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lunedì 30 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VIII. Preludio poetico. L’Idillio delle Vette

E Freya e l’Elfo sen vanno verso il Regno
dei monti degli Dei e delle lor Dee,
dove grida la lancia dei superni
patti di Wotan, e di Fricka il pianto
sui folli ardori dell’infedèl sposo.
E vanno… e vanno per sentièr ombroso,
timidi e muti, l’un l’altra d’accanto,
e i vàlichi ne sàlgono - quei eterni -
tra i lieti boschi e i stagni di ninfee,
l’Elfo compiendo il meritato pegno.
E nessùn conosce dell’indegno
Alberico le gesta oscure e ree,
e vèggonsi dei scorsi e antichi inverni
d’intorno i ghiacci, e gli imi e tenui colli;
e tra le nebbie e le nubi dei monti
l’ombra s’ammira del Reno divino,
donde le Ninfe lamèntano invano. E
quest’ombreggiàr or sen va più lontano,
e svanisce tra il faggio, e il sterpo e il pino.
E a Freya e all’Elfo si schiùdon gli orizzonti
delle montagne primigenie e molli.
Sempre silenti e con i passi folli
costòr pàssano or gli antri e i lignei ponti.
Così d’intorno non hanno che cime
lievemente innevate e maëstose,
e ora sàlgono… e sàlgono più in alto.
Sulla vetta più immensa sta lo spalto
degli Dei fatto di grotte e d’ombrose
pietre; ed è il Regno divino e sublime. E
scòrrono i rivi e i torrenti sull’ime
vallate e sulle foreste rocciose.
Così Freya ammira le montagne, e muta
l’Elfo seguendo coi passi procede
senza fatica sulla pietra, e scruta
l’alpìn sentiero che dinnante ei incede,
roccia selvaggia che è ancestrale e cruda.
D’in su’ un dì solo ell’è nata e vissuta,
e allor meravigliata intorno vede,
e i monti apprezza, mentre l’Elfo sputa -
affaticato or dal vino e dal piede -
selvaggiamente sulla terra ignuda.
E Freya contempla i castagni e gli ontani,
e i faggi e i canti dei lor uccelletti,
e nei boschi gli alberghi dei buon Nani,
i divi Gnomi sotto i salci freddi. Ed
è questo il loro bosco: i bassi aspetti
le fanno inchini e dìcono d’arcani,
e poi si còpron sotto i loro tetti,
le foglie antiche dei ramoscèl secchi.
E Freya ancòr sale… e sale e giunse al passo
dell’Alpe dove si geme pel lasso,
e qui si schiùdon tremende e funeste
delle Valchirie le triste foreste.

Sièdon le donne sulle rocce sante,
avvolte in manti di pelli e di penne,
e sopra i pepli tèngon l’armature,
gli usberghi ferrei sul petto e sul seno,
e con le destre impugnano e alabarde,
e fredde lame e irrisori pugnali,
e lungo i crini gli elmi della guerra,
e sotto, i volti guerreschi e gentili,
e altre bèvono le resine amare
delle querce fatàl, delle betulle,
e ivi cantano… e cantano alla Morte,
Furie soävi del truce Destino.
Ed esse sono belle e sono tante,
e brìndano coi corni delle renne,
e dòminano fiere queste alture,
ed esse son protettrici del Reno.
Hanno mantelli oscuri, e fulve barde
tinte del sangue dei Prodi mortali,
e solo un loro sguardo un Eroe atterra.
Apprezzano i valenti e non i vili,
e allòr sàlvano i primi dalle bare,
terrificanti e furiose fanciulle
che agli orizzonti e su’ in ciel son assorte,
Figlie di Wotan, possente e divino.
Còrron pei boschi e sèllano i destrieri,
e vanno… e vanno alla caccia dei cervi,
e dei cinghiali, in man gli archi funerei,
dove le fonti zampillano quiete,
all’ombra dei castagni di montagna,
affamate di vittime e di fiele.
Saltèllano… e saltèllan pei sentieri, e
i desti sensi son qui i loro servi,
occhi acquitrini e celesti e cinerei,
e fiuto che di sangue ha sempre sete,
e labbro che di sangue ognòr si bagna, e…
e questo sangue è come ambito miele.
Ma pur costoro s’inchìnano a Freya,
ed Erda, Erda - oh Erda! - più truce ne abbaia.

«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
l’Elfo sogghigna alla tremante Dea.
«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
ancòr aggiunge ei a quel fior di ninfea;
e poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
Ella ingenuämente ha un po’ paüra, e
d’ogni Valchiria e del ghigno ululante.
Ma nel frattempo d’ogni senso è amante:
di ciò che mira e sente, e di Natura.
Forse va rimembrando il fresco Reno,
e le tenzoni con Lorelei, e i canti;
ed ecco che qui v’è l’arcobaleno
che degli Dei le annunzia e l’antro e i vanti.
E l’iri è bella, e ordita d’adamanti,
della Notte e del giorno è una lucerna,
d’Erda la creätura più superna,
d’Erda infame, ingannatrice oscura.
Or Freya contempla la vicina altura,
delle divine grotte il soglio urlante.
Oh quant’è ingenua, e lieta ell’è dinnante,
ella, sì, delle Dee la Dea più pura.
«Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Sono le regge dei nostri fratelli.
Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Degli Dei sono i sassi ardenti e belli».
E poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
E Freya s’appresta a conòscer gli Dei.
Erda, Erda, oh tu Erda! Libera i tuoi Rei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì XXX Novembre AD MMXV

domenica 22 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VII. Melodramma: La Maledizione di Alberico

«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
esser mia sposa, e con me la regina, e
condividere e regno, e trono e letto,
dove la nebbia regna ed è impetuosa?
Vieni, oh tu, oh dama, qui, tra le mie braccia,
qui… coperta dai baci miei gaudenti!»,
dice Alberico, il crudèl, cuor impuro
le nuche divorando delle Ondine,
famelico sentìr d’istinti e sensi,
e ripensando ei le forme gentili; e
già esse, le Ninfe, pensano a uno scorno,
e follemente Erda ora le addestina
a vendicarsi del Re orrendo e schietto.
Oh Possa infame, tremenda e furiosa!
E il Nibelungo in cuor ripete: «A caccia!»,
e i ghigni suoi si mostrano irridenti,
spettro vivente d’un insieme oscuro
di tenebre e di notti, e nebbioline,
e ignobili sorrisi e sguardi intensi,
ombra dell’ombre, egli è il Re dei più vili.
«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
fònder sue carni con le mie voraci, e
godèr nel cielo della Nebbia eterna,
essere primigenia d’una schiatta?
Oh Ninfe, a che tacete? Non son degno
forse dei vostri visi angelicati? O
solo temete la mia barba lunga
e folta? Anch’io ho il diritto dell’Amore, e
ebbro inebriàr il cuor sul vostro cuore;
e qui m’aggiro. Non v’è Nibelunga,
e non ho spose, io, Re dei disprezzati
Gnomi del vespro, di Nebbie il vil Regno;
e Re, Re! schiavo sòn di brama matta:
ghermìr la vostra carne, la superna
bocca delle onde, oh boccucce di baci!»;
e ascoltando le Ninfe in disperata
posa, serene fanno una risata.

«Oh voi irridete, lische, il Sentimento
mio, che in ira si muta e vi percuote!
Qui, qui nell’onde verrò: e già vi afferro, e
non potrete sfuggìr ai baci miei, e
nude Sirene senza cuor! Oh pietre!»; e
sì il Nibelungo urlando e lento, lento
quasi s’addentra tra l’acque più immote,
e verso le fanciulle va, lo sgherro,
bestemmiando il Destino e pur gli Dei,
avvolto in spire nebulose e tetre,
e nel suo guazzo fùggon impaurite
le meste Ninfe, le man sue evitando,
polpi ghermenti, e furia animalesca,
e scagliandogli fredde onde di sprezzo,
mentr’egli grida rabbioso e baldante.
Così le Figlie del Reno fluttuante
ben più scaltre ne fùggon ogni vezzo,
ma ora fuggendo mòstran la donnesca
forma che certo il bruto non fa blando,
e hanno le guance umiliate e arrossite;
donde non svàmpan le brame infinite
del Nibelungo più rozzo e nefando.
E quegli è terso, e il sacro fiume infesta,
impunito dal cielo e dagli abissi,
e preme i santi scogli e i suoi cristalli.
Preme i fondali con i tristi calli,
e sulle sue fuggenti gli occhi ha affissi,
e tra quest’acque corre, ombra funesta.
E solo il senso sta nella sua testa,
e le conchiglie schiaccia e i loro ricci.
Ma le fanciulle, andando or con più flemma, e
ora arrestando, hanno uno stratagemma.

Qui Woglinde s’immerge e chiama il crudo,
e lo persuade con voce maliarda:
or lo chiama per nome, lui, Alberico,
e provocante gli porge le scuse,
e vêr di lui distende il suo mancino
braccio, e col destro - ahi lui! - se lo accarezza,
oh delicatamente! e tante volte,
e ora gli mostra le spalle e le ascelle,
e tra una sua carezza e un’altra il petto,
e cantando e cantando, oh fior soäve,
il bruto attira, e ‘l porta a sé dinnante.
Allor lo Gnomo verso questo nudo
e folle inganno s’inchina. La guarda!
Ella ripete: «Alberico! Alberico!»,
e canta, e canta… sulle cornamuse
del fresco vento, un inno che è divino;
ed egli non comprende che ‘l disprezza,
e a lei avvicina le chiome sue folte,
e quasi le solletica la pelle, e…
e finalmente ei giace al suo cospetto,
e l’ammira… l’ammira, le dice: «Ave!»,
sogna ingannato d’esserle l’amante.
«Alberico! Alberico! Vieni! Oh vieni!
E ti darò sul labbro un dolce bacio,
come tu sogni nel tuo desiderio; e
ti cingerò con queste braccia mie,
e tu mi prenderai, e mi porterai
nel tuo Regno di Nebbie, e io sarò sposa
tua, e per sempre, oh Alberico! Vieni! Oh vieni!
Perdona se ti ho offeso! Vedi? Giacio
solitaria e piangente, e tu, lì, serio
tosto mi scruti. Ah perdona le rie
gäie parole! Guarda! Senti! I lai
della mia bocca, odorata di rosa!»;
e così il Nibelungo ora le crede,
e a lei vicino s’avanza contento,
e cammina… cammina, e qui procede;
e Woglinde gli soffia un dolce vento
con le sue labbra di fiori d’aprile,
un fumo, esso, un vapore che sul mento
del Re brutale si posa gentile;
ma ecco che il Fato conosce quel vile!
La Ninfa, allora, la barba gli afferra,
e tira… e tira, lo scaglia per terra,
e poscia un poco lentamente scappa
lungi dal folle dalla negra cappa.

Ei sta per maledire ed è infuriato,
e quasi muove i suoi piedi a vendetta;
ma Flosshilde ora emerge, e porge il seno:
prende una stilla, una goccia dell’onde
che sulle forme va scendendo, e lieta
con l’indice fatale l’accompagna,
lungo le carni montuose di dama,
e accompagnata la goccia nel fiume,
veloce immerge la nuca e riemerge
ella, divina, e sorride allo Gnomo
che tanto ha fame, e non scorge ei altro inganno,
follemente perduto e istintivo.
Ella, Flosshilde, nuota e sguazza, e il rivo
agita - e molto! - e si finge in affanno,
e fissa il Mostro, l’Orco, il putrido uomo, e
con una goccia ancora il sèn si terge,
e il suo occhio azzurro brilla d’un bel lume,
bellezza primitiva, e ingenua, e arcana;
e sguazzando… sguazzando ancòr si bagna,
‘ve nel suo cuor non v’è grazia né pièta,
poscia si aggiusta le trecce sue bionde,
e già ai piedi del bruto sta. Ahimè, oh Reno!
Ed ella è dolce, soäve e diletta,
ed egli ancora si mostra stregato.
Flosshilde è giunta, e sul petto si stride,
con la man destra, ove palpita il cuore,
appena sopra il seno, e alzando il volto
dice: «Alberico! Alberico! Ah! Qui bacia
dove m’ha punta un’ape con il miele;
qui, dove il fuoco si acceso impetuoso
per le tue labbra che vogliono amare!
E sarò grata per sempre, e verrò
a Nibelheim con te, oh Re, io tua regina!».
Così Alberico lieto le sorride,
e già s’infiamma di funesto ardore,
e allor s’immerge e a lei vicino molto
al suo bel seno avvicina la faccia,
e ancor non sente il profumo del fiele,
e sul labbro prepara un tempestoso
bacio su quelle pelli che son chiare,
e già lo schiocca, egli, il beffardo. Oh no!
E Flosshilde si mostra più meschina.
Presa dal fiume una rigida perla,
prima del bacio, ecco! Gli dà una sberla.
E fugge… fugge, lo Gnomo irridendo,
il qual sogghigna malvagio e tremendo.

Giace Wellgunde su uno scoglio ignuda.
Con dei capelli e con quattro legnetti
ha appèn plasmata un’arpa leggiadra,
che lieve suona amoreggiando all’aria,
e l’orizzonte inebria d’un suo canto
che verso il Nibelungo accenna un suono
forse di grazia e di compatimento,
gorgheggi molli, melliflui, donneschi,
ditirambi agili e festosi carmi,
distici quieti, labbra urlanti, e carni
gentilmente danzanti, ed elegie:
«Weia! Waga! Waga! Amòr che infame Dio!».
Giace Wellgunde su uno scoglio e cruda
più delle sue sorelle. Oh i divi aspetti!
Di caldi sensi ella - oh sì! - ella la ladra,
interamente emersa e solitaria,
e col suo ignudo corpo trae d’accanto
il Nibelungo, al qual l’ultimo tuono
s’appresta; e allegro, allegro… e lento, lento
ei lì s’avanza a quei sèn che son freschi,
ancora vinto, e senza ira e senza armi,
ascoltando le gaudie Poësie,
ignorando l’estremo, ultimo fio.
Wellgunde è forse la più bella Ondina,
fors’anche ancor di più di Lorelei,
e qui cantando il labbro a bacio muove,
giuocando con il vento e con il Mostro,
e il corpo mostra, ella, divinamente.
Vanno i suoi versi delicatamente
per tutto il Reno, inebriato di mosto.
E tu Alberico, ancor, ancor li udrai!
Erda frattanto governa e destina!
Ecco: Alberico viene e s’avvicina,
e intenso ascolta i caldi e urlanti lai.
Allo scoglio s’aggrappa, e bacia il ventre
di Wellgunde che finge e che l’äiuta
ad andàr presso il viso. Oh Gnomo, il nano!
Ei le bacia le braccia e poi la mano,
e l’arpa prende, scaglia, ed è perduta,
e il labbro pone alle labbra sue; e mentre
il bacio sta schioccando ella lo morde
e nell’onde lo scaglia tra l’ansie orde.
E il Nibelungo ora la maledice.
Ma ecco del Sole una fiammata altrice!

Alberico in sgomento sta in disparte,
e va a una riva, e scruta e guarda e attende,
dei suoi inganni pensando all’orrida arte.
Dall’alto il Sole sul Reno discende,
e illumina i fondali ov’è l’argento,
e il luccicàr dell’oro il nano apprende.
Erda invisibile, Erda, dice al vento
che l’onde sposti, il tesoro mostrando,
e le ubbidisce allor ogni Elemento.
E così ad Alberico, empio, il nefando,
del Reno l’oro compare in fulgore,
e nessun lo difende con un brando.
Del Nibelungo nel lugubre cuore
non v’è più la passione ma il furore;
ed egli chiede: «Oh Ninfe, dite: or come
avèr si può così tanta opulenza,
com’io possa ghermirla e lì portarla
a Nibelheim, al mio regno di brume!».
E le Ninfe, distratte, ed ebbre quasi,
dal Destino incantate, oh Erda la belva!
gli rispondono insieme: «Oh Nibelungo
maledicendo la Possa d’Amore!
Colui che avrà il coraggio di tal gesto
libero avrà ogni varco a questi argenti,
e seminando l’Odio, invitta serpe,
ei godrà d’un Potèr che sarà immane,
più forte questo d’ogni Dio possente,
e il mondo intero, frutto di Erda, avrà.
Oh Nibelungo, non la maledire!».
Ma egli Alberico alle commosse chiome
delle fanciulle inebriate e in demenza,
furiosamente va, e va… va a invocarla -
la Possa santa - e senza senno e acume,
e verso gli ori dai suoi sguardi invasi,
e ivi chiamando a testimòn la selva:
e ogni suo fiore, e ogni salce, e ogni fungo,
ecco, egli maledice, ahimè, l’Amore.
Le Ninfe si ridestano e hanno mesto
lo sguardo ora impietrito, e intorno i venti
con lor combattono e le vìncon. Serpe
oh Erda, oh Erda sei! e le Ninfe son lontane,
e lo Gnomo s’avventa irriverente
sull’oro che gli spetta. Ahi, oh eredità!
E scansano le Ondine ei va a frinire.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
veloci accorrono e contro il crudo
vanamente combàtton. E ombre in nebbie
d’Anime morte dei re Nibelunghi
accorrono al servizio d’Alberico,
lasciati i lor sepolcri, e rùban l’oro.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
fuggire scòrgon con i suoi, lui, il crudo,
verso il dominio della Notte in nebbia,
nell’antro fosco dove i Nibelunghi
i servitori sono d’Alberico,
piangono, e piangono insieme e qui in coro;
e cercano di urlare ai loro Dei,
pallide in volto, scomposti i capei.
L’empio ha rubato il sacro oro del Reno.
Ahi qual s’appresta del Fato il veleno!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXII Novembre AD MMXV

giovedì 24 settembre 2015

Idillio d'Autunno

Canto!

Le brine gelide, e
i scialbi nugoli,
l’aurore roride, e un
grido d’un Unno,
spettro selvatico,
tombe di tenebre,
viene l’autunno;

e il mio cuore non scorge che le foglie
che cadono ingiallite, e sente doglie.

Canto!

Giunge immobile,
inesorabile, un
sepolcro timido
di lìgneo ossame, e…
e si precipita
dal nudo platano,
dal tetro frassino, il
secco fogliame. E

sembra la mia gioventù che s’invola,
dove son cieco, e non so dìr parola.

Canto!

Lungi va l’iride
mia che qui spasima
al canto flebile
della vendemmia,
gelo terribile,
volto di Sìlfide, e
grida interminabili
d’una bestemmia;

ed è forse costui sul mio cammino
quello che ha un nome oscuro, il mio Destino.

Canto!

Fugge l’allòdola,
geme la rondine,
strìllan le nòttole, e…
e i cardellini,
ha fame un pàssero,
i corvi trèmano, e
sui campi gèmono
i beccaccini;

strilla di liuti, di sogni e di canti,
arcana voce dei miei antichi pianti.

Canto!

Odo quest’àliti
di vento indocile,
di piogge e di oïdi,
coprìrsi il giorno, e
le nubi cèrule,
le terre pallide, e
intendo i palpiti
d’un truce corno,

sogno represso nel sangue secreto,
cure d’un folle Poëta irrequieto.

Canto!

Le cacce squillano,
i cani inseguono,
le selve mùtansi
in camposanti,
càdon le tortore,
ferite all’ùgola
dai piombi languidi,
i cuori infranti,

com’è il mio cuore, piangente in eterno,
da un dubbio asperso, conteso dal scherno.

Canto!

Gelano l’àlighe
sull’acque limpide
dei stagni tremuli, e
ghigno autunnale
s’erge al crepuscolo,
con guance orribili,
è il maëstrale, e…

e senso visionario di ponente
dell’occhi mio che sogna ed è demente.

Canto!

Odo: sta in fremiti
la sera giovane
che presto s’agita, e…
e viene bruna, e
più oscura e lugubre -
di streghe i pòllici
che il cielo graffiano -
lungo la Luna,

ossame scialbo, qui ordìto d’argento - che -
sopra il mio volto s’angoscia tra il vento.

Canto!

Notte di funebri,
ombre e fantàsimi,
pianto di ràmore
vecchie e lontane, e
impronte rigide
di Luna candida,
di stelle deboli, e
lanterne vane,

dove è giunta così l’ora del sogno,
l’insonne pianto del qual mi vergogno.

Canto!

Volti trapàssano
d’inquieti vàlichi,
oltre le formide
cime dei monti, e…
e a Morte suonano
i flutti spastici
delle più tisiche, e
gelate fonti; e…

e mentre giaccio in un grido di lagna, or
m’è più caro il pensàr della montagna,
dov’era estate nel giòvin mio cuore,
un preludio d’autunno e di dolore.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXIV Settembre AD MMXV

martedì 15 settembre 2015

La mia Terra in Autunno

Terra è assetata del cuor che è mio, e - fuori - e
all’orizzonte oscuro, e - ai nembi - oh! senti? - Oh
fango? - che è il pellegrino stormo? e - a che tu muori
nei sogni miei? - E tu, nido dei miei Sentimenti, e…

e mar della quiete mia - oh! - odi? - I venti
freddi s’infuriano, e - gli ultimi tuoi fiori - e
qui, e ora al mio sguardo - li strìngon. – Lenti
gli spettri delle brume e, - i lor tenebrori - e

le spente foglie s’alzano; e - a cori
di turbini ululanti - essi fan spaventi e
ai miei sensi - or dolenti, e - ai sopori
della Notte che viene. E or - le cere pallenti

dell’alba Luna - ahi! - vèngon presto a
illuminare: e - i boschi, e - i cascinali, e i
ruscelli, e - i campi. - E il tramonto - ah! - m’è mesto! - Oh…

Oh terra! - Oh terra, senza i Temporali
della perduta estate, e - suol! - funesto, - oh
terra mia, scorgo: i cieli e, - i maëstrali, e -

in grigiòr di Destino - i funerali
delle mie querce; e - al mattìn, quando mi desto,
nel ciel un’arpa, - rostri di immigranti ali. - Oh…

oh terre immortali!
Passeggio, e - ammiro: e cere senza fine
delle montagne, e - le nebbiose cascine, - e

i pioppi fatali, - e i
freddi mulini d’acqua, e - i monti sorgivi, e -
i tuoi, oh mio cuore, lontani e, - miei – clivi, e -

voi, oh cime sepolcrali:
amo - ahimè! - i vostri e melliflui vitigni, e -
Vate vostro son io, - un canto di cigni.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XV Settembre AD MMXV

sabato 12 settembre 2015

Pensiero di un Cuore inattuale

Non hai più, oh cuor, le concitate corti
dove potèr cantare! E
non hai più desidèri? E a che sognare? E
qui i volti assorti e

ombrosi e forti

delle nuvole in cielo, e i fiori morti
ti dissolvono. - Oh mare
d'ire e tempeste, eh! vuoi tu divorare
i miei, i miei accordi? E

i miei ricordi?

E le mie vene or stilleranno avare
foglie di pianto; - e i torti
e forse il Fato, oh cuoricino, e i fiordi -
li odi? - Oh tu, oh mare? Eh!

Vanno a gridare! Eh!

E forse sono questi i sogni muti
del tuo secreto vino,
oh cuore! E non senti? E son liuti? E

or la tua Poësia cade. - È il Destino! E
voi, miei sogni perduti,
ci siete? - E io inclino

all'ombre dello spino,
dove vanno le nebbie oscure e autunnali,
Anima morta nei ciel sepolcrali! E

addio, sogno, cui inchino,
di allegre danze, e aspetti di fanciulle,
e addio, betulle, e

e addio, a te, pellegrino
e sempre tetro e appassito, oh mio cuore,
trapassato da due urla e dall'Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XII Settembre AD MMXV