Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Sonetti speculari. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sonetti speculari. Mostra tutti i post

domenica 22 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VII. Melodramma: La Maledizione di Alberico

«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
esser mia sposa, e con me la regina, e
condividere e regno, e trono e letto,
dove la nebbia regna ed è impetuosa?
Vieni, oh tu, oh dama, qui, tra le mie braccia,
qui… coperta dai baci miei gaudenti!»,
dice Alberico, il crudèl, cuor impuro
le nuche divorando delle Ondine,
famelico sentìr d’istinti e sensi,
e ripensando ei le forme gentili; e
già esse, le Ninfe, pensano a uno scorno,
e follemente Erda ora le addestina
a vendicarsi del Re orrendo e schietto.
Oh Possa infame, tremenda e furiosa!
E il Nibelungo in cuor ripete: «A caccia!»,
e i ghigni suoi si mostrano irridenti,
spettro vivente d’un insieme oscuro
di tenebre e di notti, e nebbioline,
e ignobili sorrisi e sguardi intensi,
ombra dell’ombre, egli è il Re dei più vili.
«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
fònder sue carni con le mie voraci, e
godèr nel cielo della Nebbia eterna,
essere primigenia d’una schiatta?
Oh Ninfe, a che tacete? Non son degno
forse dei vostri visi angelicati? O
solo temete la mia barba lunga
e folta? Anch’io ho il diritto dell’Amore, e
ebbro inebriàr il cuor sul vostro cuore;
e qui m’aggiro. Non v’è Nibelunga,
e non ho spose, io, Re dei disprezzati
Gnomi del vespro, di Nebbie il vil Regno;
e Re, Re! schiavo sòn di brama matta:
ghermìr la vostra carne, la superna
bocca delle onde, oh boccucce di baci!»;
e ascoltando le Ninfe in disperata
posa, serene fanno una risata.

«Oh voi irridete, lische, il Sentimento
mio, che in ira si muta e vi percuote!
Qui, qui nell’onde verrò: e già vi afferro, e
non potrete sfuggìr ai baci miei, e
nude Sirene senza cuor! Oh pietre!»; e
sì il Nibelungo urlando e lento, lento
quasi s’addentra tra l’acque più immote,
e verso le fanciulle va, lo sgherro,
bestemmiando il Destino e pur gli Dei,
avvolto in spire nebulose e tetre,
e nel suo guazzo fùggon impaurite
le meste Ninfe, le man sue evitando,
polpi ghermenti, e furia animalesca,
e scagliandogli fredde onde di sprezzo,
mentr’egli grida rabbioso e baldante.
Così le Figlie del Reno fluttuante
ben più scaltre ne fùggon ogni vezzo,
ma ora fuggendo mòstran la donnesca
forma che certo il bruto non fa blando,
e hanno le guance umiliate e arrossite;
donde non svàmpan le brame infinite
del Nibelungo più rozzo e nefando.
E quegli è terso, e il sacro fiume infesta,
impunito dal cielo e dagli abissi,
e preme i santi scogli e i suoi cristalli.
Preme i fondali con i tristi calli,
e sulle sue fuggenti gli occhi ha affissi,
e tra quest’acque corre, ombra funesta.
E solo il senso sta nella sua testa,
e le conchiglie schiaccia e i loro ricci.
Ma le fanciulle, andando or con più flemma, e
ora arrestando, hanno uno stratagemma.

Qui Woglinde s’immerge e chiama il crudo,
e lo persuade con voce maliarda:
or lo chiama per nome, lui, Alberico,
e provocante gli porge le scuse,
e vêr di lui distende il suo mancino
braccio, e col destro - ahi lui! - se lo accarezza,
oh delicatamente! e tante volte,
e ora gli mostra le spalle e le ascelle,
e tra una sua carezza e un’altra il petto,
e cantando e cantando, oh fior soäve,
il bruto attira, e ‘l porta a sé dinnante.
Allor lo Gnomo verso questo nudo
e folle inganno s’inchina. La guarda!
Ella ripete: «Alberico! Alberico!»,
e canta, e canta… sulle cornamuse
del fresco vento, un inno che è divino;
ed egli non comprende che ‘l disprezza,
e a lei avvicina le chiome sue folte,
e quasi le solletica la pelle, e…
e finalmente ei giace al suo cospetto,
e l’ammira… l’ammira, le dice: «Ave!»,
sogna ingannato d’esserle l’amante.
«Alberico! Alberico! Vieni! Oh vieni!
E ti darò sul labbro un dolce bacio,
come tu sogni nel tuo desiderio; e
ti cingerò con queste braccia mie,
e tu mi prenderai, e mi porterai
nel tuo Regno di Nebbie, e io sarò sposa
tua, e per sempre, oh Alberico! Vieni! Oh vieni!
Perdona se ti ho offeso! Vedi? Giacio
solitaria e piangente, e tu, lì, serio
tosto mi scruti. Ah perdona le rie
gäie parole! Guarda! Senti! I lai
della mia bocca, odorata di rosa!»;
e così il Nibelungo ora le crede,
e a lei vicino s’avanza contento,
e cammina… cammina, e qui procede;
e Woglinde gli soffia un dolce vento
con le sue labbra di fiori d’aprile,
un fumo, esso, un vapore che sul mento
del Re brutale si posa gentile;
ma ecco che il Fato conosce quel vile!
La Ninfa, allora, la barba gli afferra,
e tira… e tira, lo scaglia per terra,
e poscia un poco lentamente scappa
lungi dal folle dalla negra cappa.

Ei sta per maledire ed è infuriato,
e quasi muove i suoi piedi a vendetta;
ma Flosshilde ora emerge, e porge il seno:
prende una stilla, una goccia dell’onde
che sulle forme va scendendo, e lieta
con l’indice fatale l’accompagna,
lungo le carni montuose di dama,
e accompagnata la goccia nel fiume,
veloce immerge la nuca e riemerge
ella, divina, e sorride allo Gnomo
che tanto ha fame, e non scorge ei altro inganno,
follemente perduto e istintivo.
Ella, Flosshilde, nuota e sguazza, e il rivo
agita - e molto! - e si finge in affanno,
e fissa il Mostro, l’Orco, il putrido uomo, e
con una goccia ancora il sèn si terge,
e il suo occhio azzurro brilla d’un bel lume,
bellezza primitiva, e ingenua, e arcana;
e sguazzando… sguazzando ancòr si bagna,
‘ve nel suo cuor non v’è grazia né pièta,
poscia si aggiusta le trecce sue bionde,
e già ai piedi del bruto sta. Ahimè, oh Reno!
Ed ella è dolce, soäve e diletta,
ed egli ancora si mostra stregato.
Flosshilde è giunta, e sul petto si stride,
con la man destra, ove palpita il cuore,
appena sopra il seno, e alzando il volto
dice: «Alberico! Alberico! Ah! Qui bacia
dove m’ha punta un’ape con il miele;
qui, dove il fuoco si acceso impetuoso
per le tue labbra che vogliono amare!
E sarò grata per sempre, e verrò
a Nibelheim con te, oh Re, io tua regina!».
Così Alberico lieto le sorride,
e già s’infiamma di funesto ardore,
e allor s’immerge e a lei vicino molto
al suo bel seno avvicina la faccia,
e ancor non sente il profumo del fiele,
e sul labbro prepara un tempestoso
bacio su quelle pelli che son chiare,
e già lo schiocca, egli, il beffardo. Oh no!
E Flosshilde si mostra più meschina.
Presa dal fiume una rigida perla,
prima del bacio, ecco! Gli dà una sberla.
E fugge… fugge, lo Gnomo irridendo,
il qual sogghigna malvagio e tremendo.

Giace Wellgunde su uno scoglio ignuda.
Con dei capelli e con quattro legnetti
ha appèn plasmata un’arpa leggiadra,
che lieve suona amoreggiando all’aria,
e l’orizzonte inebria d’un suo canto
che verso il Nibelungo accenna un suono
forse di grazia e di compatimento,
gorgheggi molli, melliflui, donneschi,
ditirambi agili e festosi carmi,
distici quieti, labbra urlanti, e carni
gentilmente danzanti, ed elegie:
«Weia! Waga! Waga! Amòr che infame Dio!».
Giace Wellgunde su uno scoglio e cruda
più delle sue sorelle. Oh i divi aspetti!
Di caldi sensi ella - oh sì! - ella la ladra,
interamente emersa e solitaria,
e col suo ignudo corpo trae d’accanto
il Nibelungo, al qual l’ultimo tuono
s’appresta; e allegro, allegro… e lento, lento
ei lì s’avanza a quei sèn che son freschi,
ancora vinto, e senza ira e senza armi,
ascoltando le gaudie Poësie,
ignorando l’estremo, ultimo fio.
Wellgunde è forse la più bella Ondina,
fors’anche ancor di più di Lorelei,
e qui cantando il labbro a bacio muove,
giuocando con il vento e con il Mostro,
e il corpo mostra, ella, divinamente.
Vanno i suoi versi delicatamente
per tutto il Reno, inebriato di mosto.
E tu Alberico, ancor, ancor li udrai!
Erda frattanto governa e destina!
Ecco: Alberico viene e s’avvicina,
e intenso ascolta i caldi e urlanti lai.
Allo scoglio s’aggrappa, e bacia il ventre
di Wellgunde che finge e che l’äiuta
ad andàr presso il viso. Oh Gnomo, il nano!
Ei le bacia le braccia e poi la mano,
e l’arpa prende, scaglia, ed è perduta,
e il labbro pone alle labbra sue; e mentre
il bacio sta schioccando ella lo morde
e nell’onde lo scaglia tra l’ansie orde.
E il Nibelungo ora la maledice.
Ma ecco del Sole una fiammata altrice!

Alberico in sgomento sta in disparte,
e va a una riva, e scruta e guarda e attende,
dei suoi inganni pensando all’orrida arte.
Dall’alto il Sole sul Reno discende,
e illumina i fondali ov’è l’argento,
e il luccicàr dell’oro il nano apprende.
Erda invisibile, Erda, dice al vento
che l’onde sposti, il tesoro mostrando,
e le ubbidisce allor ogni Elemento.
E così ad Alberico, empio, il nefando,
del Reno l’oro compare in fulgore,
e nessun lo difende con un brando.
Del Nibelungo nel lugubre cuore
non v’è più la passione ma il furore;
ed egli chiede: «Oh Ninfe, dite: or come
avèr si può così tanta opulenza,
com’io possa ghermirla e lì portarla
a Nibelheim, al mio regno di brume!».
E le Ninfe, distratte, ed ebbre quasi,
dal Destino incantate, oh Erda la belva!
gli rispondono insieme: «Oh Nibelungo
maledicendo la Possa d’Amore!
Colui che avrà il coraggio di tal gesto
libero avrà ogni varco a questi argenti,
e seminando l’Odio, invitta serpe,
ei godrà d’un Potèr che sarà immane,
più forte questo d’ogni Dio possente,
e il mondo intero, frutto di Erda, avrà.
Oh Nibelungo, non la maledire!».
Ma egli Alberico alle commosse chiome
delle fanciulle inebriate e in demenza,
furiosamente va, e va… va a invocarla -
la Possa santa - e senza senno e acume,
e verso gli ori dai suoi sguardi invasi,
e ivi chiamando a testimòn la selva:
e ogni suo fiore, e ogni salce, e ogni fungo,
ecco, egli maledice, ahimè, l’Amore.
Le Ninfe si ridestano e hanno mesto
lo sguardo ora impietrito, e intorno i venti
con lor combattono e le vìncon. Serpe
oh Erda, oh Erda sei! e le Ninfe son lontane,
e lo Gnomo s’avventa irriverente
sull’oro che gli spetta. Ahi, oh eredità!
E scansano le Ondine ei va a frinire.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
veloci accorrono e contro il crudo
vanamente combàtton. E ombre in nebbie
d’Anime morte dei re Nibelunghi
accorrono al servizio d’Alberico,
lasciati i lor sepolcri, e rùban l’oro.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
fuggire scòrgon con i suoi, lui, il crudo,
verso il dominio della Notte in nebbia,
nell’antro fosco dove i Nibelunghi
i servitori sono d’Alberico,
piangono, e piangono insieme e qui in coro;
e cercano di urlare ai loro Dei,
pallide in volto, scomposti i capei.
L’empio ha rubato il sacro oro del Reno.
Ahi qual s’appresta del Fato il veleno!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXII Novembre AD MMXV

venerdì 20 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VI. Preludio poetico. Le Fanciulle del Reno e Alberico

E mentre Freya agli Dei sale e ai fratelli,
rimàngon sole le Ninfe del Reno,
e Lorelei si lagna e si tormenta,
e alla Dea canta un carme di dolore.
Così giuocando trascòrron quest’ore,
e vêr il mezzogiorno un nembo in lenta
dolcezza piove, e il gemere suo è ameno,
e scorre ei su quei sguardi e freschi e belli, e…
e poscia questa pioggia i venticelli
solleticano ansando ogni bel seno.
Lorelei si ritira nella grotta,
dove sovente piange il suo Destino,
e molte Ninfe la seguono meste.
A scherzàr tra quest’acque rèstan leste,
col crine all’onde asperso e vôlto e chino, e
coi nudi seni e la scialba guanciotta,
e dentro il petto un cuor, un cuor che scotta,
e che è Figlio del Reno, egli, divino,
sol le tre primigenie Ninfe e bionde.
Ecco: Flosshilde, Woglinde e Wellgunde.
E son Sirene, esse, tra le più belle,
eterne e bianche, e guance seducenti,
lievemente arrossate dal lor senso,
ardendo incensi di rose e di viole,
e sorrisi leggiadri, e solitarie
ombre di Notte, allegre eternamente.
L’una fa un scherzo all’altra, e poi si pente,
e la terza danzando e l’acque e l’arie
in vortici dischiude, e ride al Sole,
oltre il nugolo oscùr che mugge immenso;
e son fanciulle divine e ridenti,
nate da un solo grembo, e son gemelle.
Ora scherzano e vanno sugli scogli,
e vanno… e vanno cantando una saga,
e la pioggia finisce, ed è il sereno.
All’orizzonte sta l’arcobaleno,
e la Natura intorno è dolce e paga,
e in fior si càngian i freschi germogli.
Ma a frànger quiete vièn ora un nemico,
da Nibelheim il Re infame, Alberico.

Egli è lo Gnomo delle nebbie oscure,
pìccolo e rozzo, di pelli coperto,
vestito d’orsi, e di lupi sgozzati,
la folta barba fin sul suo ginocchio,
e i capei negri di Morte e di sprezzo;
e qui sul Reno, lo muove una possa,
il Fato di Erda, che muta l’ha fatto
suo nel silenzio d’una Notte infame,
sussurràndogli arcani di Potere,
e promettendo una sposa al suo istinto.
Allòr costui contempla quelle pure
Ninfe che scorge, e tiene in capo un serto,
d’oro e di ossami biechi e trapuntati;
e corrivo… e corrivo sen va il suo occhio
su queste forme di donne e di vezzo,
ed ei per poco qui già non s’addossa,
furioso e incline al senso, e scaltro e matto.
E gli sta intorno d’insetti uno sciame,
e tanto ei odora di vin che va a bere,
e dalle sue Sirene - pensa - è vinto.
E così appena e appena qui nascosto,
Alberico contempla queste carni
di fanciullette natanti, e i loro scherzi,
i canti ingenuamente detti, e i trilli
delle onde quiete e delle lor conchiglie,
solleticate tutte dai bei piedi
danzanti delle Ninfe; e vede ei e ammira
le bianche mani gettàr l’acque in fronte,
e d’acque i lor capelli rigonfiarsi,
e saltellàr i ventri, e i seni tondi.
Egli le vede, e le vuole a ogni costo,
estasiäto dai lor molli carmi,
volti ridenti, e belli e sempre eterni,
i capei saltellanti come grilli.
Le brama tutte… tutte ghermìr Figlie
del sacro Reno. Oh Erda, oh Erda, oh Tu, non vedi?
E il Nibelungo or folle più sospira,
e quietamente va di ninfee a un ponte,
e il suo cuor ne ribolle e sta a infiammarsi,
s’incammina furtivo a’ qui crìn biondi.
Erda, oh meschina, è dunque tuo il meschino
che compirà l’infame e orbo Destino?

«Weia, Waga, Waga!» càntan le fanciulle:
«Oh Reno, oh Reno, custodisci il tuo oro!
Abbi tu a cuore, oh tu, le nostre perle,
e il nostro argento, degli Dei custode!
E vieni qui a cullare i scherzi nostri,
e le canzoni che cantiamo insieme,
sorelle in festa della tua Natura!
Weia, Waga, Waga! Riddiamo felici!»
càntan le Ninfe all’ombra di betulle:
«Oh come il flutto tuo s’è fatto moro,
acque raggianti tanto dolci a berle;
e il nostro scoglio lentamente erode
le sue pietre e i suoi sassi, e i freddi rostri!
Sorelle in festa: ora cantiamo insieme!
Oh acqua, oh acqua, fresca, eternamente pura!».
Ma qui procede con l’ombra sua oscura
il Nibelungo dal Regno di brume,
che ovunque porta la Notte sua orrenda,
nebbioso spettro del Nord dei Folletti,
ammaliäto da quel canto udito
che è misterioso e che è voce di dama; e
ei s’avvicina… s’avvicina e azzarda
lo sguardo ancora sulle femminine
forme, non visto - lo scaltro! - e sorride,
perverso come una Furia indomata,
e spia le schiene sedute allo scoglio,
pelle dorata d’estatico lume.
E alfine il bruto si fa avanti udendo
la paüra sconvolta delle Ninfe,
e i loro acerbi sospìr e i lor detti,
e sempre ei più le mira, ed è smarrito,
e nei lor sguardi lievemente sfama
la sua brama brutale; e poscia guarda
tra l’acque sacre le sue fanciulline,
riparate nell’onde, la spogliata
pelle lì proteggendo… lì, sul soglio
del santo fiume, fino al collo immerse,
e arrossite per tanta lor vergogna,
e maledìcon quest’infame Gnomo
il qual sogghigna e poi se ne rallegra,
inchinàndosi ai flutti, vêr di loro.
Così gli vèdon il sembiante moro,
e questa lunga barba ansiosa e negra,
e lo sprèzzano queste: «Non è un uomo!»,
e gli lànciano un’onda. Ahi quale rogna!
E qui dal Reno sono sempre asperse.
Ma egli, Alberico, porge le sue terse
mani, e non sa ei che è come su una gogna.
«Fanciulle belle» egli soävemente dice:
«Ah perché nascondete l’alme forme:
i seni vostri, e i ventri, e l’anche, e i fianchi?».
E le Sirene vòlgono i lor bianchi
volti, si guàrdan, e invòcan le Norne,
e già un silenzio ora le maledice.
«Fanciulle belle!» sclama l’infelice
che sulla terra lascia piccole orme.
Ma più fatale d’una cupa runa
chi gli risponde, ahimè, se non nessuna?

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì XX Novembre AD MMXV

domenica 18 ottobre 2015

La Visionaria

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

E la fanciulla passeggiava. Nero
era il suo crine, poiché avea dormito
tra il cenere funereo del camino,
mentre nel letto un misero dormiva.

Lo accolse nella Notte e lo accudiva,
ed egli era soltanto un pargolino.
E ora ella andava… e andava, e all’Infinito
muoveva il passo a un ignoto sentiero.

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

Venìr scorgeva un lontàn falconiero,
e un Principe a cavallo. E era smarrito
il volto suo all’ombra di un vecchio pino:
guardò più volte. Nulla! E il dì svaniva.

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

E all’orizzonte fuggivano i sogni:
e ella vedeva la Vita e il suo Nulla,
piànger udiva i neonati infelici.

Ma… ma v’era una donna alle pendìci
d’un tenue colle: «Guarda come culla!».
E un Mostro qui era il vento: «E a che vergogni?».

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

Niente! Svanìvan sogni:
e ella guardava i questuänti intorno,
poveri in cerca del pane del giorno.

«Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
dove vai solitaria e bella e bionda?
Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
perché la treccia è nera a questa sponda?».

«Ier ho dormito nel camino oscuro
per dare il letto a un bimbo vagabondo.
Ier ho dormito nel camino oscuro
il cenere annerì il mio crine biondo».

«Non era il bimbo quei di questa donna?
Vedi! Lo porta lontano e al sicuro.
Non era il bimbo quei di questa donna?
Ha paüra dell’Orco, il monte oscuro».

«Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
Forse la madre ha fame. Venga: ho i pani.
Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
No… no! Non farli andàr tanto lontani!».

«Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Hai visto la miseria della guerra?
Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Sii la speranza di questa tua terra».

Ed ella discorreva… e discorreva,
e con chi non si sa, né ella ‘l mirava,
tra un trasognato istante e un’aspra veglia,
forse al suo cuore, o forse alla Natura.
E lontano… lontano ella volgeva,
e fuori del villaggio se ne andava.
Era felice e - saltellando - sveglia,
una fanciulla visionaria e pura.
E quando fu la sera tornò indietro,
verso il tugurio. Cenava nel tetro
legno del lare; e disse sotto un perno:
«Padre, padre… lo sai? Che oggi ho parlato con l’Eterno?».

Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
ascolta e taci!.... Ascolta il cuore mio:
quest’Eterno che ti chiama non è che Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XVIII Ottobre AD MMXV

venerdì 2 ottobre 2015

Ottobre

Perché sei sempre più oscuro, oh orizzonte
mio? E quest’autunno fiele mi diventa, e…
e paüra dei sogni e del più ignoto e
tetro avvenire. E che sorge e che muore

appena all’alba è il giorno, come il cuore
che irrequieto mi pulsa; e io giaccio immoto e
e tormentàndomi, e dove s’avventa
la prima nebbia tra i sentieri e il fonte, e

e si gelano l’acque sotto il ponte,
quasi ansimando scruto che va lenta
la gallinella. E il meriggio m’è vuoto, e…
e senza nubi: di nebbie è il grigiore.

Così trascorro queste soffrenti ore in
angoscia e in strazi; e al mio sognàr devoto
la perduta speranza mi tormenta. E…
e tu, oh mio cielo, perché sei oltre un monte?

E tacerà l’ottobre, dunque! E prone
qui cadranno le foglie dei miei Tempi, e…
e gemerà con me l’errante aïrone

della giuncäia. E io urlerò una canzone, (a te) e…
e tu, oh orizzonte, al mio Destino adempi
già da quest’ora? O attenderai le buone

brine dell’alba, e il sofferente eöne
d’un sogno? E avrò dolori, e orridi scempi,
dunque! E urlerò una morente passione! E…

e in queste ombrose zone
dove già vola una gelida brezza, - io -
dirò l’addio alla spenta giovinezza!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì II Ottobre AD MMXV

mercoledì 15 luglio 2015

Idillio romantico d'un Addio di Scozia

I. Ascoltate, onde del mare fremente,
ciò che canto! e che un giorno qui accadeva,
quando la sera alla Notte volgeva,
e il cielo si dormiva cupamente.

Onde dell’acque più irate, e furente
flutto di questi lidi, il bardo ardeva
e il suo canto di strazio a voi gemeva,
or come io gemo in un sospìr assente.

Canto un idillio, qui, ove mollemente
un Amor nacque, e giòvin decadeva.

Ascolta, Scozia! Il perenne mistero
delle passioni e degli istinti umani,
che adesso vado a cantàr con la cetra.

Canto la Sorte d’un cielo più nero,
e dei sensi melliflui i Mostri arcani
che s’ergono crudeli come pietra,

e canto l’ansie a quest’ombre d’un cero,
i desideri, e le gioie e i sogni; e vani

son quest’ultimi, e all’etra
un cantico rimane or tra le sere,
vane e tremende e mendaci preghiere.

II. All’ombra delle cime in scialbe nevi,
e al ricordo dei trilli degli ovili,
dove i pastori si lamentano ai corni,
canto l’addio che la Luna ammirava;

e canto un spiro che ivi s’inquietava,
e che poi vanamente nuovi giorni
sperò d’Amore, e come i bei fienili
canto le gemme bionde e i capèi lievi.

Òdimi, oh Scozia! e come un tuo Poëta
gli affanni grido dei figli tuoi, tetri
occhi di pianto che l’onta ferisce.

Canto la Furia che mai si lenisce
dell’umana passione, infranti vetri,
e l’uomo scorre, e più non ha una meta.

Ecco! Ho un’arpa, e di pièta
convulso e spento al tramonto amaranto
tempro alla fine il giurato mio canto.

III. Al lido oscuro e nella tetra Notte,
per i colli lontani e indefiniti,
tra le betulle e sulle rozze grotte
l’alba Luna luceva. Ma impietriti

a quest’argento e al dormìr delle motte
esanimi due spettri, e impaüriti
si rincorrèvan per le danze indotte
dai strilli ombrosi dei corni avvizziti.

Frattanto delle selve a truci frotte
ululavano i lupi; e gli infiniti

occhi notturni scrutàvan nel Fato,
mentre un pastòr la cornamusa strinse,
donde si ergeva un tuonàr funestato.

Allòr indefinite or l’ombre avvinse
della Luna uno stral, e intemerato
volto di dama apparve, e quel che ‘l cinse

un bruno cavalièr addolorato,
e d’argento lunàr costui si pinse;

e il ciel un pianto attinse
notturno nel mistèr d’addio d’Amore,
Notte perenne d’eterno dolore.

IV. Eran due amanti fuggiti dal covo
d’un funebre castello, dove avverse
fùron le Sorti di loro passione,
e tante pene urlâr, e molte cure;

e così insieme fuggìvan. L’oscure
frasche dei salci al vento una canzone
flebilmente lagnavano, e s’asperse
pur la rugiada sul fiore d’un rovo.

Andavano alle spiagge delle cime,
colà, tra le montagne e il mar immoto,
e si scambiàvan sacri giuramenti.

Erano Tempeste, e tuòn di Sentimenti,
e pur con loro or ciascùn lido scoto
più quieto apparve, e ancora più sublime.

V. Ora la Luna funerea splendeva,
come larva d’un fior sepolcrale,
laddove una ghirlanda pia gemeva
memore ancor del scorso funerale.

Ma più feroce un’arpa doleva,
forse temprata da un bardo spettrale,
e una strega fatàl si contorceva
dappresso l’infuriàr del maëstrale.

Pur agli innamorati si schiudeva
un freddo e oscuro Fato, un Temporale.

Arrivarono a un lido, e intorno i monti
lampeggiàvano tristi, e gli occhi cesi
dei lampi ne inquietàvan gli orizzonti.

Essi, seguendo i convenìr scozzesi,
avvolti in un abbraccio e presso i fonti,
si giuràvano Amor, e i baci appresi

gareggiàvan sui labbri e sulle fronti,
i sogni a coronàr di molti mesi.

Gl’indici or qui sospesi
nel cupo vento rùppêr la moneta,
e la fanciulla si beäva quieta.

VI. Guai! se le parti di questo denaro
fòssêr nei segni d’un vil tradimento:
sarebbe il Fato e terribile e amaro.

Così dicèvan i padri nel lento
canto dell’arpa e nel frànger del conio,
donde i giovani n’èbber lo spavento.

Spaccare una moneta è un Matrimonio,
e pel fellone non v’è albergo e landa,
né pietà e compassione; ma il Demonio.

Così la tradizione ne comanda,
e le parti d’un conio son altare,
e han valòr oltre Scozia, e oltre l’Irlanda.

Sia maledetto, il traditor, nel mare
corra baldante, e vada a naüfragare!

VII. Gli innamorati conoscèvan questo,
e si divìsêr il denaro infranto,
e abbracciati sen stavano d’accanto,
col cuor felice, e non più ombroso e mesto.

Egli la mano della dama prese,
e le baciò le gemme e i begli anelli,
e i suoi sospir le rapiva e ne intese,
e poi le accarezzava aurei i capelli.
Ma stàvan Fati più duri e men belli,
chè il cavalièr dovea fuggìr, e svelto,
esiliato dai feudi e lì divelto,
sicchè l’ora dell’addio or venne presto.

Allòr costui si distaccò e funesto
e tremante s’avvolse in negro manto,
e dalla dama ne partiva affranto,
cuore infelice, e più ancor e ansio e mesto.

VIII. Un palafreno tra brume gridava,
e fin quando ‘l poté, costei ‘l seguiva,
con l’occhio in pianto e il labbro che sbraitava
bave d’affanno e di dolor saliva.

Il destriero fuggì, e non si mirava,
e la fanciulla piangeva, e a una riva,
camminando a tentoni si posava,
e l’affanno, il malvagio, l’assaliva.

Così alla Luna costei s’inquietava,
e inquietàndosi e vinta al fin moriva.

Uno scheletro giacque al lido ardito,
e il labbro suo sembrò dicesse: «Addio!»,
come un saluto lungo l’Infinito.

Ma nulla seppe il cavaliere pio,
anzi, credette rivederla, e al rito
delle nozze condurla: «Oh cuore mio!».

E or che io ho narrato e che qui io son smarrito
or forse gemo, or forse spero anch’io.

Ahi, perché Amor, oh Iddio?....
Bianche fanciulle nei lor sogni assorte,
e poi, che viene? Lontananza e Morte!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XV Luglio AD MMXV