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venerdì 20 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VI. Preludio poetico. Le Fanciulle del Reno e Alberico

E mentre Freya agli Dei sale e ai fratelli,
rimàngon sole le Ninfe del Reno,
e Lorelei si lagna e si tormenta,
e alla Dea canta un carme di dolore.
Così giuocando trascòrron quest’ore,
e vêr il mezzogiorno un nembo in lenta
dolcezza piove, e il gemere suo è ameno,
e scorre ei su quei sguardi e freschi e belli, e…
e poscia questa pioggia i venticelli
solleticano ansando ogni bel seno.
Lorelei si ritira nella grotta,
dove sovente piange il suo Destino,
e molte Ninfe la seguono meste.
A scherzàr tra quest’acque rèstan leste,
col crine all’onde asperso e vôlto e chino, e
coi nudi seni e la scialba guanciotta,
e dentro il petto un cuor, un cuor che scotta,
e che è Figlio del Reno, egli, divino,
sol le tre primigenie Ninfe e bionde.
Ecco: Flosshilde, Woglinde e Wellgunde.
E son Sirene, esse, tra le più belle,
eterne e bianche, e guance seducenti,
lievemente arrossate dal lor senso,
ardendo incensi di rose e di viole,
e sorrisi leggiadri, e solitarie
ombre di Notte, allegre eternamente.
L’una fa un scherzo all’altra, e poi si pente,
e la terza danzando e l’acque e l’arie
in vortici dischiude, e ride al Sole,
oltre il nugolo oscùr che mugge immenso;
e son fanciulle divine e ridenti,
nate da un solo grembo, e son gemelle.
Ora scherzano e vanno sugli scogli,
e vanno… e vanno cantando una saga,
e la pioggia finisce, ed è il sereno.
All’orizzonte sta l’arcobaleno,
e la Natura intorno è dolce e paga,
e in fior si càngian i freschi germogli.
Ma a frànger quiete vièn ora un nemico,
da Nibelheim il Re infame, Alberico.

Egli è lo Gnomo delle nebbie oscure,
pìccolo e rozzo, di pelli coperto,
vestito d’orsi, e di lupi sgozzati,
la folta barba fin sul suo ginocchio,
e i capei negri di Morte e di sprezzo;
e qui sul Reno, lo muove una possa,
il Fato di Erda, che muta l’ha fatto
suo nel silenzio d’una Notte infame,
sussurràndogli arcani di Potere,
e promettendo una sposa al suo istinto.
Allòr costui contempla quelle pure
Ninfe che scorge, e tiene in capo un serto,
d’oro e di ossami biechi e trapuntati;
e corrivo… e corrivo sen va il suo occhio
su queste forme di donne e di vezzo,
ed ei per poco qui già non s’addossa,
furioso e incline al senso, e scaltro e matto.
E gli sta intorno d’insetti uno sciame,
e tanto ei odora di vin che va a bere,
e dalle sue Sirene - pensa - è vinto.
E così appena e appena qui nascosto,
Alberico contempla queste carni
di fanciullette natanti, e i loro scherzi,
i canti ingenuamente detti, e i trilli
delle onde quiete e delle lor conchiglie,
solleticate tutte dai bei piedi
danzanti delle Ninfe; e vede ei e ammira
le bianche mani gettàr l’acque in fronte,
e d’acque i lor capelli rigonfiarsi,
e saltellàr i ventri, e i seni tondi.
Egli le vede, e le vuole a ogni costo,
estasiäto dai lor molli carmi,
volti ridenti, e belli e sempre eterni,
i capei saltellanti come grilli.
Le brama tutte… tutte ghermìr Figlie
del sacro Reno. Oh Erda, oh Erda, oh Tu, non vedi?
E il Nibelungo or folle più sospira,
e quietamente va di ninfee a un ponte,
e il suo cuor ne ribolle e sta a infiammarsi,
s’incammina furtivo a’ qui crìn biondi.
Erda, oh meschina, è dunque tuo il meschino
che compirà l’infame e orbo Destino?

«Weia, Waga, Waga!» càntan le fanciulle:
«Oh Reno, oh Reno, custodisci il tuo oro!
Abbi tu a cuore, oh tu, le nostre perle,
e il nostro argento, degli Dei custode!
E vieni qui a cullare i scherzi nostri,
e le canzoni che cantiamo insieme,
sorelle in festa della tua Natura!
Weia, Waga, Waga! Riddiamo felici!»
càntan le Ninfe all’ombra di betulle:
«Oh come il flutto tuo s’è fatto moro,
acque raggianti tanto dolci a berle;
e il nostro scoglio lentamente erode
le sue pietre e i suoi sassi, e i freddi rostri!
Sorelle in festa: ora cantiamo insieme!
Oh acqua, oh acqua, fresca, eternamente pura!».
Ma qui procede con l’ombra sua oscura
il Nibelungo dal Regno di brume,
che ovunque porta la Notte sua orrenda,
nebbioso spettro del Nord dei Folletti,
ammaliäto da quel canto udito
che è misterioso e che è voce di dama; e
ei s’avvicina… s’avvicina e azzarda
lo sguardo ancora sulle femminine
forme, non visto - lo scaltro! - e sorride,
perverso come una Furia indomata,
e spia le schiene sedute allo scoglio,
pelle dorata d’estatico lume.
E alfine il bruto si fa avanti udendo
la paüra sconvolta delle Ninfe,
e i loro acerbi sospìr e i lor detti,
e sempre ei più le mira, ed è smarrito,
e nei lor sguardi lievemente sfama
la sua brama brutale; e poscia guarda
tra l’acque sacre le sue fanciulline,
riparate nell’onde, la spogliata
pelle lì proteggendo… lì, sul soglio
del santo fiume, fino al collo immerse,
e arrossite per tanta lor vergogna,
e maledìcon quest’infame Gnomo
il qual sogghigna e poi se ne rallegra,
inchinàndosi ai flutti, vêr di loro.
Così gli vèdon il sembiante moro,
e questa lunga barba ansiosa e negra,
e lo sprèzzano queste: «Non è un uomo!»,
e gli lànciano un’onda. Ahi quale rogna!
E qui dal Reno sono sempre asperse.
Ma egli, Alberico, porge le sue terse
mani, e non sa ei che è come su una gogna.
«Fanciulle belle» egli soävemente dice:
«Ah perché nascondete l’alme forme:
i seni vostri, e i ventri, e l’anche, e i fianchi?».
E le Sirene vòlgono i lor bianchi
volti, si guàrdan, e invòcan le Norne,
e già un silenzio ora le maledice.
«Fanciulle belle!» sclama l’infelice
che sulla terra lascia piccole orme.
Ma più fatale d’una cupa runa
chi gli risponde, ahimè, se non nessuna?

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì XX Novembre AD MMXV

domenica 18 ottobre 2015

La Visionaria

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

E la fanciulla passeggiava. Nero
era il suo crine, poiché avea dormito
tra il cenere funereo del camino,
mentre nel letto un misero dormiva.

Lo accolse nella Notte e lo accudiva,
ed egli era soltanto un pargolino.
E ora ella andava… e andava, e all’Infinito
muoveva il passo a un ignoto sentiero.

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

Venìr scorgeva un lontàn falconiero,
e un Principe a cavallo. E era smarrito
il volto suo all’ombra di un vecchio pino:
guardò più volte. Nulla! E il dì svaniva.

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

E all’orizzonte fuggivano i sogni:
e ella vedeva la Vita e il suo Nulla,
piànger udiva i neonati infelici.

Ma… ma v’era una donna alle pendìci
d’un tenue colle: «Guarda come culla!».
E un Mostro qui era il vento: «E a che vergogni?».

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

Niente! Svanìvan sogni:
e ella guardava i questuänti intorno,
poveri in cerca del pane del giorno.

«Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
dove vai solitaria e bella e bionda?
Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
perché la treccia è nera a questa sponda?».

«Ier ho dormito nel camino oscuro
per dare il letto a un bimbo vagabondo.
Ier ho dormito nel camino oscuro
il cenere annerì il mio crine biondo».

«Non era il bimbo quei di questa donna?
Vedi! Lo porta lontano e al sicuro.
Non era il bimbo quei di questa donna?
Ha paüra dell’Orco, il monte oscuro».

«Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
Forse la madre ha fame. Venga: ho i pani.
Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
No… no! Non farli andàr tanto lontani!».

«Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Hai visto la miseria della guerra?
Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Sii la speranza di questa tua terra».

Ed ella discorreva… e discorreva,
e con chi non si sa, né ella ‘l mirava,
tra un trasognato istante e un’aspra veglia,
forse al suo cuore, o forse alla Natura.
E lontano… lontano ella volgeva,
e fuori del villaggio se ne andava.
Era felice e - saltellando - sveglia,
una fanciulla visionaria e pura.
E quando fu la sera tornò indietro,
verso il tugurio. Cenava nel tetro
legno del lare; e disse sotto un perno:
«Padre, padre… lo sai? Che oggi ho parlato con l’Eterno?».

Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
ascolta e taci!.... Ascolta il cuore mio:
quest’Eterno che ti chiama non è che Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XVIII Ottobre AD MMXV

venerdì 2 ottobre 2015

Ottobre

Perché sei sempre più oscuro, oh orizzonte
mio? E quest’autunno fiele mi diventa, e…
e paüra dei sogni e del più ignoto e
tetro avvenire. E che sorge e che muore

appena all’alba è il giorno, come il cuore
che irrequieto mi pulsa; e io giaccio immoto e
e tormentàndomi, e dove s’avventa
la prima nebbia tra i sentieri e il fonte, e

e si gelano l’acque sotto il ponte,
quasi ansimando scruto che va lenta
la gallinella. E il meriggio m’è vuoto, e…
e senza nubi: di nebbie è il grigiore.

Così trascorro queste soffrenti ore in
angoscia e in strazi; e al mio sognàr devoto
la perduta speranza mi tormenta. E…
e tu, oh mio cielo, perché sei oltre un monte?

E tacerà l’ottobre, dunque! E prone
qui cadranno le foglie dei miei Tempi, e…
e gemerà con me l’errante aïrone

della giuncäia. E io urlerò una canzone, (a te) e…
e tu, oh orizzonte, al mio Destino adempi
già da quest’ora? O attenderai le buone

brine dell’alba, e il sofferente eöne
d’un sogno? E avrò dolori, e orridi scempi,
dunque! E urlerò una morente passione! E…

e in queste ombrose zone
dove già vola una gelida brezza, - io -
dirò l’addio alla spenta giovinezza!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì II Ottobre AD MMXV

mercoledì 8 luglio 2015

Cantico di un Poeta d'un Fiordo di Svezia

Tra nevi bianche e indomiti ghiacci,
qui, dove si lamenta ai fonti un lupo,
e invocando gli Dei, io m’appresto a un’arpa,
e mesto io canto i sibilàr dei fiordi.


Timidamente a questa Notte e ai fiordi
canti inauditi or io concedo all’arpa,
la qual qui n’ha doglianze come un lupo,
e tanto trema pel gelàr dei ghiacci.


Così canzoni sciolgo a questi ghiacci,
e ulula intanto da una rupe un lupo.


Queste son nenie delle valli antiche,
quelle che mi tramandano i Defunti,
e i nembi oscuri del ciel dell’inverno.


Udite, dunque! Io lamento all’inverno
le ghirlande sepolte dei Defunti,
e mesto giaccio alle lor tombe antiche.


Canto le doglie e le cantiche antiche,
e canto i reliquari dei Defunti.


Canto ai Vivi e ai Defunti,
e canto le canzoni, le più antiche,
canto quest’eco per le valli aprìche.


Meriggio fosco di Luna nel fiordo,
per i monti lontani un corno trilla,
e si lamenta a un arboscèl un tordo.


Geme lo Scaldo con l’arpa che strilla:
le canzoni dell’Ombre di Tuonèla,
e l’orizzonte che s’oscura; è lilla.


Urla il guerriero di cui l’alma inciela
quando spirando ghermisce la Luna,
e nel mar si risplende un’orba vela.


Ma una fanciulla nella sera bruna
alle pietre d’un monte ammira in pianto
l’ima convalle e la tetra laguna,


e della Notte nel feroce manto
ella tempra una nenia, un tristo canto.


Canta: l’errante cavaliere biondo
che con l’addio l’abbandonava, e duole
nel seguìr le sue impronte, e il vagabondo
destrièr che fugge oltre l’ombra del Sole.


Lagna il Destino tremendo e iracondo,
e quasi morta cade all’empie viole,
e il cuor s’infuria e giace fremebondo,
palpiti infami come aghi di spole;


e si smarrisce l’occhio suo profondo
per l’ansie e nivee e sempiterne gole.


Ella ne piange e al mar indefinito
i vascelli ne scruta, e attende invano
il sovvenìr dell’Amore smarrito:


fors’egli si sta dinnanzi a un sovrano,
o forse pur combatte in erme lito,
con la Morte nel cuor, la spada in mano.


Allor costei qui prega l’Infinito,
e il suo messèr si lenisce lontano;


ed ella a un nembo arcano
e della Luna fioca nell’argento
d’Amor ne stringe un mellifluo lamento.


Rimembra l’ore del remoto addio,
e delle pene e degli strazi il fio,
e l’alba che s’ergeva, e il cavaliere
che baciàtola e in fiere


lente parole fuggiva alla guerra,
solitaria lasciàndola alla terra,
dove s’infranse d’un bacio l’impronta
nell’eco carca d’onta.


Ricorda l’abbandono, amaro istante,
il suo sguardo su quel del suo incostante
uomo di spada, e a rimembràr ha doglia
tremante come foglia.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Nel frattempo qui s’erge un Temporale,
e la pioggia si cade al suol norreno,
ed ella geme alle Valchirie: «Io peno!»,
e le lagrime versa al maëstrale.


Così gemendo ammira naufragare
un legno marinaro, e ai flutti irati
l’albe vele sommerge il nero mare,
la Runa estrema dei decisi Fati;
e ai stral lunari e timidi e argentati
ella pensa che su quel legno ei fosse,
il cavalier amato, e in tanta tosse
avvolta cade del ciel nell’opàle.


Grida Dönner, il Fulmine immortale,
e la grandine scende a un morto seno,
e il spento Amor già fu un fatàl veleno:
la cornamusa strilla il funerale.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Vespro di Morte nel fiordo svedese,
il bardo ne declama orba ghirlanda,
canto che più d’un giorno al ciel s’estese.


La salma giace tra rose e lavanda,
e sopra questa è il salce mortuärio,
la quercia sacra e spoglia e spasimanda.


Quest’è la nenia nel trillàr che vario
dell’arpa geme l’estremo Destino:
tra le nevi del fiordo è un reliquario.


Oh voi, Sublimi, che in Cielo il cammino
procedete, oh Valchirie, oh voi che meta
siete dell’alme, destriero ferino,


oh voi, Fanciulle, cui Morte s’inquieta,
abbiate di costei, oh! n’abbiate pièta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Mercoledì VIII Luglio AD MMXV