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sabato 5 settembre 2015

Impressioni poetiche e sentimentali sulla Grande Fuga del Maestro Ludwig Van Beethoven

E sei tu?.... Tu? Il violino che è sdrucito?
Oh cuore mio, non lo odi? che è un singulto?
di un’anima che ascolta l’Infinito;
ed è il suo orecchio così muto? e inulto?
I tuoi Elementi s’infuriano, e l’onde
sue e il si bemolle trascorrono in danza.
Ed è forse d’Iddio un’alta romanza?
E un acido Poëma? e vie iraconde?
Ti odo, oh violino! e proponi un balletto?
Due occhi di dame tra un guanto e un corsetto!
O forse è un ballo funerario? Assorte
le corde e i trilli inneggiano alla Morte!

Senti, tu, i palpiti,
ciechi di spasimi,
inesorabili
più del tuo Fato!
Cuore di femmina,
di pianti rorido,
Anima d’uomini,
senti? È stonato!
I sensi trillano,
perplessi gemono,
vogliono strìdere
d’aspro dolore;
e tu, tu, spirito,
perché sei timido?
Perché sei incognito,
tu, tu, oh mio cuore?

E il ballo scalpita,
la sala è nuda,
tacciono i muri,
e un trillo sibila,
la nenia è cruda,
e tu? Ti oscuri!

È il mesto canto d’un tramonto sordo;
e sei tu, oh tu, violino, l’incompreso?
e non è sprezzo il tuo flebile accordo?
E tu, oh Genio, perché e a che vilipeso?
Cuor mio, non odi? è un musico che muore;
e apre la tomba il baratro profondo.
E tu? Non sei uno spettro vagabondo?
e nel verme non bevi il tuo liquore?
Musica mia e sempiterna e crudele!
Cosa tu sei? se non assenzio e miele?
E nella corte danza la fanciulla;
e poi? Sovviene il Fato! Muore; è Nulla!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato V Settembre AD MMXV

venerdì 14 agosto 2015

Chopin

Goccia di pioggia che cadi e che trilli,
ricordi i canti un dì del pianoforte?
Era un Poëta che sognando Villi
alla sua dama cantava la Morte.
Forse tuttora per l’eco e pel colle
nel tuo cadèr si risuona il suo pianto,
rosa d’Amore che strilla e che tanto
melliflua muore in un tuono bemolle.
Goccia di pioggia, ricordi il cantore
che ti descrisse nel cuor del dolore?....
E lì eri tu il suo pianto che scendeva,
eri la nota che un sogno premeva!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XIV Agosto AD MMXV

giovedì 13 agosto 2015

Tre Strofe d'un Poeta all'Alpe

Alpe, cos’ha il tuo cuore che si geme?
Quando t’ho vista, ho ascoltato un mistero,
e dico: «Vieni, sciogliti, e qui, e insieme!»,
e sento il ghiaccio, tue nevi… davvero!
M’hai tu stregato col fascino bello,
con il cuore portente e falbo e caro,
e odo non so, un sentimento un po’ amaro,
ma dolce e quieto come un tuo ruscello.
Alpe, no… no, non piangere, oh betulla,
e dimmi il tuo Destino, e poi il tuo Nulla!
Ma sei tremula, tanto nel ciel, cuore!
Alpe! Io gemo perché ti provo Amore!

Alpe, cos’ha il tuo ciglio che sta in pianto?
Vespro dilegua il tramonto, e vien Notte,
e qui sediamo, di fronte… d’accanto,
muto il mio labbro più delle tue grotte.
Una stella cadente! È un desiderio
che ora segretamente mi nascondo,
sì, sì, a me stesso, a te, a un sasso iracondo,
alla lettura del santo saltèrio.
Alpe, no… no, vorrei amarti ma il Fato
tetro e crudele prepara un agguato;
e il tuo pudore e il mio van per sentieri
diversi e oscuri, agli orizzonti neri.

Alpe, non scòrrer!.... Non piangere, sai?
O il tuo dolore finirà sul mio;
ma qui non voglio che tu te ne vai,
altrimenti che resta, se non Dio?....
Alpe, la sento: è una strana canzone,
un tremolìo nel cuore, ed è perenne,
un senso nuovo, un’aquila, orbe penne,
e a te dinnanzi mie membra son prone.
Alpe,  non posso amarti, e ora è finita,
strade diverse, tu e io, e la propria Vita!....
Addio! E si taccia di questo Poëta
che un dì ti ha ambita, oltre un Dio senza pièta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XII Agosto AD MMXV

 

Cantico d'un Poeta montano alla Poesia che fugge

Povero cigno! Giovane
nei tuoi alti spasimi
in un lago su un monte
vai, e ti lamenti
col canto che urla il funebre
istante, il gemere,
nell’immenso orizzonte,
tetro di venti.

Oh miserabile,
tu, oh creätura,
tu, Poësia,
ascolta i gemiti
della Natura,
della mia via!

Vai, e t’allontani in attimi
che si disperdono,
e un’ora seppellisce
la tua ombra scialba,
che un dì io vidi defùngere
presso il turìbolo
d’un Cielo che languisce,
Notte, mai è l’alba.

Vai, e ora il tuo affliggere
copre le cime
di tanta Morte,
oltre i miei palpiti,
nel fior sublime
dell’empia Sorte.

Misero cigno! Timido
strale dell’etere
fuggi via, e non sei nulla,
una chimera,
ombra spettrale ai vàlichi
che ora ti irridono,
come un’ansia fanciulla,
tu, Primavera,

che nel più lugubre
silenzio altèro
piangi le rose
di questi cantici,
e nel ciel nero
le tempestose

nubi che si disfidano
scorgi, ineffabile
soffio, àlito d’Iddio,
superna Idea,
Poësia che nei gemiti
trascorri i termini
del cuor che scrive, il mio,
rosea ninfea.

Oh cigno flebile,
nel cielo ustorio
del nuovo Sole,
ti vai ad immergere
nell’aspersorio
di tombe e viole!

Addio! T’han preso i turbini,
l’inesorabile
Mostro del Tempo, e muori,
e nel ricordo
di te m’è duol l’immagine
lontana e immobile,
il sepolcro tuo e i fiori,
e il cuor m’è sordo!

Perché ancor tacito
sei Tu, oh Signore?
Perché? Orsù, dillo!....
Io sono languido,
voglio il cantore,
l’arpa d’un grillo!

Addio, oh mio cigno povero,
che i Tempi fuggono,
addio, giovane volto,
ala di talco!
Addio, tu sguardo attonito
d’angoscia e pallido!
Addio, viso che tolto
m’ha un tristo falco!

Non è che il piangere
che mi rimane
sul mio cammino:
sempre m’inghiottono
le fauci insane
d’un vil Destino!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XII Agosto AD MMXV

lunedì 20 luglio 2015

Il Canto d'una misera Quaglietta

Dove voli, oh quaglietta, oh tu, impaurita
dal Destino del Tempo inesorato?
Vai forse all’ermo d’una palma in vita,
sogno d’un cuor; ma non è vèr, è Fato.
Così abbandoni indietro il terreo nido
in cui dormisti nei sogni, e sognando
lì hai tu vissuto, e lì, nel sonno blando,
e al flebile speràr d’un altro lido.
Perché fuggi, e all’Ignoto volgi le ali?
Misera or sogni! Ascolta: i maëstrali!
Trascinata sarai dal vento, e assorta
nel tuo sognàr, ahi, non sarai che morta.

Dove fuggi, uccelletto, e il cimitero
per i tuoi ossami ne fai desidèri?
Fors’anche lungo l’errante sentiero
morta cadrai tra i funerei saltèri.
Il cacciatòr, del resto, che t’attende
le tue carni e le piume ha già vendute,
e non gli resta che con brame mute
aspettàr dove passi; ed ei ti prende.
E vuoi seguire questo sogno, oh mesta,
abbandonàr la Vita e la foresta?
Resta, ti prego, nel tuo alveo silvestre,
o almeno fuggi a un bosco, a un rivo alpestre!

Osi tu cinguettàr, e vuoi morire
nel vivere perenne d’un illuso
sogno, e alle terre più calde vuoi udire
il tetro grido d’un ermo confuso.
Dove volgi, e ove chiedi il tuo precoce
tra ciò che è indefinito, il Fato estremo?
Qui forse, qui, che singhiozzando gemo,
e che t’attèndon tristi e avello e croce.
Oltre il confine dei sogni è la Morte,
e tu, quaglietta mia, vai a questa sorte?
Così nel sonno hai nel sogno il respiro,
e frutto del sognàr, Morte, il deliro!

Forse hai sognato le terre più miti,
dove sempre risplende il fior del Sole,
e i segreti deserti, e alti e smarriti,
e l’oäsi, e tra i dàtteri, le viole,
un quieto colle che non sa la pioggia,
e più fresca la Notte, e delicata,
e pensi e speri: «Ivi sarò cullata
dall’albe dune e al vento che s’appoggia!».
Un sogno: spire or sul tuo ingenuo cuore.
Ma che abbandoni? Le selve e il tuo Amore.
Oh quaglietta, febbrile e visionaria,
no! non abbandonàr questa tua aspra aria!

Né tu ne peni al ricordo dei boschi,
e dei ruscelli freschi, e delle fonti?
E non rimembri come i cieli foschi
illuminàvan i quieti orizzonti?....
Tu sei una stella per la selva e i fiori,
e desìderi tu, lasciarli, oh bruna
ala selvaggia, pallente di Luna,
e udìr non vuoi né strazi, né dolori?
Pensa ciò che abbandoni, oh cuore mio,
ciò cui tu brami cantàr un addio!
E ascolta quel che dice un sognatore
che a sognare ne passa tutte l’ore!

Accetta i sogni che la Notte ispira,
queste Vite alternate al tuo Reäle,
la recondita mente che delira;
ma non seguirli: essi son l’Ideäle!
Vivi il tuo sogno nel sonno profondo,
e non sfidàr la Realtà che sussiste,
né far, oh mesta, di quello che esiste
un più feroce e terribile pondo.
Sogno: perenne il mistero. Sognare   
onde furenti cui vai a naüfragare!
Oh mia quaglietta, che giaci assopita,
no! non seguìr sognàr; vivi la Vita!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XX Luglio AD MMXV

domenica 19 luglio 2015

Cantico scapigliato alla Luna che fugge

Se lieve or scorre un singulto, e un sogno
nella Notte si desta, che hai, oh mio cuore?
Ansie, forse, e dolòr di cui io vergogno;
e tu, alba Luna, ancòr, taci d’Amore?
Quando m’avrai risposto, io sarò assorto
in un sonno - e perenne! - e il Sentimento
d’un torvo avèl, lì, assaporerà il vento,
sogno d’un occhio, dov’io sarò morto.
Così gemendo or mi schiudo all’inquieto
dormìr insonne; e su questo mio greto
nel fiore che s’oscura, in Notte bruna,
vanamente t’attendo. E tu mia Luna?

L’età trascorre, e la gioventù cade,
gemito è Vita, e sospetto è; ed è indarno
amàr, soffrìr, dolèr. Tu, Luna, a rade
altre ti splendi, col tuo argento scarno,
e poiché sui sepolcri non ti giova
splènder, su me, chè tomba son, or pieghi
ad altri boschi, i più vivi; e non preghi
sulla gemente, e sepolcràl mia alcòva.
Così se un dolce di te oso un ardore
nel Nulla della Notte, che è? Un dolore.
Cielo funereo nel sogno m’assale,
gemme d’un vespro, d’un’Ecate, opàle.

Son io un cadente giovane smarrito,
epìgono ammalato; e il morbo è tisi,
tubercolòsi del Cielo infinito,
e di te, o Luna, attendo i mille visi.
Il sogno è il fiorellìn sulla mia bara,
osso che vive e che spera i cent’anni;
e tu, e tu, oh Luna mia, sei dei miei affanni
la genitrice; e tu, matrigna amara,
tu, ancora inesorabile mi offendi,
dove tra i nembi non vedo che splendi.
E se non splenderai, allor sarà eterna
del mio cuore la Morte, aspra e superna

Oh Luna, bianca Luna, mar cui anelo
or che fuggita sei, oh tu, a che non torni
sopra il mio cuore? Oh tu che vesti il cielo,
deh, ti prego, ritorna! e pria che aggiorni!
Sei la fanciulla che è rimasta a un sguardo
d’un povero e smarrito e tuo Poëta.
Ma stai fuggendo, e l’Anima io ho irrequieta,
nel bramàr d’un tuo nuovo e quieto dardo.
Non mi resta che il vespro antecedente
a un’orba Notte di stelle soffrente.
E tu, e tu Luna, sei fuggita e via?....
Sono uno spettro, avèl di Poësia. 


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Notte tra Sabato XVIII e Domenica XIX Luglio AD MMXV

mercoledì 8 luglio 2015

Cantico di un Poeta d'un Fiordo di Svezia

Tra nevi bianche e indomiti ghiacci,
qui, dove si lamenta ai fonti un lupo,
e invocando gli Dei, io m’appresto a un’arpa,
e mesto io canto i sibilàr dei fiordi.


Timidamente a questa Notte e ai fiordi
canti inauditi or io concedo all’arpa,
la qual qui n’ha doglianze come un lupo,
e tanto trema pel gelàr dei ghiacci.


Così canzoni sciolgo a questi ghiacci,
e ulula intanto da una rupe un lupo.


Queste son nenie delle valli antiche,
quelle che mi tramandano i Defunti,
e i nembi oscuri del ciel dell’inverno.


Udite, dunque! Io lamento all’inverno
le ghirlande sepolte dei Defunti,
e mesto giaccio alle lor tombe antiche.


Canto le doglie e le cantiche antiche,
e canto i reliquari dei Defunti.


Canto ai Vivi e ai Defunti,
e canto le canzoni, le più antiche,
canto quest’eco per le valli aprìche.


Meriggio fosco di Luna nel fiordo,
per i monti lontani un corno trilla,
e si lamenta a un arboscèl un tordo.


Geme lo Scaldo con l’arpa che strilla:
le canzoni dell’Ombre di Tuonèla,
e l’orizzonte che s’oscura; è lilla.


Urla il guerriero di cui l’alma inciela
quando spirando ghermisce la Luna,
e nel mar si risplende un’orba vela.


Ma una fanciulla nella sera bruna
alle pietre d’un monte ammira in pianto
l’ima convalle e la tetra laguna,


e della Notte nel feroce manto
ella tempra una nenia, un tristo canto.


Canta: l’errante cavaliere biondo
che con l’addio l’abbandonava, e duole
nel seguìr le sue impronte, e il vagabondo
destrièr che fugge oltre l’ombra del Sole.


Lagna il Destino tremendo e iracondo,
e quasi morta cade all’empie viole,
e il cuor s’infuria e giace fremebondo,
palpiti infami come aghi di spole;


e si smarrisce l’occhio suo profondo
per l’ansie e nivee e sempiterne gole.


Ella ne piange e al mar indefinito
i vascelli ne scruta, e attende invano
il sovvenìr dell’Amore smarrito:


fors’egli si sta dinnanzi a un sovrano,
o forse pur combatte in erme lito,
con la Morte nel cuor, la spada in mano.


Allor costei qui prega l’Infinito,
e il suo messèr si lenisce lontano;


ed ella a un nembo arcano
e della Luna fioca nell’argento
d’Amor ne stringe un mellifluo lamento.


Rimembra l’ore del remoto addio,
e delle pene e degli strazi il fio,
e l’alba che s’ergeva, e il cavaliere
che baciàtola e in fiere


lente parole fuggiva alla guerra,
solitaria lasciàndola alla terra,
dove s’infranse d’un bacio l’impronta
nell’eco carca d’onta.


Ricorda l’abbandono, amaro istante,
il suo sguardo su quel del suo incostante
uomo di spada, e a rimembràr ha doglia
tremante come foglia.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Nel frattempo qui s’erge un Temporale,
e la pioggia si cade al suol norreno,
ed ella geme alle Valchirie: «Io peno!»,
e le lagrime versa al maëstrale.


Così gemendo ammira naufragare
un legno marinaro, e ai flutti irati
l’albe vele sommerge il nero mare,
la Runa estrema dei decisi Fati;
e ai stral lunari e timidi e argentati
ella pensa che su quel legno ei fosse,
il cavalier amato, e in tanta tosse
avvolta cade del ciel nell’opàle.


Grida Dönner, il Fulmine immortale,
e la grandine scende a un morto seno,
e il spento Amor già fu un fatàl veleno:
la cornamusa strilla il funerale.


Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.


Vespro di Morte nel fiordo svedese,
il bardo ne declama orba ghirlanda,
canto che più d’un giorno al ciel s’estese.


La salma giace tra rose e lavanda,
e sopra questa è il salce mortuärio,
la quercia sacra e spoglia e spasimanda.


Quest’è la nenia nel trillàr che vario
dell’arpa geme l’estremo Destino:
tra le nevi del fiordo è un reliquario.


Oh voi, Sublimi, che in Cielo il cammino
procedete, oh Valchirie, oh voi che meta
siete dell’alme, destriero ferino,


oh voi, Fanciulle, cui Morte s’inquieta,
abbiate di costei, oh! n’abbiate pièta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Mercoledì VIII Luglio AD MMXV

mercoledì 29 aprile 2015

Vento degli ultimi Giorni d'Aprile

I. Freddo l’aprile gli estremi suoi giorni
alitando trascorre un tristo vento.
Ulula ‘l sasso degli antichi forni,
e ‘l sibilo s’infuria e passa lento.

Le foglie strappa alle betulle e agli orni,
e ‘l bosco ne costringe a un torneamento,
‘ve i germogli di Vita or sono adorni,
un viver che si langue e ch’è sgomento.

E l’aura geme un infuriar di corni,
canti di caccia che vanno al tormento!

I’ qui l’intendo; e fors’anch’ei m’ispira
un canto e dolce e mesto, e allor ne premo
l’aride corde d’un’agile lira.

I’ non m’accorgo, ma sonando i’ tremo,
come un uom che d’un Dio ne gusta l’ira,
e flebilmente or spasimando i’ gemo.

Quel che mi dice or la Musa - che gira
quivi d’intorno - ascoltandola i’ temo.

II. L’aprìl si muore, e l’alito
del vento gelido
le selve preme e i fonti,
e i rivi e gli orni,
e si mormora a’ pascoli
de’i capri indocili,
e solletica i monti
di nevi adorni.

Inghiottîr gli ansi nugoli
nel cielo cerulo
i dolci raj del Sole,
la Primavera,
e oscuro giace al termine
de’i lungi valichi
un campo delle viole,
la fredda sera;

e lamenta l’allodola,
piangon le nottole,
e ‘l cieco pipistrello
al nido resta,
gli artigli in sopra ‘l platano,
l’orecchia dondola,
e l’onda del ruscello
geme in Tempesta.

Schiudete, oh Furie, ‘l funebre
albergo all’Ecate,
e seppellite ‘l volto
de’i primi fiori!....
E voi, tessete, oh Eumenidi,
selvagge Näiadi,
un fil della Vita, e tolto
sia in sugli orrori!....

Infatti or qui Prosèrpina
all’Ade giàcesi,
co’ un ciel primaverile
ingannò i molli
sorrisi delle roveri,
de’i falchi in brividi,
pelle selve ‘l gentile
raggiar de’i colli.

Forse fuvvi un’ignobile
orrenda e calida
trista, crudel menzogna
la Primavera. Forse
ne fu un inganno
l’urlar del marzo al talamo
de’i gelsi splendidi,
e fu un sogno che morse
scagliando affanno.

Ecco, Poëta, sièditi,
qui, sopra ‘l spasimo,
e riflettiamo insieme
di questa Vita,
quando ne bevi un flebile
sorso che scàldasi
al braccio d’una speme
invàn ghermita,

quando n’ascolti ‘l sibilo
del vento orribile,
le frasche de’i piangenti
salci e de’i pruni,
quando l’aure s’infuriano
e ti feriscono,
nel tremor de’i tuoi denti,
tra’i nembi bruni,

come un brivido incognito
al labbro stridulo
che non sa più che dire
in tanto duolo,
come le piogge cadono
perenni in timidi
furori, e come l’ire
dell’usignuolo.

Non è una frode ‘l nobile
maggio che giùngesi,
l’aprile ch’è passato,
marzo, ‘l perduto,
le rose che si sbocciano,
i ciel che splendono,
un tramonto dorato,
canto di liuto,

quest’albe che si sorgono
svelte, in un attimo,
un sereno mattino,
meriggio mite?....
Sì, son frodi che vengono,
tetre ti stringono,
questo sarà ‘l Destino,
le vie romite.

Deî saperlo: al crepuscolo
de’i sogni un incubo
eternamente estolle,
un Mostro come
un irridente Dèmone,
un’Amadriäde,
un Orco altèro e folle,
e senza un nome,

come ‘l vento terribile
che intendi in gemiti,
Furia impazzita e tersa
dall’aspre piogge,
un negro lupo ch’ulula
a’ cupi frassini,
e bevi! chè ti versa
fango di rogge!....

Ascolta tosto! Un murmure
grida da’i turbini
del ciclone che duole,
forse ti chiama,
ti stringe ne’ suoi vortici,
un scialbo cenere
ch’è l’ossame del Sole;
la Luna, dama

nel meriggio risplèndesi
in sul vestibolo
de’i tuoi cantati ostelli,
e scaglia ‘l vento
che inghiotte nelle tènebre
i boschi debili,
un cantico d’augelli
che sta in tormento,

e riede ‘l biasimevole
verno, caligine
di germaniche brume,
stuoli di Villi,
una neve invisibile
che qui discèndesi,
grigia di Morte e lume
pe’i mesti grilli,

e questo ghiaccio gràcida
a un stagno tremulo
le rane compatite,
assiderati
gl’iris, volti selvatici,
le ninfee, e l’àlighe,
e s’ode eterna lite
tra biechi Fati.

Oh Poëta, oh gran misero,
sappi che a’ fulmini
di quest’aura confusa
Òssian lagnava
la Sorte rea de’i ràpsodi,
i miserabili
sòni di cornamusa
ei pizzicava,

che alle Norne e alle formide
Valchirie piàngeasi,
e agli Dei dell’Irlanda,
e a’ monti scoti,
che ivi l’arpa sonàvane
agli Avi e a’ Spiriti,
e delle querce a’ ghianda,
e a’ salci immoti….

Sappilo! Perché a un ràpsodo
è Sorte immobile
essere qui ingannato
dal Sol, da’i fiori,
dalle stelle che brillano,
da codest’arido
maggio che sconsolato
miete i tuoi umori.

Vuoi esser Poëta? Intèndilo:
scegliesti ‘l lugubre
viver d’un infelice,
di chi s’inganna,
d’un uom che pelle nugole
del cielo sordido,
ne soffre e maledice,
ama e s’affanna.

Gli Dei a te riversarono
i gaudi e i spasimi,
le coscienze e gli arcani,
le speni antiche,
e l’angosce dell’Anime,
strazi dell’indoli
e de’i Popoli umani
le doglie aprìche.

Scegliesti una via orribile,
inesorabile,
d’esto vento ‘l sentiero,
queste sue grotte.
Ti fuggiranno gli uomini,
ti maledicono;
e tal via ha un nome fiero:
perenne Notte!

III. Ma per coteste motte,
sappi Poëta che ‘l formido vento
anch’esso ha un nome: ne fia ‘l Sentimento!

Ma ognor mi fuggiranno, i gaudi, i’ temo,
e questo Fato d’intorno mi gira.

Mi fuggiràn le donne, e i fiori, e i’ gemo
qual se i’ fossi un umàn che coglie un’ira,
e sospirando or pel Fato ne tremo.

Febbrile mi si trilla l’ansia lira,
e un canto di doglianza a questa premo;
ma altro che duol la Musa non m’ispira.

Ahi quanto nelle vene i’ n’ho tormento,
più che vittima al sòno d’aspri corni!

Così quivi i’ mi giacio, e son sgomento,
e di strazio i miei Fati or sono adorni.
Nel frattempo m’uccide ‘l torneamento
dell’aura che ne piega i cardi e gli orni.

Il meriggio trascorre ombroso e lento,
e un sibilo si grida a’ vecchi forni.
Questo è l’orrendo soffiare del vento,
freddo l’aprile gli estremi suoi giorni!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XXIX Aprile AD MMXV