattempo un messèr col plaid d’un Scoto
la cornamusa trillava ai viventi,
e gemeva un cantàr, silenzio immoto,
funebre nenia dai trilli sgomenti,
e cattolico e ligio e pio e devoto
e con detti di sacri Sentimenti
mesto pregava coll’Ave Maria,
gaëlico soffrìr di Poësia.

Un cavalier sfiorava il palafreno,
e mestamente scorgeva d’intorno,
e alla destra teneva un po’ di fieno
che l’animàl mangiò di sella adorno,
e di questo il mantèl brillava ameno
sotto le foglie d’un pioppo e d’un orno,
e tranquillo ignorava il suo Destino,
se vittorioso - e tanto - oppur meschino.

Un soldato scriveva a sua fanciulla,
lettera arcana d’un uomo che trema,
e sotto il crine d’un’orba betulla
forse ne impresse una parola estrema,
e l’avvenìr si cadeva nel Nulla,
e si tuonava forse un anatèma;
e alla fine vi scrisse: «Oh bella addio,
senso e speranza di questo cuor mio!»,

e si chiedeva con la menta avvinta
nei tristi sogni del spento tramonto
s’ella che abbandonò gli fosse incinta,
s’ei il bimbo avesse visto, e fece il conto
con quest’attesa di Morte dipinta,
e nell’ambascia finì il suo racconto,
e di tremore vivente moriva,
e il sonno vanamente l’assaliva.

Ricordava un galante una canzone
che si temprava di suoni d’Amori,
il violìn che gridava a un bel verone
tra i flauti e i clarinetti e i suonatori,
ed era un canto di viva passione,
d’alte preghiere e d’insani dolori;
ed egli con in man un po’ di vischio
la rammentava facendone un fischio.

Nella sua tenda con un caporale
freddo di cuore e d’animo agitato
gli ordini disse un fatal generale
che con un detto condannava al Fato
le tante gioventù, e all’estro geniale
del dèmon suo si piaceva innalzato,
e con questo ridìr caddero a mille,
vane le speni, e inutili le stille.  

Òrdin di pattugliare: sì, eseguiti.
La ronda ha fatto? Ha intravisto il nemico.
I disertori: oramai son smarriti.
La batteria: al frumento, al gran aprìco.
Gli ordini intesi: certo, e poi capiti,
e disse il generàl: «Altro non dico»;
e decretava i volèr dell’Inferno,
le sante Furie del Ciel, dell’Eterno.

A recitàr se n’andava un rosario
un povero e straziato cappellano,
e pàrvegli che il consuetudinario
pregar ne fosse orribilmente vano,
e stringendone al petto un reliquario
per questi campi scorreva lontano,
e tra un’ombra di Morte oscura e oppressa
segretamente celebrò una Messa.

Adesso un miserabile a una viola
spaventato e tremando ed irrequieto
disse tra sé una fuggente parola
e d’un ruscello si sedette al greto,
e tosto caricava la pistola.
Ma non ebbe coraggio; e allor inquieto
le gesta di Cesare e d’Alessandro
dannando, s’attoscò coll’oleändro.

Quest’è la Notte dell’accampamento,
Luna febbrile di sepolcri immani,
dove si regna l’eterno spavento,
dove suicìdi si tirano i cani,
e questo vespro ne danna al tormento
i prepotenti, i guerrieri e i sovrani,
e debole la Vita qui si langue,
e vi sarà domàn un mar di sangue.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì III Giugno AD MMXV

        

giovedì 16 aprile 2015

Le Fanciulle del Reno

I. A te, o Reno, i’ ne canto un’elegia,
un Poëma mellifluo, Poësia
lieta di Vita, e la canzone assorda
i nembi; e questa corda

dell’arpa che i’ ne pizzico saltella,
e all’onda tua si giace, e all’acqua bella,
donde ‘l mio senso ne sogna i furenti
spettri de’i gorghi, argenti

d’un ruscello vicino, e i’ sento augei
lamentar pe’i disciolti tuoi capei,
lo stornello che ispira - e dolce e tanto -
questo mio estremo canto.

II. Nel dolce sogno in palpito
pepli che ondeggiano
pell’acque vanno, e un liuto
d’un Fauno strilla.
Sono le sete ataviche
delle Amadriädi,
nel scorrere perduto
un velo trilla.

O Reno, ‘l veggo e l’incubo
con questo làgnasi,
tra le pieghe i monìli
e gemme e argento
quietamente si gridano,
si solleticano,
i cimbali gentili
in Furia al vento.

Allor sognando i’ chièggomi
e i’ sento un tremito:
«Chi nell’acque si spoglia?»,
e l’eco tace.
Ma tu ‘l sai delle femmine
figlie tue celebri.
Canto la stirpe, doglia
della tua Pace.

III. La Natura in sul vespro ansante scende,
e ‘l sonno la foresta - e ‘l ciel - apprende.
I pepli che si scorrono son pinti
del crepuscolo e avvinti.

L’orizzonte si brilla, e come l’oro
sazia la sete dell’avido, e ‘l toro,
e ‘l bove e la giovenca dormon queti
lungo i tuoi freschi greti.

Ma un stagno n’assomiglia ‘l tuo sopore,
balza la rana stringendoti ‘l core;
e candide le mani femminili
s’ergono al ciel, gli aprili.

IV. Acque di crini e di seni e di menti
mellifluo ti lamenti, o Reno, e al volo
delle Furie iraconde - i freddi venti -
timido canta a’ capei l’usignuolo.

Quando ‘l meriggio sovvien a’ torrenti,
tra le ninfèe e i ranuncoli un giacciòlo
una Ninfa ne coglie, e i stel ardenti
lieta recide al lagnar dell’assiuolo;

ed ella zampillando all’onde e a’ spenti
orni ombreggianti le man posa al suolo.

Frattanto le fanciulle anch’esse Ondine
sònano ignude le cetre infeconde,
sterili in sogni d’Amor. Le divine

e palpitanti forme, e vagabonde,
l’argento ne cùllan - l’acque - e in fine
scendono e s’alzan, le vette profonde.

Oh Reno, oh graziöse fanciulline!....
Oh Sirene spogliate! Oh gemme bionde!

Ma le nubi iraconde
in tènebre si stanno, e ‘l Temporale
Dönner ne invoca, ‘l martello fatale.

V. Gocce di pioggia si cadono, e al petto
delle Ninfe carèzzan l’alba pelle,
e cingono i capei e ‘l giovine aspetto
dell’acquatiche e donne e ardenti stelle.

Un rìcciolo si scioglie, e al bianco letto
dell’azalèe si cade; e queste belle
tue figlie, o sacro Reno, odono ‘l detto
delle prische e soffrenti pioggerelle.

Gemme argentate si bagnano, e chiome
ne scorrono i terribili ruscelli,
e ‘l vento ne domanda loro ‘l nome,

invisibile e altero, oscuri velli.
Allora la Tempesta infuria come
ne’i nugoli notturni i pipistrelli.

VI. Allora una fanciulla a’ prisca pioggia
timidamente segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia
al ventre e al fianco e all’anca e cade; e ameno

un lampo all’orizzonte si rosseggia
alluminando i côlli delle spoglie
Ninfe e lo stagno, e la sera si albeggia,
e in sul rivo si càdon l’ansie foglie.
Ma niuna di costor n’ha in cor le doglie,
anzi ciascuna prosegue ‘l suo canto,
sibbèn dal ciel oscuro scenda ‘l pianto,
grandine amara, un dolente veleno.

Così, oh Reno, se’ fatto un’orba roggia!
e una fanciulla segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia.
Che un bacio al ventre sia, un abbraccio almeno!

VII. Nel frattempo una Ninfa ne escorizza
d’in su’i fondali cupi, e a un nembo irato
l’arpa sonàndo, un arcan profetizza.

De’i torvi Nibelunghi l’empio Fato
placidamente urlando n’asserisce,
e ‘l labbro suo si giace estasiäto.

D’Attila scorge la schiera che ardisce
la prole vendicarti, o Reno eterno,
e d’Alberìgo ‘l sangue si languisce.

Non più cardi, non fiori, solo ‘l verno
pella Germania impura allor s’impèra,
faci perpetue di guerre e d’ischerno.

Quest’Unno ha vendicato l’empia sera
‘ve Irminsùl degli Dei fatal dispera!

VIII. Ma questa profetessa ha fulvo ‘l crine,
e l’occhio spiritato e all’alte Norne
orrido volge, e le compagne Ondine
la deridono tanto; e in ciel adorne

di folgori si stanno l’alme nubi,
piovono ossami liquefatti e insani,
solleticano meste i casti pubi
delle tue figlie, o Reno. E ansanti cani -
di Wòtan - si lamentano; e lontani
delle Valchirie vanno i palafreni,
e ‘l galoppar ne bacia i molli seni
dell’onda palpitante e oscura e informe.

Passan gl’istanti, e ‘l Temporal ha fine,
e Dönner si lenisce e allor si dorme,
placasi alfine, e le melliflue Ondine
di paüra e di requie or sono adorne.

IX. Seno si beve quest’acque piovane
che scesero alla pelle. Giovinette
ne lagnano le Ninfe l’arpe arcane
all’orizzonte freddo delle vette.

Reno, ammira! le piogge lontane
or ne sono siccòme le saëtte.
Le tènebre funeree sono vane,
sciolgonsi vili, e si fuggono inette;

e seren si risplende sol l’immane
guardo dell’acque tranquille e dilette.

Quest’è ‘l canto ammaliante e queto e in fiore
alle tue figlie, o Reno, e a una fanciulla
che in Poësia si nutre in petto ‘l core,

la profetessa al sen d’una betulla.
Fanciulle, riposate! Abbiate Amore,
la dolcezza fatal che vi trastulla!....

Ma ‘l sogno si svanisce; e v’è ‘l dolore
intorno. E tutto fugge… e regna ‘l Nulla!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì XV, Giovedì XVI Aprile AD MMXV