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lunedì 28 settembre 2015

Ode alle Notti e alle Nebbie dell’Autunno di un’Anima e di un Cuore

Oh mie piccole nebbie, oh spettri immersi e falbi
nell’orizzonte infinito, e oh scialbe cere e oscure
del meriggiàr dei sùbiti tramonti, e 
oh mietute campagne, udite! È un canto, ed è

il mio sognàr più nuovo; e qui ove il pianto (mio)
si proträe all’Ignoto, i vostri monti che sono
discernibili appena, e queste sere
tristi mi son. E i crepuscoli tersi - i vostri! -

dalle lacrime mie saranno; e aspersi (da lor) per sempre
andranno i miei ricordi, e le preghiere mie.

Perché qui in un arcano - e ora - mi opprime - e molto! -
un’appassita cura: che per voi è un singulto, e
che per me è un soffrìr che mi inquieta il cuore. E

è il taciturno assenzio d’un Amore cieco
che oltre i miei sogni non sarà che inulto - e vano -
e che pur ha un non so che di sublime inattesa.

Ma tra voi, oh nebbie, le lontane cime or stanno immerse, e il
mio sogno è Notte; ed è il regno dell’occulto senso. E…

e a voi renderò un culto,
tenebre eterne. E è un fatàl rituäle,
il mio cuor che si fonde a un maëstrale. E piango!

Notti perenni! Mi avete inghiottito, oh voi,
la mia sognata rosa dell’estate,
dove il dolore non è che infinito, eterno! E…

e alla vostra e alba Luna, e alle dorate sue forme, e alle
prime nebbie d’autunno, a me è il patire,
e so che voi così vi rallegrate, oh insane!

Ma perché tarda questa rosa a venire a me?
Non bramo tanto: sognare e dormire. E il Cielo tace.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXVII Settembre AD MMXV

domenica 27 settembre 2015

La Sera delle Danze e delle Maschere

E fu la sera della danza immane.
I musici strillàvano i violini.
Volteggiàvan le maschere e le vane
ombre delle fanciulle. E serotini

e dolci i chiassi s’altercàvan. Dame
di pizzo e d’oro e argento in sguardi arcigni
danzavano d’intorno; e pur lontane
sembravano le spire dei Destini. E…

e era un torneämento di sottane, e
stretti corsetti, e ai calici i vini.

Ma tu, oh maschera, oh bella, oh tu, divina,
quali occhi nascondevi, e quale cuore? E…
e eri forse una triste madamina? - Luna

di gioventù? -. Ebbèn, dimmi il tuo dolore e…
e che mai ti affannava! E eri tu spina
dei miei sogni e miraggio. E il nòm? Amore!

Maschera ignota, e fatàl, femminina, - e bruna,
e come può che questo sogno muore?

Danzàvano quest’ore! E or…
e il passato silenzio il ballo inghiotte, e
non v’è più danza, ma resta la Notte!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XXVI Settembre AD MMXV


sabato 26 settembre 2015

Alle Villi del Reno

Nude ombre di Villi v’èran. Danza
fu d’un sepolcro, e del suo nubile ossame.
All’arpa tra le nebbie una romanza
uno spettro lagnava. E era il ciel rame

del nascituro vespro, e i fior fragranza
dell’empia Morte. E danzava al fogliame
la mascherata vergine. Doglianza
non fu che di dolore, oh cuor di dame!

Era la selva una notturna stanza
d’un ballo eterno, e sconfinato e infame.

E io che qui sogno il vostro inappagato seno,
che vi dirò, oh mie Villi? Forse i canti
funebri e mesti, e i lamenti del Fato, ergerò; i

miei sogni inavverati, e i spiri infranti
da un vano Amore e da un fior trasognato. E…
e voi - voi! - conterete i miei aspri pianti, e al Reno

mi ondeggerete; e il vostro spettro orbato
di tanta Vita, e i pepli d’adamanti

or saranno i miei manti. E almeno
potrò gridàr che ti amai, oh tu, fanciulla,
sogno ghermito nel volo del Nulla!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XXVI Settembre AD MMXV

mercoledì 12 agosto 2015

Dileguarsi dei Monti

Monti perduti... e il sogno si allontana,
e nell'ora dell'alba il sonno muore.
M'è or desiderio la brezza montana;
ma i campi e le pianure ammiro in fiore.

Lassù, alle valli, ov'è la Tramontana,
forse in singhiozzi ho abbandonato il cuore,
là, tra le pietre e i ruscelli e una tana,
su un alpestre sagrato del Signore.

Così m'è parsa una chimera, e vana
la mente si lamenta in suo dolore.

Oh vette tempestose! Addio! E l'udite?
Questo, oh Gridòne, è il pianto d'un Poëta
che qui più non ti scorge! E voi, smarrite

cime di selve, ove più non s'allieta
questo mio volto, oh voi sublimi, dite:
da voi lontano, qual è la mia meta?....

Furono sogni! E le membra assopite
singhiozzano in un cuor che non ha pièta!....

Ivi io vissi d’asceta!
Ma ora mi chiedo, lungi il sasso alpino,
qual sia il sentiero, la Vita e il Destino.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XII Agosto AD MMXV

martedì 28 luglio 2015

Luna

Alfìn la sera e tra le nubi e i spini
timidamente viene, e scialba e bruna
nei ciel oscuri e ai boschi va la Luna,
cranio d'un vespro che regge i Destini.

Funereo argento così abbraccia i pini,
e d'insonni arboscelli è la laguna,
e il falbo teschio predice una runa
ai salici e alle querce e ai pioppi albini.

Qual è, oh qual Fato, nasconde una cuna
agli orizzonti tristi, e freddi e alpini?....

Allor il plenilunio che ora ammiro
vibra, e trillando mi ghermisce il cuore,
dove s'annida il fior di mie canzoni;

e l’orba Luna or regna il mio respiro,
e m'è mistero - e sarà gioia o dolore? -
ed ella è un lampo che in ciel prorompe in tuoni.

Plenilunio è funesto! E il suo bagliore
sulla mia arpa si perde in muti suoni!

Sepolcro è di passioni:
e dopo il vespro a far dormir le grotte
dov'io riposo, ecco! giunge la Notte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XXVIII Luglio AD MMXV

mercoledì 15 luglio 2015

Idillio romantico d'un Addio di Scozia

I. Ascoltate, onde del mare fremente,
ciò che canto! e che un giorno qui accadeva,
quando la sera alla Notte volgeva,
e il cielo si dormiva cupamente.

Onde dell’acque più irate, e furente
flutto di questi lidi, il bardo ardeva
e il suo canto di strazio a voi gemeva,
or come io gemo in un sospìr assente.

Canto un idillio, qui, ove mollemente
un Amor nacque, e giòvin decadeva.

Ascolta, Scozia! Il perenne mistero
delle passioni e degli istinti umani,
che adesso vado a cantàr con la cetra.

Canto la Sorte d’un cielo più nero,
e dei sensi melliflui i Mostri arcani
che s’ergono crudeli come pietra,

e canto l’ansie a quest’ombre d’un cero,
i desideri, e le gioie e i sogni; e vani

son quest’ultimi, e all’etra
un cantico rimane or tra le sere,
vane e tremende e mendaci preghiere.

II. All’ombra delle cime in scialbe nevi,
e al ricordo dei trilli degli ovili,
dove i pastori si lamentano ai corni,
canto l’addio che la Luna ammirava;

e canto un spiro che ivi s’inquietava,
e che poi vanamente nuovi giorni
sperò d’Amore, e come i bei fienili
canto le gemme bionde e i capèi lievi.

Òdimi, oh Scozia! e come un tuo Poëta
gli affanni grido dei figli tuoi, tetri
occhi di pianto che l’onta ferisce.

Canto la Furia che mai si lenisce
dell’umana passione, infranti vetri,
e l’uomo scorre, e più non ha una meta.

Ecco! Ho un’arpa, e di pièta
convulso e spento al tramonto amaranto
tempro alla fine il giurato mio canto.

III. Al lido oscuro e nella tetra Notte,
per i colli lontani e indefiniti,
tra le betulle e sulle rozze grotte
l’alba Luna luceva. Ma impietriti

a quest’argento e al dormìr delle motte
esanimi due spettri, e impaüriti
si rincorrèvan per le danze indotte
dai strilli ombrosi dei corni avvizziti.

Frattanto delle selve a truci frotte
ululavano i lupi; e gli infiniti

occhi notturni scrutàvan nel Fato,
mentre un pastòr la cornamusa strinse,
donde si ergeva un tuonàr funestato.

Allòr indefinite or l’ombre avvinse
della Luna uno stral, e intemerato
volto di dama apparve, e quel che ‘l cinse

un bruno cavalièr addolorato,
e d’argento lunàr costui si pinse;

e il ciel un pianto attinse
notturno nel mistèr d’addio d’Amore,
Notte perenne d’eterno dolore.

IV. Eran due amanti fuggiti dal covo
d’un funebre castello, dove avverse
fùron le Sorti di loro passione,
e tante pene urlâr, e molte cure;

e così insieme fuggìvan. L’oscure
frasche dei salci al vento una canzone
flebilmente lagnavano, e s’asperse
pur la rugiada sul fiore d’un rovo.

Andavano alle spiagge delle cime,
colà, tra le montagne e il mar immoto,
e si scambiàvan sacri giuramenti.

Erano Tempeste, e tuòn di Sentimenti,
e pur con loro or ciascùn lido scoto
più quieto apparve, e ancora più sublime.

V. Ora la Luna funerea splendeva,
come larva d’un fior sepolcrale,
laddove una ghirlanda pia gemeva
memore ancor del scorso funerale.

Ma più feroce un’arpa doleva,
forse temprata da un bardo spettrale,
e una strega fatàl si contorceva
dappresso l’infuriàr del maëstrale.

Pur agli innamorati si schiudeva
un freddo e oscuro Fato, un Temporale.

Arrivarono a un lido, e intorno i monti
lampeggiàvano tristi, e gli occhi cesi
dei lampi ne inquietàvan gli orizzonti.

Essi, seguendo i convenìr scozzesi,
avvolti in un abbraccio e presso i fonti,
si giuràvano Amor, e i baci appresi

gareggiàvan sui labbri e sulle fronti,
i sogni a coronàr di molti mesi.

Gl’indici or qui sospesi
nel cupo vento rùppêr la moneta,
e la fanciulla si beäva quieta.

VI. Guai! se le parti di questo denaro
fòssêr nei segni d’un vil tradimento:
sarebbe il Fato e terribile e amaro.

Così dicèvan i padri nel lento
canto dell’arpa e nel frànger del conio,
donde i giovani n’èbber lo spavento.

Spaccare una moneta è un Matrimonio,
e pel fellone non v’è albergo e landa,
né pietà e compassione; ma il Demonio.

Così la tradizione ne comanda,
e le parti d’un conio son altare,
e han valòr oltre Scozia, e oltre l’Irlanda.

Sia maledetto, il traditor, nel mare
corra baldante, e vada a naüfragare!

VII. Gli innamorati conoscèvan questo,
e si divìsêr il denaro infranto,
e abbracciati sen stavano d’accanto,
col cuor felice, e non più ombroso e mesto.

Egli la mano della dama prese,
e le baciò le gemme e i begli anelli,
e i suoi sospir le rapiva e ne intese,
e poi le accarezzava aurei i capelli.
Ma stàvan Fati più duri e men belli,
chè il cavalièr dovea fuggìr, e svelto,
esiliato dai feudi e lì divelto,
sicchè l’ora dell’addio or venne presto.

Allòr costui si distaccò e funesto
e tremante s’avvolse in negro manto,
e dalla dama ne partiva affranto,
cuore infelice, e più ancor e ansio e mesto.

VIII. Un palafreno tra brume gridava,
e fin quando ‘l poté, costei ‘l seguiva,
con l’occhio in pianto e il labbro che sbraitava
bave d’affanno e di dolor saliva.

Il destriero fuggì, e non si mirava,
e la fanciulla piangeva, e a una riva,
camminando a tentoni si posava,
e l’affanno, il malvagio, l’assaliva.

Così alla Luna costei s’inquietava,
e inquietàndosi e vinta al fin moriva.

Uno scheletro giacque al lido ardito,
e il labbro suo sembrò dicesse: «Addio!»,
come un saluto lungo l’Infinito.

Ma nulla seppe il cavaliere pio,
anzi, credette rivederla, e al rito
delle nozze condurla: «Oh cuore mio!».

E or che io ho narrato e che qui io son smarrito
or forse gemo, or forse spero anch’io.

Ahi, perché Amor, oh Iddio?....
Bianche fanciulle nei lor sogni assorte,
e poi, che viene? Lontananza e Morte!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XV Luglio AD MMXV

mercoledì 8 luglio 2015

Cantico di un Poeta d'un Fiordo di Svezia

Tra nevi bianche e indomiti ghiacci,
qui, dove si lamenta ai fonti un lupo,
e invocando gli Dei, io m’appresto a un’arpa,
e mesto io canto i sibilàr dei fiordi.


Timidamente a questa Notte e ai fiordi
canti inauditi or io concedo all’arpa,
la qual qui n’ha doglianze come un lupo,
e tanto trema pel gelàr dei ghiacci.


Così canzoni sciolgo a questi ghiacci,
e ulula intanto da una rupe un lupo.


Queste son nenie delle valli antiche,
quelle che mi tramandano i Defunti,
e i nembi oscuri del ciel dell’inverno.


Udite, dunque! Io lamento all’inverno
le ghirlande sepolte dei Defunti,
e mesto giaccio alle lor tombe antiche.


Canto le doglie e le cantiche antiche,
e canto i reliquari dei Defunti.


Canto ai Vivi e ai Defunti,
e canto le canzoni, le più antiche,
canto quest’eco per le valli aprìche.


Meriggio fosco di Luna nel fiordo,
per i monti lontani un corno trilla,
e si lamenta a un arboscèl un tordo.


Geme lo Scaldo con l’arpa che strilla:
le canzoni dell’Ombre di Tuonèla,
e l’orizzonte che s’oscura; è lilla.


Urla il guerriero di cui l’alma inciela
quando spirando ghermisce la Luna,
e nel mar si risplende un’orba vela.


Ma una fanciulla nella sera bruna
alle pietre d’un monte ammira in pianto
l’ima convalle e la tetra laguna,


e della Notte nel feroce manto
ella tempra una nenia, un tristo canto.


Canta: l’errante cavaliere biondo
che con l’addio l’abbandonava, e duole
nel seguìr le sue impronte, e il vagabondo
destrièr che fugge oltre l’ombra del Sole.


Lagna il Destino tremendo e iracondo,
e quasi morta cade all’empie viole,
e il cuor s’infuria e giace fremebondo,
palpiti infami come aghi di spole;


e si smarrisce l’occhio suo profondo
per l’ansie e nivee e sempiterne gole.


Ella ne piange e al mar indefinito
i vascelli ne scruta, e attende invano
il sovvenìr dell’Amore smarrito:


fors’egli si sta dinnanzi a un sovrano,
o forse pur combatte in erme lito,
con la Morte nel cuor, la spada in mano.


Allor costei qui prega l’Infinito,
e il suo messèr si lenisce lontano;


ed ella a un nembo arcano
e della Luna fioca nell’argento
d’Amor ne stringe un mellifluo lamento.


Rimembra l’ore del remoto addio,
e delle pene e degli strazi il fio,
e l’alba che s’ergeva, e il cavaliere
che baciàtola e in fiere


lente parole fuggiva alla guerra,
solitaria lasciàndola alla terra,
dove s’infranse d’un bacio l’impronta
nell’eco carca d’onta.


Ricorda l’abbandono, amaro istante,
il suo sguardo su quel del suo incostante
uomo di spada, e a rimembràr ha doglia
tremante come foglia.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Nel frattempo qui s’erge un Temporale,
e la pioggia si cade al suol norreno,
ed ella geme alle Valchirie: «Io peno!»,
e le lagrime versa al maëstrale.


Così gemendo ammira naufragare
un legno marinaro, e ai flutti irati
l’albe vele sommerge il nero mare,
la Runa estrema dei decisi Fati;
e ai stral lunari e timidi e argentati
ella pensa che su quel legno ei fosse,
il cavalier amato, e in tanta tosse
avvolta cade del ciel nell’opàle.


Grida Dönner, il Fulmine immortale,
e la grandine scende a un morto seno,
e il spento Amor già fu un fatàl veleno:
la cornamusa strilla il funerale.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Vespro di Morte nel fiordo svedese,
il bardo ne declama orba ghirlanda,
canto che più d’un giorno al ciel s’estese.


La salma giace tra rose e lavanda,
e sopra questa è il salce mortuärio,
la quercia sacra e spoglia e spasimanda.


Quest’è la nenia nel trillàr che vario
dell’arpa geme l’estremo Destino:
tra le nevi del fiordo è un reliquario.


Oh voi, Sublimi, che in Cielo il cammino
procedete, oh Valchirie, oh voi che meta
siete dell’alme, destriero ferino,


oh voi, Fanciulle, cui Morte s’inquieta,
abbiate di costei, oh! n’abbiate pièta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Mercoledì VIII Luglio AD MMXV

mercoledì 29 aprile 2015

Vento degli ultimi Giorni d'Aprile

I. Freddo l’aprile gli estremi suoi giorni
alitando trascorre un tristo vento.
Ulula ‘l sasso degli antichi forni,
e ‘l sibilo s’infuria e passa lento.

Le foglie strappa alle betulle e agli orni,
e ‘l bosco ne costringe a un torneamento,
‘ve i germogli di Vita or sono adorni,
un viver che si langue e ch’è sgomento.

E l’aura geme un infuriar di corni,
canti di caccia che vanno al tormento!

I’ qui l’intendo; e fors’anch’ei m’ispira
un canto e dolce e mesto, e allor ne premo
l’aride corde d’un’agile lira.

I’ non m’accorgo, ma sonando i’ tremo,
come un uom che d’un Dio ne gusta l’ira,
e flebilmente or spasimando i’ gemo.

Quel che mi dice or la Musa - che gira
quivi d’intorno - ascoltandola i’ temo.

II. L’aprìl si muore, e l’alito
del vento gelido
le selve preme e i fonti,
e i rivi e gli orni,
e si mormora a’ pascoli
de’i capri indocili,
e solletica i monti
di nevi adorni.

Inghiottîr gli ansi nugoli
nel cielo cerulo
i dolci raj del Sole,
la Primavera,
e oscuro giace al termine
de’i lungi valichi
un campo delle viole,
la fredda sera;

e lamenta l’allodola,
piangon le nottole,
e ‘l cieco pipistrello
al nido resta,
gli artigli in sopra ‘l platano,
l’orecchia dondola,
e l’onda del ruscello
geme in Tempesta.

Schiudete, oh Furie, ‘l funebre
albergo all’Ecate,
e seppellite ‘l volto
de’i primi fiori!....
E voi, tessete, oh Eumenidi,
selvagge Näiadi,
un fil della Vita, e tolto
sia in sugli orrori!....

Infatti or qui Prosèrpina
all’Ade giàcesi,
co’ un ciel primaverile
ingannò i molli
sorrisi delle roveri,
de’i falchi in brividi,
pelle selve ‘l gentile
raggiar de’i colli.

Forse fuvvi un’ignobile
orrenda e calida
trista, crudel menzogna
la Primavera. Forse
ne fu un inganno
l’urlar del marzo al talamo
de’i gelsi splendidi,
e fu un sogno che morse
scagliando affanno.

Ecco, Poëta, sièditi,
qui, sopra ‘l spasimo,
e riflettiamo insieme
di questa Vita,
quando ne bevi un flebile
sorso che scàldasi
al braccio d’una speme
invàn ghermita,

quando n’ascolti ‘l sibilo
del vento orribile,
le frasche de’i piangenti
salci e de’i pruni,
quando l’aure s’infuriano
e ti feriscono,
nel tremor de’i tuoi denti,
tra’i nembi bruni,

come un brivido incognito
al labbro stridulo
che non sa più che dire
in tanto duolo,
come le piogge cadono
perenni in timidi
furori, e come l’ire
dell’usignuolo.

Non è una frode ‘l nobile
maggio che giùngesi,
l’aprile ch’è passato,
marzo, ‘l perduto,
le rose che si sbocciano,
i ciel che splendono,
un tramonto dorato,
canto di liuto,

quest’albe che si sorgono
svelte, in un attimo,
un sereno mattino,
meriggio mite?....
Sì, son frodi che vengono,
tetre ti stringono,
questo sarà ‘l Destino,
le vie romite.

Deî saperlo: al crepuscolo
de’i sogni un incubo
eternamente estolle,
un Mostro come
un irridente Dèmone,
un’Amadriäde,
un Orco altèro e folle,
e senza un nome,

come ‘l vento terribile
che intendi in gemiti,
Furia impazzita e tersa
dall’aspre piogge,
un negro lupo ch’ulula
a’ cupi frassini,
e bevi! chè ti versa
fango di rogge!....

Ascolta tosto! Un murmure
grida da’i turbini
del ciclone che duole,
forse ti chiama,
ti stringe ne’ suoi vortici,
un scialbo cenere
ch’è l’ossame del Sole;
la Luna, dama

nel meriggio risplèndesi
in sul vestibolo
de’i tuoi cantati ostelli,
e scaglia ‘l vento
che inghiotte nelle tènebre
i boschi debili,
un cantico d’augelli
che sta in tormento,

e riede ‘l biasimevole
verno, caligine
di germaniche brume,
stuoli di Villi,
una neve invisibile
che qui discèndesi,
grigia di Morte e lume
pe’i mesti grilli,

e questo ghiaccio gràcida
a un stagno tremulo
le rane compatite,
assiderati
gl’iris, volti selvatici,
le ninfee, e l’àlighe,
e s’ode eterna lite
tra biechi Fati.

Oh Poëta, oh gran misero,
sappi che a’ fulmini
di quest’aura confusa
Òssian lagnava
la Sorte rea de’i ràpsodi,
i miserabili
sòni di cornamusa
ei pizzicava,

che alle Norne e alle formide
Valchirie piàngeasi,
e agli Dei dell’Irlanda,
e a’ monti scoti,
che ivi l’arpa sonàvane
agli Avi e a’ Spiriti,
e delle querce a’ ghianda,
e a’ salci immoti….

Sappilo! Perché a un ràpsodo
è Sorte immobile
essere qui ingannato
dal Sol, da’i fiori,
dalle stelle che brillano,
da codest’arido
maggio che sconsolato
miete i tuoi umori.

Vuoi esser Poëta? Intèndilo:
scegliesti ‘l lugubre
viver d’un infelice,
di chi s’inganna,
d’un uom che pelle nugole
del cielo sordido,
ne soffre e maledice,
ama e s’affanna.

Gli Dei a te riversarono
i gaudi e i spasimi,
le coscienze e gli arcani,
le speni antiche,
e l’angosce dell’Anime,
strazi dell’indoli
e de’i Popoli umani
le doglie aprìche.

Scegliesti una via orribile,
inesorabile,
d’esto vento ‘l sentiero,
queste sue grotte.
Ti fuggiranno gli uomini,
ti maledicono;
e tal via ha un nome fiero:
perenne Notte!

III. Ma per coteste motte,
sappi Poëta che ‘l formido vento
anch’esso ha un nome: ne fia ‘l Sentimento!

Ma ognor mi fuggiranno, i gaudi, i’ temo,
e questo Fato d’intorno mi gira.

Mi fuggiràn le donne, e i fiori, e i’ gemo
qual se i’ fossi un umàn che coglie un’ira,
e sospirando or pel Fato ne tremo.

Febbrile mi si trilla l’ansia lira,
e un canto di doglianza a questa premo;
ma altro che duol la Musa non m’ispira.

Ahi quanto nelle vene i’ n’ho tormento,
più che vittima al sòno d’aspri corni!

Così quivi i’ mi giacio, e son sgomento,
e di strazio i miei Fati or sono adorni.
Nel frattempo m’uccide ‘l torneamento
dell’aura che ne piega i cardi e gli orni.

Il meriggio trascorre ombroso e lento,
e un sibilo si grida a’ vecchi forni.
Questo è l’orrendo soffiare del vento,
freddo l’aprile gli estremi suoi giorni!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XXIX Aprile AD MMXV