I Sonetti di
Novembre
L’Alba
Il campanil si geme, e all’aër vola
l’urlo della campana, e i suoi rintocchi
annunziano spettral che vien la scola,
e trista or l’alba sorge e cupa d’occhi;
e così in sul grigior la brina cola
del ciel che scialbo albeggia, e scende a fiocchi
l’assiderata goccia che consòla
i boschi ignudi e i rami, e i fior e i ciocchi.
Ma lentamente muore or l’ansia Notte,
e l’orizzonte scialbo ancor s’annera,
e vanamente splende e a’ rivi e a’ grotte
un fresco stral di Sole; e all’aura fiera
or quasi in lenimento l’orbe motte
si ridestano torve e in bieca cera.
Debilmente s’avvera
a’ villaggi e alle selve e a’ campi intorno
il tanto atteso albor del novo giorno.
Presto mi ridestai, e all’alba io scrutava,
e al tetro ciel, e al vento novembrile,
e dolcemente ‘l guardo si posava
all’erba che sorgea or presso ‘l fienile,
e lì la bianca brina io ne gustava
in sul stelo smeraldo e sì sottile,
e l’alba nova e fredda ‘l lagrimava
da un occhio che nel Sol era febbrile;
e così mi parea che fosse argento,
o un bacio che la Luna avea improntato,
e queste condensate gocce a stento
si scioglievano meste, e all’irrorato
del mattino lo stral un Sentimento
m’ispiravano dolci e al cor placato,
e al sembiante dorato
delle paglie raccolte ‘l ciel pioveva,
e lentamente allora le scioglieva.
Un Bosco
Nel grigiore del ciel quest’arboscelli
tinti di ner sen stanno e di paüra,
e scheletri ne sono, e ormai gli augelli
ne soffrono ‘l rigor della Natura.
Qui riposano i tetri sanguinelli,
e le farnie e le querce a un’ombra oscura,
e lì i nocciòli, e i noci, e i faggi e i velli
de’i selvatici pioppi, e l’aura impura.
D’in sulle chiome cade un’aspra foglia,
e l’ultima è fors’anche di stagione,
e tinta d’ocra giace e pien di doglia
e a terra le sue vene ne son prone,
e pur d’una cascina in sulla soglia
quest’autunnale vento ancor s’oppone.
Allora è una canzone
quel singhiozzo che lagno e poscia canto,
e in su’ un sepolcro ignoto, or verso ‘l pianto.
Il Cimitero
Nel tramonto s’albeggia un cimitero,
e splendono a’ sepolcri i lumicini,
e l’orizzonte giace e scialbo e nero,
e i nugoli ne son orbi e ferini.
A’ morti un cippo giace lusinghiero,
e riposano e i vegli e i pargolini,
e ancor più d’un sepolcro or stàssi[1]
altèro
senza un nome su iscritto. Oh rei Destini!
Pendono or dalle croci le ghirlande,
e la
Notte ne bacia i freddi fiori,
e la
Luna che or v’è in su’ queste lande
allumina dell’ossa i tetri umori;
e la tenebra ansiosa or più s’espande,
e allor regnano quivi e cure e orrori.
Oh vespro di dolori!
Queste tombe fatali or tu conforti,
e ‘l sonno e i sogni culli ormai de’i morti!
Il Passero
affamato
Nel meriggio or n’ascolto un cinguettio,
e da una quercia vola un pettirosso.
D’un ramoscel che cade è un tintinnio
che tanto in petto ‘l cor mi fa commosso.
Oh povero n’hai fame, e cerchi - oh Dio! -
i bricioli del pane, e in riva a un fosso
a una finestra ‘l chiedi, e ‘l guardo mio
si posa al tuo piumato or corpo d’osso.
Prendi! Il pan che ti dono al nido or porta,
e i tuoi piccoli, va, forza… disfama,
e la tua spene ancora non è morta
e diman altro pan qui vieni e chiama!....
Così col pane in bocca e l’ala or storta
questo passero vola e si dirama;
e alla nidiata che ama
nel cavo tronco e senza ‘l suo fogliame
de’i figlioletti placa or l’aspra fame.
In sul far del tramonto or sempre piove,
e pur alle quattr’ore[2] ‘l
ciel s’oscura,
e la pioggia che scende io veggo dove
alla finestra vienmi un’ansia cura.
Quest’acqua fredda bagna e tetti e alcòve,
e di codesto pianto la Natura
febbrilmente si tace e si commòve
nell’autunnale e cupa e rea jättura.
La fresca goccia cola or lungo ‘l vetro -
onde la scorgo in ansie - e scende e geme,
e un stral di fioca Luna ‘l bacia al tetro
vespro, e la
Notte viene e non ho speme;
e rimembro ‘l profluvio che un dì addietro
m’avea terrorizzato; e ‘l core teme
che sia alle piogge insieme
diman ne’ cieli grigi e schietti e grevi
or un fiocco primiero d’albe nevi.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Martedì XXV Novembre AD MMXIV
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