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borgolavezzaresi - La Cascina
della Chiusa
Quand’ero un pargolo - oh gentil membranza -
lieto n’andai vêr l’onde dell’Agogna,
e de’i pastor mi suonò una romanza,
dolce zampogna,
e allor che fui privo d’inquiete cure,
e illuso là ero da un sogno di Vita,
miravo i campi, e i sentieri e l’alture,
l’acqua fiorita,
e nulla seppi di dolor, di Musa,
ed ammiravo la rude cascata,
e la campagna, e ‘l torrente e la chiusa,
ninfea indorata,
e un vecchio mùr scorgea d’una cascina,
e in tra le foglie - e secche e vive - un forno,
e ceppi e legni v’eran, la cucina
in sotto un orno;
e dalle ripe mirai più d’un pesce,
e scorrea il turbine in su’i pescatori,
e in mezzo all’erba crescèvan le vesce,
dolci sapori,
e v’eran querce, e platani, e castagni,
e pioppi e roveri, e frassini e rose,
ed olmi e peschi, e l’impronte de’i ragni
su’ pietre ascose,
e assaporavo l’odor delle trote,
le lente resine, e in fiore l’ortiche,
e vedea bionde dalle rogge immote
le pronte spiche,
e contemplavo il profumo de’i funghi,
e più le chiocciole, e i scuri porcini,
e questi giorni mi sembràvan lunghi,
senza Destini,
e a’ i piè pregavo d’un’imago eletta
che fioca e spenta parea di Maria,
e il casolar fatto di pietra schietta
sembrò abbazia.
Fu il tempo in cui la Vita m’irrideva,
e n’avea indarne speni e bei desiri,
quando l’Amor - ingenuo - m’attraëva,
repressi spiri,
e pensai il mondo sereno - un amico -
e molli guardi donavo alle bionde
dame, e il cammin - Destin ti maledico! -
m’erano l’onde,
e i rossi muri, e il rudere e la fonte
mi dàvan sangue, speme giovinetta,
e scorgea lungi la cima d’un monte,
una saëtta,
e mi fu grato il cinguettar d’un passero -
forse un’allodola - al cielo d’estate,
e segnò il Fato in sul volto d’un cassero
non più che un Vate.
Oh quieta Arbogna! Oh cascina defunta!
Oh chiusa inerme! Oh estinti e miei boleti!
Oh forno antico! Oh roccia alfin consunta!
Quai sogni inquieti!
A voi io ne andavo, e vi contemplavo un fiore,
e molti dì passai di gioventù,
e sognai amici, e Vita e sposa e Amore,
tempo che fu!
Immagini
borgolavezzaresi - La Chiesa
di Santa Maria
È lieve il calle che oltre i tetti sale
e tra le nebbie si ergono sue cime,
ed è cotanto che pe’ il borgo vale
che dopo appàr un portento sublime.
Ivi - ai suoi margini - un chiostro spettrale,
un casolare giace, e verso l’ime,
mostra le pietre - rovina immortale -
che a’ suoi piè giacciono perdute e infìme.
Lì in tra le nevi si erge un campanile,
e a lui dappresso un tempietto barocco,
e quando il bronzo lamenta, è sottile -
triste nel vento - l’ansimante tocco…
e che sia verno o che sia aria di aprile
del mio villaggio è pieve in niveo fiocco.
E in soffiar di scirocco
codesto è il calle di antica abbazia,
fu dedicato alla Santa Maria.
La bianca pietra e il profumato stelo
dell’arso incenso olezzano pe’ il colle,
e ai simulacri ne palpita il Cielo
ove la statua di un Santo si estolle,
e in tra le brine e nell’orrido gelo,
e in su’ il ghiacciato portone che è folle
di questa Vergine or splende il pio velo
che vola agli Angioli e che è caro e molle.
Qui un flèbil suono si espande söàve
di un organello che canta al Signore,
e offende immobile ancor le arie cave.
E pe’ il cortile, di ghiaccio sta un fiore…
e si alza ai nembi un rosario ed un Ave,
e il borgo intiero è un religioso ardore.
Oh monaster d’Amore,
sei dell’airone il consacrato lito,
e speme santa di un mìser smarrito.
Lì santo sta d’orrore,
al freddo muro e alla parete affisso,
l’ombra possente d’un gran crocifisso.
De’i ceri il pio bagliore
bacia d’Empiro il quieto pavimento,
e vêr l’altare sen sta un paramento.
Ed io vi udrò dolore:
a me dinnanzi la Vergin fanciulla,
Iddio mi scruta, e nel cuor sempre è il Nulla.
Sonetto
saffico con Caudo - La Pieve
Vi fu un dì ove io là andavo, a’ i boschi freschi,
e a’ vicìn campi, e in vêr una cascina,
e il mio cuor si bëàva in tra’ bei peschi
di rosea spina.
Lì, e lungi, un marmo con occhi donneschi
mi si splendea, e un’effigie fu divina.
A lei d’intorno stàvan arabeschi
di rosellina.
Allor giungevo a questo crocevia,
dove stanno i sentieri de’ il Gesiolo.
Lì pieve candida ammiravo, e pia
croce in su’ un piolo.
Sì che allor ligio e in tanta cortesia
pregavo gli Angioli inchinato al suolo.
Ma in preda a ignoto duolo
gemevo assorto una lode a Maria:
«Abbi pietà della miseria mia!».
Sonetto
saffico con Caudo - Un Fior di Papavero
Sempre andavo a un boschetto a mirar fiori
dove le querce ombreggiàvan gentili.
Là mi pascevo di flebili odori,
e di cortili.
Mi piacquero cotanto i bei colori -
e il verde, e il viola e il giallo, e l’erbe in fili -
i dolci campi, i pioppi, e i pruni mori
e i quieti asili.
Ma che più mi piaceva era quel stelo
che del papavero il petalo irrora,
e rosso e bello, sotto il bianco cielo
lo ammiro ancora:
mi sembrò una ridente dama, un velo,
un occhio rosso che ancor m’innamora.
Ma un rovo, ombra di mora
a lui vicino crescea e il soffocava,
e un venticel lo stame scompigliava.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Daniel Sherrin, Dopo una Tempesta, Tardo-Romanticismo anglosassone, Seconda Metà del XIX Secolo |
In Dì di
Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di
Grazia AD MMXVII. Revisione di mie Poesie composte nel febbraio dell’Anno
MMXIV.
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