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lunedì 5 settembre 2016

Sabato

Fu il falò, e si erse - ei di fiamme è il Titàno -
lungo i crinàl del cielo
per la soletta via
della chiesetta antica di Maria,
mentre d’intorno alle campagne un dì
io sedèa a contemplàr i pioppi e i pini,
in su’ i tetti i camini,
che facèvan un’ombra di inchiostro
sopra l’erbe del mosto,
un brìndis alla corte del vecchietto
domenicano che fu il monastero,
lontano il cimitero,
vicini i campi, i boschi e i ruscelletti
al cantare degli ùltimi augelletti,
laddove ignuda riposa l’Arbogna,
senza vergogna;
e venne il tempo di gettàr nel fuoco
i secchi rami dell’incolto prato.
Ma il guardo io volsi alla chiesetta mia,
e mentre mi suonò un’Ave Maria
pensai… sognai:
colsi la nudità di una fanciulla,
la Natura co’ il suo ventre e il suo seno,
e l’ìnguine fecondo e stagionale,
ciclo fatale
di Primavera e d’Autunno e d’Inverno,
un ghigno dell’Eterno,
oscena e incinta, e or pàllida e morente,
co’ un sguardo di bambina,
la Vita che alla Morte ne destina.
No! via da me, tu, oh spettro di erba e fiori,
malvagia, oscura, famèlica donna!
Lascia che al fuoco che scioglie le frasche
io preghi la Madonna!
E venne il tempo di tòglier dal fuoco
un àlito di cènere.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




In Dì di Lunedì V del Mese di Settembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

lunedì 26 gennaio 2015

Idillio romantico d'un Paesaggio del Nord

Al vento in Furie e gelido
d’un lito nordico
e al timido tramonto e al vespertino
etere d’inquietudine,
e al calle che nudrìa la quercia e ‘l pino,
e presso i pioppi e i frassini
avvolti in tenebre,
or implorando pièta
e al sòn dell’arpa
in un corvin mantel coverto stava
quei che qui ne cantava,
ed era mesto e affralito,
di pianto stridulo,
e fu un mìser Poëta,
in negra ciarpa.

Allor a un nembo pallido
di stral terribile -
perno d’un guardo d’un astro di guerra -
qui penando quest’anima
sovra gli sterpi dell’orrida terra,
e in tristi e folli spasimi -
singulti flebili -
scorgea - e nel ciel - la Luna
e scialba l’etra
che l’argento di questa or dischiudeva,
e i pensier ne scorreva
ei che sempre spasmavasi
in lagna orribile
nell’ansia Notte bruna
sur d’una pietra;

e all’orizzonte or cerulo
del vespro incognito
dove del giorno la brage moriva -
di ruscel lapislazzuli
gli astri che l’aura notturna assaliva -
e alle montagne in cenere,
oblio de’i valichi,
lo scarno ciglio ei volse,
e ‘l cupo vide
la lugubre ghirlanda or della sera
che docile e in preghiera
alle vette lagnàvasi
fragile e apatica,
ed ei oramai l’accolse
co’ vette infide.

Così seduto a un rigido
sasso d’un apice,
‘ve un monte s’estollea pe’i boschi oscuri,
e le cime gridavano
tra le bave de’i ghiacci e freddi e impuri,
e contemplando in tremiti
l’eterne grandini,
all’ime valli e a’ piani
i campi spogli
co’ un guardo e col cantar affisse, e scorse
gli aratori e s’accorse
che queti sen tornavano
a’ covi poveri
soffiando or sogni insani,
e lieti e cogli

istrumenti di fatica,
e i bovi languidi,
e i putridi covoni e l’erbe scialbe
e n’attendevano
annottando seren novelle l’albe;
ed ei tuttora in brividi
e in folle spasimo
a lor volgeva ‘l canto
e la lagnanza,
e giovin contemplava ‘l fero cielo,
pinto d’orror, di gelo
come un viandante debile
dal Fato misero,
e detergendo ‘l pianto
co’ una romanza,

e n’ammirava i nordici
torrenti e l’àlighe
l’ôr della Luna che stava alle cime,
e meditàvane
l’ore notturne d’istante sublime,
e vêr l’aure scandìnave
e i rivi fìnnici
spiegando ‘l ner mantello,
l’arpa n’alzava,
e i carmi alle Valchirie ne gemeva,
e lagnando fendeva
del meridione elvetico
in urla l’etere,
e intanto un veglio ostello
e in su’ mirava.

Era una roccia gotica,
or miserabile,
dagli astri or rimaneva or pinta e intrisa -
di Notte pallida -
pietra di guerra da’i prodi conquisa,
e quivi torreggiavano
pel tetro valico
i ponti e ‘l barbacane,
e la magione,
e i torrioni cadenti e i mur consunti,
come fosser defunti,
e falbi e tristi i ruderi
antichi d’attimi,
e l’orba corte e immane
in rocce prone,

e più cupo estendèvasi
al fianco torbido
tra’i sassi sepolcrali e i rei recinti
e i freddi tumuli
in sospiri lunari avvolti e avvinti,
e stando in tetri gemiti
colmo di spiriti
un truce monastero
or smorto e spento,
e dappresso le vie e gli altri sentieri
or de’i baldi Tempieri
a’ spenti e cupi nuvoli
atroce stàvasi,
marmoreo un cimitero,
fior del tormento.

Allor quest’uomo udìvane
i spiri orribili,
tra’i sassi ‘l vagolar di truci istorie,
e tosto abbrividìvasi
pell’antiche e feroci ed empie glorie,
e ascoltava le lagrime
qui lamentevoli
de’i scorsi rapimenti
e delle Messe,
e n’ammirava i torvi e insani preti -
l’avare e bieche seti -
e i spettri rei de’i Monaci
che s’aggiravano
vagando in torneamenti;
e più non resse,

e tra le scialbe roveri
e negri gli àceri,
e le betulle oscure e i salci e i pioppi,
e sempre spasimàndosi
nel sognar de’i crudeli e rei galoppi,
or funebre lagnàvasi
in sì durevoli
affanni e pene in core,
e ne spirava,
e alla destra sen stava in requie e stretta
l’arpa melliflua e diletta,
e al vento sibilàvane
in mesti pizzichi,
e un perenne dolore
or s’infuriava;

e la Notte regnava:
Notte di sangue, di teschi e di Sorte,
vampa lunare di guerra e di Morte!

E un spettro ne portava
nella gelida mano un teschio in spettro,
falba clamide insana, e cieco scettro,

e un lupo n’ululava
pel bosco che dormiva in truce requie,
un vespro che sonàva un’alta esequie.

Quest’è l’idillio lugubre
del Nord terribile
‘ve perfin le montagne
eterni sono spasimi,
perenni lagne;

e pell’ime campagne
tra’i Giganti de’i monti fuvvi orrore:
niuna spene pe’ nembi, e niun chiarore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XXVI Gennaio AD MMXV