Parte IV - Il Viandante principia la sua
Istoria
Orben
una volta che ebbe finito di pregare alla Vergine, ognuno si alzò e ritornò a
sedere al proprio tavolo, onde per molti istanti dovette anche succedersi un
rispettoso e ligio e altrettanto profondo e incrollabile silenzio. Insomma,
pareva che la preghiera serotina del vespro si fosse protratta in questa
taverna, e che alla sua fine, forse per il sonno che già incominciava a
serpeggiare o forse meramente per rispetto del Cielo, vi fosse stato il dovere
di rimanere alquanto taciturni, ove invece sarebbe stato ben più naturale
proseguire co’ soliti discorsi e i sorridenti pettegolezzi; e per questo perfin
i bestemmiatori e gli ebbri non sen stavano più a gridare, anzi, sibilavano
fiocamente le loro invettive alla terra e ai celesti. Ora, e sempre col labbro
muto e con un fare che sapeva di un non so che di stordito e di estasiato
insieme, l’oste si incamminava verso il caminetto e osservato che la legna che
ardeva stava per esser ridotta quasi tutta in cenere, prese degli altri rami,
quasi de’ tronchi, e li metteva nel foco, onde lievemente il fumo che saliva
verso l’alto se n’andò in parte anche ai tavoli, inondandoli così dell’acre ma
altrettanto piacevole odore del legno che bruciava; e nel frattempo, il giovine
viandante che ancora non ebbe palesato completamente il volto, si sciolse il
cappuccio e si tolse quel suo mantello pittoresco che immantinente posò sulla
sedia. Allora n’apparve un fanciullo che a guardarlo non poteva avere più di
vent’anni e che tra l’altre cose, dinnanzi allo stupore e alla meraviglia di
tutti, vestiva elegantemente come uno di quei nobiluomini che raramente si
potevano scorgere pelle vie delle cittadelle vicine e che a volte si figuravano
soltanto. Inoltre, costui portava appunto una lunga spada al fianco la cui
guina era riccamente adornata di belle incisioni, e per questo non sembrava più
un rozzo e semplice vagabondo, bensì un gran signore. Purtuttavia gli rimaneva
impressa nel volto quella folle, istrana e arcana inquietudine che ognuno gli
poteva contemplare e che suscitava il domandar dei curiosi e dei pettegoli; ed
egli non riusciva affatto a tramutarsi in una presenza più quieta e sorridente,
e adesso sen stava immobile, fermo… taciturno più della notte medesima, e il
suo sguardo sembrava ancora più estraniato e assente, avvolto in qualche sua
insana cura, allontanato nel regno di pensieri indefiniti, come se stesse
sognando nella veglia, o semplicemente, come se non volesse dare un responso a
coloro che lo interrogavano, pur aumentandone smisuratamente la curiosità.
Del
resto a chiunque stava in questa taverna questo viandante non poteva che
suscitare tanti e innumerevoli interrogativi, e non poteva nemmanco passare per
così dire inosservato, né evitare di essere un soggetto per i curiosi. Ora,
innanzitutto, era la sua eleganza nel vestire che lasciava una traccia di
perplessità, e anche per questo il fatto che le sue vesti non erano molto
impolverate - tra l’altre cose - lasciava presagire che costui si fosse da poco
messo sulla via dell’eterno peregrinare. Indubbiamente egli doveva essere un
signore, un nobiluomo, e la sua spada pareva cavalleresca, un perno di
giustizia e d’onore; e il portamento di questo giovine era comunque fiero, e
faceva spesso smascherare una certa nobiltà sia d’animo, sia di sangue. Adesso,
però, l’oste gli ritornava di fianco, si sedette novellamente e gli chiese:
«E
quivi voi ne siete ormai da quanto?»,
e
‘l viandante rispose: «In sulla sera.
Ne
giunsi vagolando e avvolto in manto
or
mentre ne sonava la preghiera.
Un
soäve tramonto in ciel sorgeva,
e
io ne scendea da un calle e ombroso e nero,
e
l’autunno d’intorno e in lai fremeva
su
un cespo che non so se pruno o pero;
e
presso queste fronde ‘l cimitero
nel
mador della Luna impallidiva,
e la Notte feroce or l’assaliva,
di
guardo oscura e rea e torva di cera»;
e
più d’un bevitore a lui d’accanto
singhiozzando
diceva e in voce altèra:
«Ne
giunse vagolando e avvolto in manto
or
mentre ne sonava la preghiera».
«Ne
contemplava io assorto ‘l pio recinto
che
alle tombe irrequiete s’inoltrava»
ora
‘l giovine disse: «E n’ero pinto
del
vespro» e si taceva, e seguitava:
«I
legni delle croci e i crisantemi
sen
stavano soffrenti, e in sulla brina
d’ermo
infame cosparsa e d’anatemi
la
tomba fu crudel d’una bambina,
e
una fossa sen stava e al ciel meschina
l’ossa
e ‘l cenere strinse e i muti teschi,
e
gli avelli e le pievi n’eran freschi,
e
lungi un torvo lupo or n’ululava;
e
a’ biechi lutti e a’ pianti n’ero avvinto
sicché
pur l’occhio mio si lagrimava».
Così
‘l giovine disse e n’era pinto
del
vespro, e si taceva, e seguitava:
«Io
ne scorgea gli spettri e l’ansie impure,
e
febbrilmente io andava in cieco orrore,
e
in me terribilmente l’orbe cure
del
peregrìn ne fûr, e pur d’Amore.
Allor
n’andai ben oltre, e in sulla chiesa,
e
i cantici io n’udiva e l’orazioni,
e
di preghiere v’era e santa intesa
di
sacri detti e sommi e di canzoni;
e
nel core ne sentìa or lamentazioni,
e
via irrequieto andavo e pel paëse,
e
alfin questa taverna or fu palese,
e
in tempo io qui n’entrava del liquore».
Alfin
queste lagnanze or sepper dure,
e
ciaschedun l’udiva e con stupore:
«In
lui terribilmente l’orbe cure
del
peregrìn ne fûr, e pur d’Amore».
«Così
in questa taverna io seggo e piagno»
ei
ne disse: «E ne canto ‘l mio Destino.
Orsù!
Ascoltate, e tosto!.... A voi mi lagno,
e
inquieto sono e folle e pur meschino.
Eternamente
in fuga or qui mi poso,
e
dirà ‘l labbro mio ogni suo mistero,
e
testimòn vi sia quel lagrimoso
sogghigno
che m’affligge e ansioso e altèro»;
e
così in tra’i bicchieri e ‘l vino nero
ognun
della taverna or l’ascoltava,
ed
ei cantando allor si lamentava,
perennemente
in ansie e peregrino.
«Perdonatemi»
ei disse: «s’io ne bagno
col
pianto afflitto ‘l tavolo e ‘l buon tino.
Orsù!
Ascoltate, e tosto!.... A voi mi lagno,
e
inquieto sono e folle e pur meschino.
Queste
lagrime, infatti, a questa soglia
lamentanze
ne son di strazio e Amore.
Oh
Sentimento incauto d’empia doglia
che
atrocemente uccide un mesto core!»;
e
la locanda or stava e attenta e lieta,
e
‘l viandante ansimava e al muro e al vetro,
e
la sua voce n’era e ansante e inquieta
come
un vento tombal d’in su’ un ferètro;
ed
ei in memorie andava or anni addietro,
e
mentre al ciglio ombroso ne gemeva
la
ricordanza antica ne schiudeva,
e
fuori ‘l cielo fu immerso e in grigiore.
Or
come un’alba e secca e falba foglia
un
lume fioco urlava e in van madore.
Oh
Sentimento incauto d’empia doglia
che
atrocemente uccide un mesto core!
Ma
giunto a pronunziar codeste parole che sembravano essere più che altro come un
preludio a un indefinito madrigale, il miserabile viandante si tacque ancora e
novellamente per un lungo istante, e lievemente si stava arrossendo in viso; e
questo non accadeva di certo per via del vino che in effetti se pur leggermente
ei aveva gustato, bensì unicamente in grazie alla vergogna che il suo racconto
e la sua memoria istessa ridestavano in lui. Purtuttavia ei non aveva più una
scelta, poiché da una parte si decise di rivelare le sue pene ai curiosi di
questo singolar villaggio, e dall’altro lato, ormai, in questa taverna
serpeggiava così tanta curiosità che non si poteva più tornare indietro e
avvolgersi nel silenzio.
«Ebben,
messer, che dite?» or gli chiedeva
l’oste
che al fianco stava e: «Nulla… nulla!
Inquietando
mi stavo» ne diceva
il
giovine che aggiunse: «Una fanciulla!....
Or
quando la rimembro» or ne gemeva:
«un
pianto insano n’odo e in core e in sulla
membranza
che si soffre» ei ormai fremeva
or
come al vento in cielo una betulla:
«E
a questo insan pensiero mi s’annulla
questo
cor che gemendo ognor si lagna,
e
nel pianto che scende e che mi bagna»
e
colla destra al petto ne premeva,
e
inquietando si stava, e ne diceva
il
giovine che aggiunse: «Una fanciulla!»;
e
a questi novelli detti ognun de’i bevitori e de’i giuocatori, e l’oste e
l’ostessa erano ancora più curiosi di quanto lo fossero stati in precedenza, e
avrebbero assolutamente voluto che il giovine viandante avesse continuato la
sua ricordanza. Ma quest’ultimo, purtroppo, si immerse in un altro e fitto
silenzio; e poiché passavano ulteriori e lunghi attimi ormai sembrava che ei
non avrebbe detto più niente e che se avesse mosso il labbro, sicuramente
avrebbe fatto in modo di cangiar d’argomento e di stornare in questo modo
l’impegno di narrare le sue sventure. Eppure in cor suo avrebbe voluto volentieri
continuare la sua narrazione e superare così il timore istesso che da questa ne
derivava. Allora, poscia quest’altri istanti di silenzio, si fece novellamente
coraggio, si rivolse di nuovo con i suoi occhi misteriosi al suo pubblico e
narrava:
«Un
dì anch’io - anch’io! - che gemo innamorato,
ahimè,
ne fui e felice in cor ridevo,
e
allegro e lieto e in gaudio e consolato
la
giovinezza e ‘l viver ne godevo.
Lontan
ne fui per molto or da mie terre,
e
dall’Oriente d’oro un dì io tornava,
e
poscia aver mirato e furti e guerre
una
dolce fanciulla io n’incontrava».
Ma
l’oste: «Voi in Oriente?» or domandava.
«Certo!
La scolta fui» or disse ‘l viandante:
«In
arme sacre e invitte a un mercatante,
e
in tra’ pugne e deserti io ne vivevo.
A’
feudi miei io riedeva, e un giglio ambrato,
e
docile e donnesco ne scorgevo,
e
allegro e lieto e in guadio e consolato
la
giovinezza e ‘l viver ne godevo».
«Ma
aspettate, oh messere; e or ben narrate
di
vostre imprese sacre in sugli Osmani!»
sclamavan
de’ pastori: «E raccontate
pria
che d’Amor, d’acciari in sulle mani!»;
e
al giovine che ancor in ansia tacque
ora
che i detti udiva di costoro
di
raccontar d’Oriente ben si piacque,
e
consolato e quieto or disse loro:
«Ben
pria d’Amor vi parlo e d’ermi e d’oro,
e
del Tataro vil che in sulla Seta
di
furti, e inganni e pugne si disseta,
e
d’infami e feroci e rei sovrani»;
e
l’oste ancor sclamava: «Sì, parlateci,
oh
giovin, d’ermi e suoli e re lontani»,
e
dissêr de’ pastori: «E raccontate
pria
che d’Amor, d’acciari in sulle mani!».
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