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mercoledì 19 novembre 2014

Canzoni-sonetto romantiche e sacre in Lode e Gloria dell'Avvento

Vespro d’una Notte di Novembre

Tra’ nembi l’orizzonte ormai s’oscura,
e la Notte vien presto,
e confuso s’annera ‘l sasso mesto
d’alpina altura.

Così in questo tramonto e al ciel funesto
con melliflua andatura
un bronzo si lamenta all’aura impura,
e ‘l sòn va lesto,

e nella pieve antica e veglia e pura
un salmodiante desto
al Signore ne volge l’anapesto
d’umana cura;

e novembre si piagne e in lamentanza
al santo tempio piove, e infuria ‘l vento,
e ‘l tintinnio dell’acqua che s’avanza
è ‘l suo lamento,

e in negra sagrestia e in pallida stanza
dal tetro muro pende un paramento,
e di porpora n’è la sua sembianza,
pallido e spento.

Tra le lugubri volte e i fiochi ceri
e all’are lagna un canto,
e de’ fedeli vanno i desideri

a Iddio che terge ‘l pianto,
e i sacri e dolci e santi e pii Misteri
or stanno al manto

di Lei che ‘l core affranto
da un acciaro trafitto n’ebbe un giorno
e di lagrime l’occhio ansioso e adorno.

Un Gemito d’Organo

Nel meriggio che muor lontan passeggio,
e vêr la piazza volgo,
e l’ombra d’una nube in me n’accolgo,
e ner la veggio,

e nel tetro tramonto ormai mi dolgo,
e in un dolce vaneggio -
dal tempio che del Ciel adora ‘l seggio -
freddo m’avvolgo,

e forse ch’è la Notte e mi amareggio,
in cor un senso colgo
di pièta che si lagna e ne raccolgo
un grido; e peggio

della sera medesma, un sòn ne sale
dal colonnato arcano
d’un organo che geme al maëstrale

d’un spiro gregoriano.
Allor mi par un pianto che in sull’ale
sen va lontano;

e ne strilla inumano
un legno che si lagna or sanguinario,
della Croce che piagne ‘l reliquario.

Il Tabernacolo

Nel vespro novembrile e oscuro e ossuto,
e al fiore tutelare
d’un stanco e ottenebrato e scialbo altare
mesto e perduto,

e ‘ve d’intorno stanno or altre l’are,
e all’ombra del penduto
legno d’un’ansia croce, e al cruor spremuto
e all’urne e a’ bare

dell’ostie sta la nicchia e in sòn d’un liuto
l’organo va a lagnare
al sagrifizio santo e al Cielo, un mare
che geme muto.

Il sacro drappo intorno or splende, e viola
mentre ne soffia ‘l vento,
soävemente canta e ne consola

annunziando l’Avvento,
e a’ melliflui frumenti ‘l vino cola,
sommo portento;

e ‘ve ‘l viver è spento -
ignudi gli orni, e i faggi e i rovi e i salci -
ne cantano festosi i santi tralci.

L’Annunziazione

Un dì - e forse al tramonto - a un crine bello
d’una giovin fanciulla
del vespro che scendeva in mezzo al nulla
parlò Israëllo,

e a un falbo sicomòro e a una betulla
e dianzi al suo capello,
avvolto di mador ne fu Gabriello,
e a un’arpa e in sulla

scala d’oro, e in su’un legno e in su’un sgabello -
pensier che mai s’annulla! -
la dama ei ne indicava e un’alba culla
di paglie e vello.

Alfin ei ne sclamava in sante flemme:
«Nel sen Iddio n’ha Vita,
e Vergine la Madre or qui a Betlemme

ne sarai; e ‘l Ciel t’invita!»;
ed Ella che ascoltava - al crin le gemme -
fu impallidita.

Scorgendola smarrita,
or l’Angiolo le sciolse ‘l cesio velo:
nell’estasi un brillar d’e(t)terno[1] Cielo!

A San Giuseppe

Un giorno mentre all’opra or n’eri assorto
un senso udisti in core,
e irrequieto passavi e i vespri e l’ore,
ed eri morto,

e in lagnanze gemevi e a’ forme more
della Notte, e in su’un porto
d’inquietudine andavi come in torto,
e di stupore

il sembiante n’avevi ormai distorto,
forse poiché d’Amore
un senso t’ispirava ‘l tuo Signore,
un lume accorto.

La Vergine n’amavi, e l’accogliesti
presso la tua dimora,
e padre del Divino - e in suol - ti festi,

di Lui che ognun adora,
e a Betlemme in festosi e dolci gesti
sorse l’aurora;

e stette al fianco allora
di te medesmo, oh saggio, oh pio ebanista,
in un bimbo Colui ch’è sommo Artista.

Ave Maria d’un Orizzonte notturno

Azzurro l’orizzonte si lenisce,
e sembra ‘l velo santo
che ‘l volto ti ricopre e ‘l ciglio affranto
che impallidisce.

Ave Maria!

Nella Notte declina e in tristo pianto,
e ‘l giorno ne svanisce,
e l’aëre s’annera e intorpidisce
come ‘l tuo manto.

Ave Maria!

Giunt’è ‘l tempo del lupo che ferisce
nel bosco in tetro canto,
e l’orizzonte mesto e negro e infranto
or ne languisce.

Ave Maria!

Nel novembre funesto v’è la Notte,
dell’oscuro ho paüra,
e Tu che a’ calli volgi e in sulle grotte

stella mi se’ secura,
e sorgono i demòni e vanno a frotte.
Aiutami, oh Pura!

Ave, oh Maria! Oh Natura
dell’uom che in mal si piagne, n’abbi pièta,
e l’alba nuova sia or celeste meta!

Il Dialogo delle Gargolle

Nella Notte e in su’un fior di cattedrale,
e al scialbo guardo e torvo della Luna,
e all’orizzonte negro e sepolcrale
dell’aura bruna

or stavan le gargolle e presso ‘l Male
interrogavan biechi la fortuna,
e in su’un nembo notturno, e reo e fatale
ordivan runa.

«Indarno la salmodia ormai si lagna!».
«L’organo è maledetto!».
«Il sacro altare e casto or n’è negletto!».
«È scialba ragna!».

«A Satàn aguzziamo ‘l nostro detto!».
«Un latrato di cagna!».
«Cittade inonda e tosto e la campagna!».
«Dolce diletto!».

«La torva Notte e antica c’è compagna!».
«Regna ‘l duolo… e ‘l sospetto!».
«Maledetto dal nostro - ‘l labbro schietto -
il Ciel che bagna!».

Ma all’alba prisca un canto ormai ne sale,
e prega un sacerdote,
e la gorgolla sta or cimiteriale,

le pietre sono immote,
e un stral di Sole a questa cattedrale
si ripercuote;

e le rocciose gote
de’i demòni si stanno taciturne,
dal Sommo Bene vinte e all’aure diurne!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Martedì XVIII, Mercoledì XIX Novembre AD MMXIV




[1]  Tra parentesi segnalo una variante dantesca del lessico in questione.

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