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martedì 11 novembre 2014

La Ballata d'un Viandante vagante nell'Inquietudine (Parte IV)

Parte IV - Il Viandante principia la sua Istoria

Orben una volta che ebbe finito di pregare alla Vergine, ognuno si alzò e ritornò a sedere al proprio tavolo, onde per molti istanti dovette anche succedersi un rispettoso e ligio e altrettanto profondo e incrollabile silenzio. Insomma, pareva che la preghiera serotina del vespro si fosse protratta in questa taverna, e che alla sua fine, forse per il sonno che già incominciava a serpeggiare o forse meramente per rispetto del Cielo, vi fosse stato il dovere di rimanere alquanto taciturni, ove invece sarebbe stato ben più naturale proseguire co’ soliti discorsi e i sorridenti pettegolezzi; e per questo perfin i bestemmiatori e gli ebbri non sen stavano più a gridare, anzi, sibilavano fiocamente le loro invettive alla terra e ai celesti. Ora, e sempre col labbro muto e con un fare che sapeva di un non so che di stordito e di estasiato insieme, l’oste si incamminava verso il caminetto e osservato che la legna che ardeva stava per esser ridotta quasi tutta in cenere, prese degli altri rami, quasi de’ tronchi, e li metteva nel foco, onde lievemente il fumo che saliva verso l’alto se n’andò in parte anche ai tavoli, inondandoli così dell’acre ma altrettanto piacevole odore del legno che bruciava; e nel frattempo, il giovine viandante che ancora non ebbe palesato completamente il volto, si sciolse il cappuccio e si tolse quel suo mantello pittoresco che immantinente posò sulla sedia. Allora n’apparve un fanciullo che a guardarlo non poteva avere più di vent’anni e che tra l’altre cose, dinnanzi allo stupore e alla meraviglia di tutti, vestiva elegantemente come uno di quei nobiluomini che raramente si potevano scorgere pelle vie delle cittadelle vicine e che a volte si figuravano soltanto. Inoltre, costui portava appunto una lunga spada al fianco la cui guina era riccamente adornata di belle incisioni, e per questo non sembrava più un rozzo e semplice vagabondo, bensì un gran signore. Purtuttavia gli rimaneva impressa nel volto quella folle, istrana e arcana inquietudine che ognuno gli poteva contemplare e che suscitava il domandar dei curiosi e dei pettegoli; ed egli non riusciva affatto a tramutarsi in una presenza più quieta e sorridente, e adesso sen stava immobile, fermo… taciturno più della notte medesima, e il suo sguardo sembrava ancora più estraniato e assente, avvolto in qualche sua insana cura, allontanato nel regno di pensieri indefiniti, come se stesse sognando nella veglia, o semplicemente, come se non volesse dare un responso a coloro che lo interrogavano, pur aumentandone smisuratamente la curiosità.
Del resto a chiunque stava in questa taverna questo viandante non poteva che suscitare tanti e innumerevoli interrogativi, e non poteva nemmanco passare per così dire inosservato, né evitare di essere un soggetto per i curiosi. Ora, innanzitutto, era la sua eleganza nel vestire che lasciava una traccia di perplessità, e anche per questo il fatto che le sue vesti non erano molto impolverate - tra l’altre cose - lasciava presagire che costui si fosse da poco messo sulla via dell’eterno peregrinare. Indubbiamente egli doveva essere un signore, un nobiluomo, e la sua spada pareva cavalleresca, un perno di giustizia e d’onore; e il portamento di questo giovine era comunque fiero, e faceva spesso smascherare una certa nobiltà sia d’animo, sia di sangue. Adesso, però, l’oste gli ritornava di fianco, si sedette novellamente e gli chiese:

«E quivi voi ne siete ormai da quanto?»,
e ‘l viandante rispose: «In sulla sera.
Ne giunsi vagolando e avvolto in manto
or mentre ne sonava la preghiera.

Un soäve tramonto in ciel sorgeva,
e io ne scendea da un calle e ombroso e nero,
e l’autunno d’intorno e in lai fremeva
su un cespo che non so se pruno o pero;
e presso queste fronde ‘l cimitero
nel mador della Luna impallidiva,
e la Notte feroce or l’assaliva,
di guardo oscura e rea e torva di cera»;

e più d’un bevitore a lui d’accanto
singhiozzando diceva e in voce altèra:
«Ne giunse vagolando e avvolto in manto
or mentre ne sonava la preghiera».

«Ne contemplava io assorto ‘l pio recinto
che alle tombe irrequiete s’inoltrava»
ora ‘l giovine disse: «E n’ero pinto
del vespro» e si taceva, e seguitava:

«I legni delle croci e i crisantemi
sen stavano soffrenti, e in sulla brina
d’ermo infame cosparsa e d’anatemi
la tomba fu crudel d’una bambina,
e una fossa sen stava e al ciel meschina
l’ossa e ‘l cenere strinse e i muti teschi,
e gli avelli e le pievi n’eran freschi,
e lungi un torvo lupo or n’ululava;

e a’ biechi lutti e a’ pianti n’ero avvinto
sicché pur l’occhio mio si lagrimava».
Così ‘l giovine disse e n’era pinto
del vespro, e si taceva, e seguitava:

«Io ne scorgea gli spettri e l’ansie impure,
e febbrilmente io andava in cieco orrore,
e in me terribilmente l’orbe cure
del peregrìn ne fûr, e pur d’Amore.

Allor n’andai ben oltre, e in sulla chiesa,
e i cantici io n’udiva e l’orazioni,
e di preghiere v’era e santa intesa
di sacri detti e sommi e di canzoni;
e nel core ne sentìa or lamentazioni,
e via irrequieto andavo e pel paëse,
e alfin questa taverna or fu palese,
e in tempo io qui n’entrava del liquore».

Alfin queste lagnanze or sepper dure,
e ciaschedun l’udiva e con stupore:
«In lui terribilmente l’orbe cure
del peregrìn ne fûr, e pur d’Amore».

«Così in questa taverna io seggo e piagno»
ei ne disse: «E ne canto ‘l mio Destino.
Orsù! Ascoltate, e tosto!.... A voi mi lagno,
e inquieto sono e folle e pur meschino.

Eternamente in fuga or qui mi poso,
e dirà ‘l labbro mio ogni suo mistero,
e testimòn vi sia quel lagrimoso
sogghigno che m’affligge e ansioso e altèro»;
e così in tra’i bicchieri e ‘l vino nero
ognun della taverna or l’ascoltava,
ed ei cantando allor si lamentava,
perennemente in ansie e peregrino.

«Perdonatemi» ei disse: «s’io ne bagno
col pianto afflitto ‘l tavolo e ‘l buon tino.
Orsù! Ascoltate, e tosto!.... A voi mi lagno,
e inquieto sono e folle e pur meschino.

Queste lagrime, infatti, a questa soglia
lamentanze ne son di strazio e Amore.
Oh Sentimento incauto d’empia doglia
che atrocemente uccide un mesto core!»;

e la locanda or stava e attenta e lieta,
e ‘l viandante ansimava e al muro e al vetro,
e la sua voce n’era e ansante e inquieta
come un vento tombal d’in su’ un ferètro;
ed ei in memorie andava or anni addietro,
e mentre al ciglio ombroso ne gemeva
la ricordanza antica ne schiudeva,
e fuori ‘l cielo fu immerso e in grigiore.

Or come un’alba e secca e falba foglia
un lume fioco urlava e in van madore.
Oh Sentimento incauto d’empia doglia
che atrocemente uccide un mesto core!

Ma giunto a pronunziar codeste parole che sembravano essere più che altro come un preludio a un indefinito madrigale, il miserabile viandante si tacque ancora e novellamente per un lungo istante, e lievemente si stava arrossendo in viso; e questo non accadeva di certo per via del vino che in effetti se pur leggermente ei aveva gustato, bensì unicamente in grazie alla vergogna che il suo racconto e la sua memoria istessa ridestavano in lui. Purtuttavia ei non aveva più una scelta, poiché da una parte si decise di rivelare le sue pene ai curiosi di questo singolar villaggio, e dall’altro lato, ormai, in questa taverna serpeggiava così tanta curiosità che non si poteva più tornare indietro e avvolgersi nel silenzio.

«Ebben, messer, che dite?» or gli chiedeva
l’oste che al fianco stava e: «Nulla… nulla!
Inquietando mi stavo» ne diceva
il giovine che aggiunse: «Una fanciulla!....

Or quando la rimembro» or ne gemeva:
«un pianto insano n’odo e in core e in sulla
membranza che si soffre» ei ormai fremeva
or come al vento in cielo una betulla:

«E a questo insan pensiero mi s’annulla
questo cor che gemendo ognor si lagna,
e nel pianto che scende e che mi bagna»

e colla destra al petto ne premeva,
e inquietando si stava, e ne diceva
il giovine che aggiunse: «Una fanciulla!»;

e a questi novelli detti ognun de’i bevitori e de’i giuocatori, e l’oste e l’ostessa erano ancora più curiosi di quanto lo fossero stati in precedenza, e avrebbero assolutamente voluto che il giovine viandante avesse continuato la sua ricordanza. Ma quest’ultimo, purtroppo, si immerse in un altro e fitto silenzio; e poiché passavano ulteriori e lunghi attimi ormai sembrava che ei non avrebbe detto più niente e che se avesse mosso il labbro, sicuramente avrebbe fatto in modo di cangiar d’argomento e di stornare in questo modo l’impegno di narrare le sue sventure. Eppure in cor suo avrebbe voluto volentieri continuare la sua narrazione e superare così il timore istesso che da questa ne derivava. Allora, poscia quest’altri istanti di silenzio, si fece novellamente coraggio, si rivolse di nuovo con i suoi occhi misteriosi al suo pubblico e narrava:

«Un dì anch’io - anch’io! - che gemo innamorato,
ahimè, ne fui e felice in cor ridevo,
e allegro e lieto e in gaudio e consolato
la giovinezza e ‘l viver ne godevo.

Lontan ne fui per molto or da mie terre,
e dall’Oriente d’oro un dì io tornava,
e poscia aver mirato e furti e guerre
una dolce fanciulla io n’incontrava».
Ma l’oste: «Voi in Oriente?» or domandava.
«Certo! La scolta fui» or disse ‘l viandante:
«In arme sacre e invitte a un mercatante,
e in tra’ pugne e deserti io ne vivevo.

A’ feudi miei io riedeva, e un giglio ambrato,
e docile e donnesco ne scorgevo,
e allegro e lieto e in guadio e consolato
la giovinezza e ‘l viver ne godevo».

«Ma aspettate, oh messere; e or ben narrate
di vostre imprese sacre in sugli Osmani!»
sclamavan de’ pastori: «E raccontate
pria che d’Amor, d’acciari in sulle mani!»;

e al giovine che ancor in ansia tacque
ora che i detti udiva di costoro
di raccontar d’Oriente ben si piacque,
e consolato e quieto or disse loro:
«Ben pria d’Amor vi parlo e d’ermi e d’oro,
e del Tataro vil che in sulla Seta
di furti, e inganni e pugne si disseta,
e d’infami e feroci e rei sovrani»;

e l’oste ancor sclamava: «Sì, parlateci,
oh giovin, d’ermi e suoli e re lontani»,
e dissêr de’ pastori: «E raccontate
pria che d’Amor, d’acciari in sulle mani!».

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