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martedì 15 settembre 2015

La mia Terra in Autunno

Terra è assetata del cuor che è mio, e - fuori - e
all’orizzonte oscuro, e - ai nembi - oh! senti? - Oh
fango? - che è il pellegrino stormo? e - a che tu muori
nei sogni miei? - E tu, nido dei miei Sentimenti, e…

e mar della quiete mia - oh! - odi? - I venti
freddi s’infuriano, e - gli ultimi tuoi fiori - e
qui, e ora al mio sguardo - li strìngon. – Lenti
gli spettri delle brume e, - i lor tenebrori - e

le spente foglie s’alzano; e - a cori
di turbini ululanti - essi fan spaventi e
ai miei sensi - or dolenti, e - ai sopori
della Notte che viene. E or - le cere pallenti

dell’alba Luna - ahi! - vèngon presto a
illuminare: e - i boschi, e - i cascinali, e i
ruscelli, e - i campi. - E il tramonto - ah! - m’è mesto! - Oh…

Oh terra! - Oh terra, senza i Temporali
della perduta estate, e - suol! - funesto, - oh
terra mia, scorgo: i cieli e, - i maëstrali, e -

in grigiòr di Destino - i funerali
delle mie querce; e - al mattìn, quando mi desto,
nel ciel un’arpa, - rostri di immigranti ali. - Oh…

oh terre immortali!
Passeggio, e - ammiro: e cere senza fine
delle montagne, e - le nebbiose cascine, - e

i pioppi fatali, - e i
freddi mulini d’acqua, e - i monti sorgivi, e -
i tuoi, oh mio cuore, lontani e, - miei – clivi, e -

voi, oh cime sepolcrali:
amo - ahimè! - i vostri e melliflui vitigni, e -
Vate vostro son io, - un canto di cigni.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XV Settembre AD MMXV

domenica 13 settembre 2015

Introspezione delle prime Piogge di quest'Autunno

Era un trillo e - era un canto, e - erano l’onde
delle sentite piogge, e - dove il cuore
mio - oh cuor! - il vento udiva, l’iraconde
foglie strillàvan, e l’autunno e il fiore

mirai: l’uno appassìr e - l’altro e bionde
frasche dei campi gridàr. E il dolore
della perduta estate e vagabonde
rondinelle io lambivo e - era un pallore

per me quest’alba, e - erano ora infeconde
di sensi le ansie, e - le cure, e - èran l’ore  
d’un mattino interrotto, e sere immonde
si seguivano; e allora un sogno or muore.

Odo così il tintinnìo e l’acque urlare,
gelo perenne nel petto mio, e - inquieto
sonno, e perduto. E tu, oh cuore, e tu, oh mare

di Sentimenti, dove andate? E mieto
io forse l’oro di altri sogni? E il grano
scialbo di foglie? E - i monti? E tu, irrequieto,

Mostro, oh Orco, spasimante nel lontano
avvenire, perché mi maledici? E…
e l’ultimo speràr m’è sempre vano!

Sento le piogge cadèr, - le infelici e
tremule frasche a seguìrle, e - l’inverno
è forse giunto; e alle incerte pendìci e

ai monti dove stetti - e ora - m’è scherno
questa Tempesta, sublime d’Eterno!

E addio, a te, oh sogno, e - a te, pioggia che cadi
tuonando e - ricordando - la mia estate, e
a te, Titàno d’un monte, che invadi

intorno i campi, e - le spighe dorate - e
a te, fatale Destino, e - a voi, oh dadi!
E queste piogge fremono infuriate….

E son io il loro Vate;
tra molti sogni distrutti del cuore:
un sogno oscuro, e – desidèrio, e - Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XIII Settembre AD MMXV

sabato 12 settembre 2015

Pensiero di un Cuore inattuale

Non hai più, oh cuor, le concitate corti
dove potèr cantare! E
non hai più desidèri? E a che sognare? E
qui i volti assorti e

ombrosi e forti

delle nuvole in cielo, e i fiori morti
ti dissolvono. - Oh mare
d'ire e tempeste, eh! vuoi tu divorare
i miei, i miei accordi? E

i miei ricordi?

E le mie vene or stilleranno avare
foglie di pianto; - e i torti
e forse il Fato, oh cuoricino, e i fiordi -
li odi? - Oh tu, oh mare? Eh!

Vanno a gridare! Eh!

E forse sono questi i sogni muti
del tuo secreto vino,
oh cuore! E non senti? E son liuti? E

or la tua Poësia cade. - È il Destino! E
voi, miei sogni perduti,
ci siete? - E io inclino

all'ombre dello spino,
dove vanno le nebbie oscure e autunnali,
Anima morta nei ciel sepolcrali! E

addio, sogno, cui inchino,
di allegre danze, e aspetti di fanciulle,
e addio, betulle, e

e addio, a te, pellegrino
e sempre tetro e appassito, oh mio cuore,
trapassato da due urla e dall'Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XII Settembre AD MMXV

martedì 20 gennaio 2015

Le Canzoni-sonetto dell'Inverno

Gelide Immagini di Neve

Fiori e germogli e bocciòli di neve
all’erbe stanno, e a’ fieni
del campo che si dorme, e a’ monti ameni
i ghiacci, e lieve

di pallidi nevischi or sono pieni
i fonti, e ‘l ghiaccio greve
un ruscello ne copre e un’ansia pieve
d’aspri baleni,

e un cardo quel che scioglie ‘l gelo beve
in sul tramonto in speni,
e i nuvoli non son giammai sereni;
e così deve

nella Notte risplendere la Luna,
e gelido e difforme
tra’ l rivo e ‘l calle e del lupo la cuna

un freddo bosco dorme.
Ma alla tacita sera e tetra e bruna
vi son dell’orme;

e nivee sono forme
del cupo vento che infuria e che piagne
e funebre si va or pelle campagne.

Le Tinte dell’Inverno

Neve oscura e d’azzurro i cieli neri
tra’i boschi scorgo, e ‘l vento
invisibile scorre e in turbamento
va pe’i sentieri,

e l’affamato e scialbo e mesto armento
e in canti lusinghieri
indarno s’avvicina a’ bruni peri
e a un pruno spento;

e timida e in grigiore e a’ ghiacci altèri
la bruma or s’erge, e lento
uno spettro s’aggira e grida a stento
gemiti fieri.

Ma l’argento del Sole a’ nevi splende,
e ‘l glauco gelo immane
lentamente e gemendo e all’alba fende

le sue pallenti lane.
Eppure ‘l vespro or precoce s’attende -
e in luci insane;

e sònan le campane,
e pallida la selva or cade in sonno,
e meno oscure quest’ore non ponno.

La Miseria dell’Inverno

Or quando alle foreste i’ volgo ‘l passo
e l’orizzonte muto
sempre n’intendo, e ‘l ghiacciare temuto
ne copre ‘l sasso,

e quando alle betulle ‘l mesto liuto
al ghiaccio i’ accordo, e in lasso
fatto in nevi si scorre un reo salasso
da un pioppo acuto,

e qui ‘ve le riviere e ‘l rivo in basso
si tacciono, e perduto
un orno si lamenta e un sovvenuto
tremante tasso,

dell’invernal miseria omai m’accorgo,
e ‘l verno m’è una pena;
e la Morte d’intorno sol ne scorgo

dall’alba e in fin a cena.
Allora ritornando al mesto borgo
il ciel mi svena;

e un pensiero s’arena
che dappresso quest’ore e queste sere
un recordo mi dà di Primavere.

Immagini d’una Cascina in Inverno

Un rudere si giace e in sulla brina
d’intorno la risaja
infinita s’estende, e presso un’aïa
sen sta ferina.

Allora da lontano un cane abbaja,
e quei che s’avvicina
tristo ei n’avverte o al dolor lo destina
in voce gaja;

e un giorno qui ne fu un’orba cascina,
e or sol v’è pietra e gaja,
un funereo ondeggiar d’un’egra baja,
marea meschina,

e un mur cadente ‘l spaja:
tra’i licheni si giace or qui ‘l fienile,
tra l’erbe ormai selvagge ‘l pio cortile.

Così innevati e scialbi i suoi sentieri
attorno stanno e i boschi,
e alla corte ‘l passar de’i carrettieri,

e in ghiaccio i fanghi foschi.
Ma a’ muri negri e or consunti e altèri
e d’in su’i chioschi -

celere come i toschi -
or l’edera si cresce, e piove ‘l gelo
che di fiocchi compito or gronda ‘l cielo.

Immagini veriste del mio Paëse in un Meriggio d’Inverno

Passeggiando pe’i campi e pelle rive,
o Borgolavezzaro,
un pallido orizzonte or splende e caro,
e le giulive

ore e l’ombre invernali e ‘l ghiaccio amaro
van pel meriggio, e vive
un scialbo stral di Sole, e all’aure prive
ne sembra un faro.

Allor a’ rivi volgo e alle sorgive
fonti e al zampillar raro
a berne un dolce sorso mi preparo
all’acque dive.

Ma intorno desolate or le campagne
si stanno, e d’aspersorio
funebre le ghermiscon l’egre lagne

d’un corvo aleätorio,
e un spettro tra le nevi or tesse ragne
agitatorio.

Così nel stral ustorio
del fresco e scialbo Sole ‘l vespro attendo,
e ‘l ghiaccio alle foreste e ‘l gelo intendo.

Scherzo poetico - Attese di Primavera

Si giace pallida vêr l’arcolajo
una dama timida, e mesta spera
dinnanzi a un tremulo, pio focolajo
lieta nell’attender di Primavera.

Sembra sorridere. Forse la sera
quieta intende e a tessere un velo gajo
sen resta, e a spandere nel ciel la cera
or la Notte s’agita in negro sajo.

Frattanto nevica, si piove un lajo,
e la dama a tesserlo or vola, e altèra
la seta e l’òrdito ne fanno un pajo
di quest’aspri gemiti in falba schiera.

Ma regna sol gennajo,
e smorta e lugubre la dama geme,
e fors’anche esanime d’ogni speme.

Ella negl’incubi mira le viole,
i prati fioriscono e i boschi intorno,
e a’ calli splèndesi l’allegro Sole,

svelto va a rinascere e in fiore un orno;
e i gelsi e i frassini danzan carole,
siccòme si mormora un nuovo giorno.

Ma d’aspro verno ‘l corno
purtroppo ignobile sempre ne sente,
e quest’ore passano ormai più lente.

Così e dianzi al mio forno,
maniaci del cànone, plebaglia ria,
orsù, orbene ditemi: è o no Poësia?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XX Gennaio AD MMXV
 

mercoledì 19 novembre 2014

Canzoni-sonetto romantiche e sacre in Lode e Gloria dell'Avvento

Vespro d’una Notte di Novembre

Tra’ nembi l’orizzonte ormai s’oscura,
e la Notte vien presto,
e confuso s’annera ‘l sasso mesto
d’alpina altura.

Così in questo tramonto e al ciel funesto
con melliflua andatura
un bronzo si lamenta all’aura impura,
e ‘l sòn va lesto,

e nella pieve antica e veglia e pura
un salmodiante desto
al Signore ne volge l’anapesto
d’umana cura;

e novembre si piagne e in lamentanza
al santo tempio piove, e infuria ‘l vento,
e ‘l tintinnio dell’acqua che s’avanza
è ‘l suo lamento,

e in negra sagrestia e in pallida stanza
dal tetro muro pende un paramento,
e di porpora n’è la sua sembianza,
pallido e spento.

Tra le lugubri volte e i fiochi ceri
e all’are lagna un canto,
e de’ fedeli vanno i desideri

a Iddio che terge ‘l pianto,
e i sacri e dolci e santi e pii Misteri
or stanno al manto

di Lei che ‘l core affranto
da un acciaro trafitto n’ebbe un giorno
e di lagrime l’occhio ansioso e adorno.

Un Gemito d’Organo

Nel meriggio che muor lontan passeggio,
e vêr la piazza volgo,
e l’ombra d’una nube in me n’accolgo,
e ner la veggio,

e nel tetro tramonto ormai mi dolgo,
e in un dolce vaneggio -
dal tempio che del Ciel adora ‘l seggio -
freddo m’avvolgo,

e forse ch’è la Notte e mi amareggio,
in cor un senso colgo
di pièta che si lagna e ne raccolgo
un grido; e peggio

della sera medesma, un sòn ne sale
dal colonnato arcano
d’un organo che geme al maëstrale

d’un spiro gregoriano.
Allor mi par un pianto che in sull’ale
sen va lontano;

e ne strilla inumano
un legno che si lagna or sanguinario,
della Croce che piagne ‘l reliquario.

Il Tabernacolo

Nel vespro novembrile e oscuro e ossuto,
e al fiore tutelare
d’un stanco e ottenebrato e scialbo altare
mesto e perduto,

e ‘ve d’intorno stanno or altre l’are,
e all’ombra del penduto
legno d’un’ansia croce, e al cruor spremuto
e all’urne e a’ bare

dell’ostie sta la nicchia e in sòn d’un liuto
l’organo va a lagnare
al sagrifizio santo e al Cielo, un mare
che geme muto.

Il sacro drappo intorno or splende, e viola
mentre ne soffia ‘l vento,
soävemente canta e ne consola

annunziando l’Avvento,
e a’ melliflui frumenti ‘l vino cola,
sommo portento;

e ‘ve ‘l viver è spento -
ignudi gli orni, e i faggi e i rovi e i salci -
ne cantano festosi i santi tralci.

L’Annunziazione

Un dì - e forse al tramonto - a un crine bello
d’una giovin fanciulla
del vespro che scendeva in mezzo al nulla
parlò Israëllo,

e a un falbo sicomòro e a una betulla
e dianzi al suo capello,
avvolto di mador ne fu Gabriello,
e a un’arpa e in sulla

scala d’oro, e in su’un legno e in su’un sgabello -
pensier che mai s’annulla! -
la dama ei ne indicava e un’alba culla
di paglie e vello.

Alfin ei ne sclamava in sante flemme:
«Nel sen Iddio n’ha Vita,
e Vergine la Madre or qui a Betlemme

ne sarai; e ‘l Ciel t’invita!»;
ed Ella che ascoltava - al crin le gemme -
fu impallidita.

Scorgendola smarrita,
or l’Angiolo le sciolse ‘l cesio velo:
nell’estasi un brillar d’e(t)terno[1] Cielo!

A San Giuseppe

Un giorno mentre all’opra or n’eri assorto
un senso udisti in core,
e irrequieto passavi e i vespri e l’ore,
ed eri morto,

e in lagnanze gemevi e a’ forme more
della Notte, e in su’un porto
d’inquietudine andavi come in torto,
e di stupore

il sembiante n’avevi ormai distorto,
forse poiché d’Amore
un senso t’ispirava ‘l tuo Signore,
un lume accorto.

La Vergine n’amavi, e l’accogliesti
presso la tua dimora,
e padre del Divino - e in suol - ti festi,

di Lui che ognun adora,
e a Betlemme in festosi e dolci gesti
sorse l’aurora;

e stette al fianco allora
di te medesmo, oh saggio, oh pio ebanista,
in un bimbo Colui ch’è sommo Artista.

Ave Maria d’un Orizzonte notturno

Azzurro l’orizzonte si lenisce,
e sembra ‘l velo santo
che ‘l volto ti ricopre e ‘l ciglio affranto
che impallidisce.

Ave Maria!

Nella Notte declina e in tristo pianto,
e ‘l giorno ne svanisce,
e l’aëre s’annera e intorpidisce
come ‘l tuo manto.

Ave Maria!

Giunt’è ‘l tempo del lupo che ferisce
nel bosco in tetro canto,
e l’orizzonte mesto e negro e infranto
or ne languisce.

Ave Maria!

Nel novembre funesto v’è la Notte,
dell’oscuro ho paüra,
e Tu che a’ calli volgi e in sulle grotte

stella mi se’ secura,
e sorgono i demòni e vanno a frotte.
Aiutami, oh Pura!

Ave, oh Maria! Oh Natura
dell’uom che in mal si piagne, n’abbi pièta,
e l’alba nuova sia or celeste meta!

Il Dialogo delle Gargolle

Nella Notte e in su’un fior di cattedrale,
e al scialbo guardo e torvo della Luna,
e all’orizzonte negro e sepolcrale
dell’aura bruna

or stavan le gargolle e presso ‘l Male
interrogavan biechi la fortuna,
e in su’un nembo notturno, e reo e fatale
ordivan runa.

«Indarno la salmodia ormai si lagna!».
«L’organo è maledetto!».
«Il sacro altare e casto or n’è negletto!».
«È scialba ragna!».

«A Satàn aguzziamo ‘l nostro detto!».
«Un latrato di cagna!».
«Cittade inonda e tosto e la campagna!».
«Dolce diletto!».

«La torva Notte e antica c’è compagna!».
«Regna ‘l duolo… e ‘l sospetto!».
«Maledetto dal nostro - ‘l labbro schietto -
il Ciel che bagna!».

Ma all’alba prisca un canto ormai ne sale,
e prega un sacerdote,
e la gorgolla sta or cimiteriale,

le pietre sono immote,
e un stral di Sole a questa cattedrale
si ripercuote;

e le rocciose gote
de’i demòni si stanno taciturne,
dal Sommo Bene vinte e all’aure diurne!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Martedì XVIII, Mercoledì XIX Novembre AD MMXIV




[1]  Tra parentesi segnalo una variante dantesca del lessico in questione.