I. Freddo l’aprile gli estremi suoi giorni
alitando trascorre un tristo vento.
Ulula ‘l sasso degli antichi forni,
e ‘l sibilo s’infuria e passa lento.
Le foglie strappa alle betulle e agli orni,
e ‘l bosco ne costringe a un torneamento,
‘ve i germogli di Vita or sono adorni,
un viver che si langue e ch’è sgomento.
E l’aura geme un infuriar di corni,
canti di caccia che vanno al tormento!
I’ qui l’intendo; e fors’anch’ei m’ispira
un canto e dolce e mesto, e allor ne premo
l’aride corde d’un’agile lira.
I’ non m’accorgo, ma sonando i’ tremo,
come un uom che d’un Dio ne gusta l’ira,
e flebilmente or spasimando i’ gemo.
Quel che mi dice or la Musa - che gira
quivi d’intorno - ascoltandola i’ temo.
II. L’aprìl si muore, e l’alito
del vento gelido
le selve preme e i fonti,
e i rivi e gli orni,
e si mormora a’ pascoli
de’i capri indocili,
e solletica i monti
di nevi adorni.
Inghiottîr gli ansi nugoli
nel cielo cerulo
i dolci raj del Sole,
e oscuro giace al termine
de’i lungi valichi
un campo delle viole,
la fredda sera;
e lamenta l’allodola,
piangon le nottole,
e ‘l cieco pipistrello
al nido resta,
gli artigli in sopra ‘l platano,
l’orecchia dondola,
e l’onda del ruscello
geme in Tempesta.
Schiudete, oh Furie, ‘l funebre
albergo all’Ecate,
e seppellite ‘l volto
de’i primi fiori!....
E voi, tessete, oh Eumenidi,
selvagge Näiadi,
un fil della Vita, e tolto
sia in sugli orrori!....
Infatti or qui Prosèrpina
all’Ade giàcesi,
co’ un ciel primaverile
ingannò i molli
sorrisi delle roveri,
de’i falchi in brividi,
pelle selve ‘l gentile
raggiar de’i colli.
Forse fuvvi un’ignobile
orrenda e calida
trista, crudel menzogna
ne fu un inganno
l’urlar del marzo al talamo
de’i gelsi splendidi,
e fu un sogno che morse
scagliando affanno.
Ecco, Poëta, sièditi,
qui, sopra ‘l spasimo,
e riflettiamo insieme
di questa Vita,
quando ne bevi un flebile
sorso che scàldasi
al braccio d’una speme
invàn ghermita,
quando n’ascolti ‘l sibilo
del vento orribile,
le frasche de’i piangenti
salci e de’i pruni,
quando l’aure s’infuriano
e ti feriscono,
nel tremor de’i tuoi denti,
tra’i nembi bruni,
come un brivido incognito
al labbro stridulo
che non sa più che dire
in tanto duolo,
come le piogge cadono
perenni in timidi
furori, e come l’ire
dell’usignuolo.
Non è una frode ‘l nobile
maggio che giùngesi,
l’aprile ch’è passato,
marzo, ‘l perduto,
le rose che si sbocciano,
i ciel che splendono,
un tramonto dorato,
canto di liuto,
quest’albe che si sorgono
svelte, in un attimo,
un sereno mattino,
meriggio mite?....
Sì, son frodi che vengono,
tetre ti stringono,
questo sarà ‘l Destino,
le vie romite.
Deî saperlo: al crepuscolo
de’i sogni un incubo
eternamente estolle,
un Mostro come
un irridente Dèmone,
un’Amadriäde,
un Orco altèro e folle,
e senza un nome,
come ‘l vento terribile
che intendi in gemiti,
Furia impazzita e tersa
dall’aspre piogge,
un negro lupo ch’ulula
a’ cupi frassini,
e bevi! chè ti versa
fango di rogge!....
Ascolta tosto! Un murmure
grida da’i turbini
del ciclone che duole,
forse ti chiama,
ti stringe ne’ suoi vortici,
un scialbo cenere
ch’è l’ossame del Sole;
nel meriggio risplèndesi
in sul vestibolo
de’i tuoi cantati ostelli,
e scaglia ‘l vento
che inghiotte nelle tènebre
i boschi debili,
un cantico d’augelli
che sta in tormento,
e riede ‘l biasimevole
verno, caligine
di germaniche brume,
stuoli di Villi,
una neve invisibile
che qui discèndesi,
grigia di Morte e lume
pe’i mesti grilli,
e questo ghiaccio gràcida
a un stagno tremulo
le rane compatite,
assiderati
gl’iris, volti selvatici,
le ninfee, e l’àlighe,
e s’ode eterna lite
tra biechi Fati.
Oh Poëta, oh gran misero,
sappi che a’ fulmini
di quest’aura confusa
Òssian lagnava
i miserabili
sòni di cornamusa
ei pizzicava,
che alle Norne e alle formide
Valchirie piàngeasi,
e agli Dei dell’Irlanda,
e a’ monti scoti,
che ivi l’arpa sonàvane
agli Avi e a’ Spiriti,
e delle querce a’ ghianda,
e a’ salci immoti….
Sappilo! Perché a un ràpsodo
è Sorte immobile
essere qui ingannato
dal Sol, da’i fiori,
dalle stelle che brillano,
da codest’arido
maggio che sconsolato
miete i tuoi umori.
Vuoi esser Poëta? Intèndilo:
scegliesti ‘l lugubre
viver d’un infelice,
di chi s’inganna,
d’un uom che pelle nugole
del cielo sordido,
ne soffre e maledice,
ama e s’affanna.
Gli Dei a te riversarono
i gaudi e i spasimi,
le coscienze e gli arcani,
le speni antiche,
e l’angosce dell’Anime,
strazi dell’indoli
e de’i Popoli umani
le doglie aprìche.
Scegliesti una via orribile,
inesorabile,
d’esto vento ‘l sentiero,
queste sue grotte.
Ti fuggiranno gli uomini,
ti maledicono;
e tal via ha un nome fiero:
perenne Notte!
III. Ma per coteste motte,
sappi Poëta che ‘l formido vento
anch’esso ha un nome: ne fia ‘l Sentimento!
Ma ognor mi fuggiranno, i gaudi, i’ temo,
e questo Fato d’intorno mi gira.
Mi fuggiràn le donne, e i fiori, e i’ gemo
qual se i’ fossi un umàn che coglie un’ira,
e sospirando or pel Fato ne tremo.
Febbrile mi si trilla l’ansia lira,
e un canto di doglianza a questa premo;
ma altro che duol la Musa non m’ispira.
Ahi quanto nelle vene i’ n’ho tormento,
più che vittima al sòno d’aspri corni!
Così quivi i’ mi giacio, e son sgomento,
e di strazio i miei Fati or sono adorni.
Nel frattempo m’uccide ‘l torneamento
dell’aura che ne piega i cardi e gli orni.
Il meriggio trascorre ombroso e lento,
e un sibilo si grida a’ vecchi forni.
Questo è l’orrendo soffiare del vento,
freddo l’aprile gli estremi suoi giorni!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Mercoledì XXIX Aprile AD MMXV
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