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venerdì 17 febbraio 2017

La mia Terra, ovvero Immagini di Borgolavezzaro tra Nostalgia e Ricordo

Immagini borgolavezzaresi - La Cascina della Chiusa

Quand’ero un pargolo - oh gentil membranza -
lieto n’andai vêr l’onde dell’Agogna,
e de’i pastor mi suonò una romanza,
dolce zampogna,

e allor che fui privo d’inquiete cure,
e illuso là ero da un sogno di Vita,
miravo i campi, e i sentieri e l’alture,
l’acqua fiorita,

e nulla seppi di dolor, di Musa,
ed ammiravo la rude cascata,
e la campagna, e ‘l torrente e la chiusa,
ninfea indorata,

e un vecchio mùr scorgea d’una cascina,
e in tra le foglie - e secche e vive - un forno,
e ceppi e legni v’eran, la cucina
in sotto un orno;

e dalle ripe mirai più d’un pesce,
e scorrea il turbine in su’i pescatori,
e in mezzo all’erba crescèvan le vesce,
dolci sapori,

e v’eran querce, e platani, e castagni,
e pioppi e roveri, e frassini e rose,
ed olmi e peschi, e l’impronte de’i ragni
su’ pietre ascose,

e assaporavo l’odor delle trote,
le lente resine, e in fiore l’ortiche,
e vedea bionde dalle rogge immote
le pronte spiche,

e contemplavo il profumo de’i funghi,
e più le chiocciole, e i scuri porcini,
e questi giorni mi sembràvan lunghi,
senza Destini,

e a’ i piè pregavo d’un’imago eletta
che fioca e spenta parea di Maria,
e il casolar fatto di pietra schietta
sembrò abbazia.

Fu il tempo in cui la Vita m’irrideva,
e n’avea indarne speni e bei desiri,
quando l’Amor - ingenuo - m’attraëva,
repressi spiri,

e pensai il mondo sereno - un amico -
e molli guardi donavo alle bionde
dame, e il cammin - Destin ti maledico! -
m’erano l’onde,

e i rossi muri, e il rudere e la fonte
mi dàvan sangue, speme giovinetta,
e scorgea lungi la cima d’un monte,
una saëtta,

e mi fu grato il cinguettar d’un passero -
forse un’allodola - al cielo d’estate,
e segnò il Fato in sul volto d’un cassero
non più che un Vate.

Oh quieta Arbogna! Oh cascina defunta!
Oh chiusa inerme! Oh estinti e miei boleti!
Oh forno antico! Oh roccia alfin consunta!
Quai sogni inquieti!

A voi io ne andavo, e vi contemplavo un fiore,
e molti dì passai di gioventù,
e sognai amici, e Vita e sposa e Amore,
tempo che fu!

Immagini borgolavezzaresi - La Chiesa di Santa Maria

È lieve il calle che oltre i tetti sale
e tra le nebbie si ergono sue cime,
ed è cotanto che pe’ il borgo vale
che dopo appàr un portento sublime.

Ivi - ai suoi margini - un chiostro spettrale,
un casolare giace, e verso l’ime,
mostra le pietre - rovina immortale -
che a’ suoi piè giacciono perdute e infìme.

Lì in tra le nevi si erge un campanile,
e a lui dappresso un tempietto barocco,
e quando il bronzo lamenta, è sottile -

triste nel vento - l’ansimante tocco…
e che sia verno o che sia aria di aprile
del mio villaggio è pieve in niveo fiocco.

E in soffiar di scirocco
codesto è il calle di antica abbazia,
fu dedicato alla Santa Maria.

La bianca pietra e il profumato stelo
dell’arso incenso olezzano pe’ il colle,
e ai simulacri ne palpita il Cielo
ove la statua di un Santo si estolle,

e in tra le brine e nell’orrido gelo,
e in su’ il ghiacciato portone che è folle
di questa Vergine or splende il pio velo
che vola agli Angioli e che è caro e molle.

Qui un flèbil suono si espande söàve
di un organello che canta al Signore,
e offende immobile ancor le arie cave.

E pe’ il cortile, di ghiaccio sta un fiore…
e si alza ai nembi un rosario ed un Ave,
e il borgo intiero è un religioso ardore.

Oh monaster d’Amore,
sei dell’airone il consacrato lito,
e speme santa di un mìser smarrito.

Lì santo sta d’orrore,
al freddo muro e alla parete affisso,
l’ombra possente d’un gran crocifisso.

De’i ceri il pio bagliore
bacia d’Empiro il quieto pavimento,
e vêr l’altare sen sta un paramento.

Ed io vi udrò dolore:
a me dinnanzi la Vergin fanciulla,
Iddio mi scruta, e nel cuor sempre è il Nulla.

Sonetto saffico con Caudo - La Pieve

Vi fu un dì ove io là andavo, a’ i boschi freschi,
e a’ vicìn campi, e in vêr una cascina,
e il mio cuor si bëàva in tra’ bei peschi
di rosea spina.

Lì, e lungi, un marmo con occhi donneschi
mi si splendea, e un’effigie fu divina.
A lei d’intorno stàvan arabeschi
di rosellina.

Allor giungevo a questo crocevia,
dove stanno i sentieri de’ il Gesiolo.
Lì pieve candida ammiravo, e pia

croce in su’ un piolo.
Sì che allor ligio e in tanta cortesia
pregavo gli Angioli inchinato al suolo.

Ma in preda a ignoto duolo
gemevo assorto una lode a Maria:
«Abbi pietà della miseria mia!».

Sonetto saffico con Caudo - Un Fior di Papavero

Sempre andavo a un boschetto a mirar fiori
dove le querce ombreggiàvan gentili.
Là mi pascevo di flebili odori,
e di cortili.

Mi piacquero cotanto i bei colori -
e il verde, e il viola e il giallo, e l’erbe in fili -
i dolci campi, i pioppi, e i pruni mori
e i quieti asili.

Ma che più mi piaceva era quel stelo
che del papavero il petalo irrora,
e rosso e bello, sotto il bianco cielo

lo ammiro ancora:
mi sembrò una ridente dama, un velo,
un occhio rosso che ancor m’innamora.

Ma un rovo, ombra di mora
a lui vicino crescea e il soffocava,
e un venticel lo stame scompigliava.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Sherrin, Dopo una Tempesta, Tardo-Romanticismo anglosassone, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII. Revisione di mie Poesie composte nel febbraio dell’Anno MMXIV.

lunedì 5 settembre 2016

Sabato

Fu il falò, e si erse - ei di fiamme è il Titàno -
lungo i crinàl del cielo
per la soletta via
della chiesetta antica di Maria,
mentre d’intorno alle campagne un dì
io sedèa a contemplàr i pioppi e i pini,
in su’ i tetti i camini,
che facèvan un’ombra di inchiostro
sopra l’erbe del mosto,
un brìndis alla corte del vecchietto
domenicano che fu il monastero,
lontano il cimitero,
vicini i campi, i boschi e i ruscelletti
al cantare degli ùltimi augelletti,
laddove ignuda riposa l’Arbogna,
senza vergogna;
e venne il tempo di gettàr nel fuoco
i secchi rami dell’incolto prato.
Ma il guardo io volsi alla chiesetta mia,
e mentre mi suonò un’Ave Maria
pensai… sognai:
colsi la nudità di una fanciulla,
la Natura co’ il suo ventre e il suo seno,
e l’ìnguine fecondo e stagionale,
ciclo fatale
di Primavera e d’Autunno e d’Inverno,
un ghigno dell’Eterno,
oscena e incinta, e or pàllida e morente,
co’ un sguardo di bambina,
la Vita che alla Morte ne destina.
No! via da me, tu, oh spettro di erba e fiori,
malvagia, oscura, famèlica donna!
Lascia che al fuoco che scioglie le frasche
io preghi la Madonna!
E venne il tempo di tòglier dal fuoco
un àlito di cènere.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




In Dì di Lunedì V del Mese di Settembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

mercoledì 17 agosto 2016

Arbogna!

Fischiàr gavòtte allo specchio di un vento
che fa ritornàr l’eco da i suoi ansi occhi
di invisìbile giorno,
e sibilàr alle frasche dei sàlici
e delle querce, e dei pioppi, e dei plàtani…
urlàr dei sovrumani
sospìr indefiniti come le ombre
delle più attese sere,
e qui sedèr al davanzàl del ponte
presso il più vecchio mulino in mattoni
rossi di smorto fuoco, e quasi spenti
in un tramonto! Arbogna!
Immane possa e tremenda e inumana
nella tua cateratta sotto i miei
piedi, dove zampilli i tuoi cristalli
che ricascando da un pìccolo calle
quasi perpetuamente si moltiplicano,
per poi spègnersi tosto
dissolvèndosi con le altre tue onde
in un così perenne e oscuro ciclo
di Nàscita e di Morte…
una potenza inferma dov’io pùr
mi perdo, e ne’ i suoi vòrtici che scòrrono
per le tue ignude pietre,
come un naufragio eterno nel passàr
di questi flutti irrequieti e furiosi
che sono fiori che nàscono e muojono
nelle tue piogge di torrente estivo!
Arbogna! Sacro
Reno mio, e del mio päèse nei campi,
che i seni culli delle Ondine dei
miei Sogni, e i ventri delle Ninfe d’àëre,
e che sei l’ìnguine söàve e spoglio
di una fanciulla immortale, dannata
a giacèr nuda
nella danza delle acque che rispècchiano
i tuoi infantìli tallòni di Dea,
mentre il discinto peplo scende e crolla, e
per bruciàrsi nel Sole dell’Estate;
e che vai… vai oltre, verso la campagna,
dove sovente io più lìbero e quieto
il cuòr dischiudo ai lenti singhiozzi
della Natura!
Arbogna! Dove io affogo,
e ne’ i tuoi bàratri angosciosi e mesti,
sepolto vivo da’ il scòrrere tuo,
recònditi pensieri di un Pöèta
che vive per il Sogno,
per mèttere alla prova le sue ordìte
sete, i velluti… per vedèr se mai
si avvèrano nei pròssimi suoi giorni,
perché ei ama l’illusione!
Arbogna mia!
Dove nella tua guancia sovrumana
scorgo io più volte riflèttersi il Cielo,
e le nubi sue d’oro,
e l’ìri sua;
e nell’Oltre del ciclo naturale:
nel crepùscolo amaro delle gioje, e
nell’alba della Morte,
e nel riposo della Vita assente,
e negli illusi àttimi dell’Amore,
e nei perduti Sogni della mente,
e oltre ogni via e ogni corso
v’è l’Infinito…. E è Iddio!
E come tu sei bella, oh Arbogna mia!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William-Adolphe Bouguereu, Venere-Danzatrice, Neo-Classicismo francese, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Mercoledì XVII del Mese di Agosto dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

martedì 15 settembre 2015

La mia Terra in Autunno

Terra è assetata del cuor che è mio, e - fuori - e
all’orizzonte oscuro, e - ai nembi - oh! senti? - Oh
fango? - che è il pellegrino stormo? e - a che tu muori
nei sogni miei? - E tu, nido dei miei Sentimenti, e…

e mar della quiete mia - oh! - odi? - I venti
freddi s’infuriano, e - gli ultimi tuoi fiori - e
qui, e ora al mio sguardo - li strìngon. – Lenti
gli spettri delle brume e, - i lor tenebrori - e

le spente foglie s’alzano; e - a cori
di turbini ululanti - essi fan spaventi e
ai miei sensi - or dolenti, e - ai sopori
della Notte che viene. E or - le cere pallenti

dell’alba Luna - ahi! - vèngon presto a
illuminare: e - i boschi, e - i cascinali, e i
ruscelli, e - i campi. - E il tramonto - ah! - m’è mesto! - Oh…

Oh terra! - Oh terra, senza i Temporali
della perduta estate, e - suol! - funesto, - oh
terra mia, scorgo: i cieli e, - i maëstrali, e -

in grigiòr di Destino - i funerali
delle mie querce; e - al mattìn, quando mi desto,
nel ciel un’arpa, - rostri di immigranti ali. - Oh…

oh terre immortali!
Passeggio, e - ammiro: e cere senza fine
delle montagne, e - le nebbiose cascine, - e

i pioppi fatali, - e i
freddi mulini d’acqua, e - i monti sorgivi, e -
i tuoi, oh mio cuore, lontani e, - miei – clivi, e -

voi, oh cime sepolcrali:
amo - ahimè! - i vostri e melliflui vitigni, e -
Vate vostro son io, - un canto di cigni.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XV Settembre AD MMXV