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martedì 15 marzo 2022

Sonetto - Oh Ombra.. supplicata Ombra.. Ombra piccina

I. Oh ombra.. supplicata ombra.. ombra piccina

di un ramo: oggi è forse la Primavera?...

Te lo chiedo perché vedo una spina

che accompagna una rosa un po’ leggera..

 

un fiore, e vedo una donna divina

rifiorir di mandorli.. e odo la sera

che cinguetta: la rondine vicina;

e te lo chiedo perché.. è una preghiera..

 

la preghiera di un’Anima meschina

che sogna.. e sogna e poi sognando spera.

 

Ombra di un ramo piccolo e indifeso

lungo la mäestà del verno stanco,

lungo le pietre del vecchio fienile..

 

ombra dal corpo leggero.. sospeso!...

Già ti delibo, fiorellino bianco,

in un sogno che vola e chiama aprile.

 

II. Oh mia ombra! Questi sono gli occhi rosa

della Natura che si sveglia e gira,

i persici fioriti per la sposa

che attende i biancospini e che sospira,

 

i Soli della leggiadra mimosa,

il primo stormo.. lo stormo che vira..

e che dice: “Sei mia, terra gioiosa!...

Sì!.. sarai sempre mia, sotto la pira

 

del Sole che m’allumina e s’aggira.

Mia, dopo l’Africa, erma e silenziosa!”.

 

Anch’io lo dico: siete miei, amati occhi,

rosei d’aurore invitte.. rosei di ombre

soleggiate, irradiate sopra il Nulla

 

dell’inverno.. siete miei, piccoli fiocchi,

bianchi come ora sono le colombe,

come i sorrisi della mia Fanciulla.

 

III. Ombra! Ora per la prima volta sento

quasi che sono vivo e sono umano

e sono dentro il Mistero del vento

che mi trascina in un Sogno lontano,

 

e in te mi specchio e vo intorno e vo lento,

tenendoti ben stretta nella mano,

Natura e atòmo avvinti, è il torneamento

dei primi fiori, del fior che è il guardiano

 

di questa Primavera già alle porte -

e della nostra Primavera! - e delle

persiche e dei melograni fecondi.

 

E mi disperdo nell’incerta Sorte,

oltre orizzonti eterni, oltre le stelle,

vivo, oh terra, nei tuoi solchi profondi!

Fotografia dell'Autore stesso, Corone di Fiori rosei, Domenica XIII Marzo AD MMXXII.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Martedì XV Marzo AD MMXXII.

martedì 8 marzo 2022

Sonetto. Alla Terra. Alla Donna - Sempre Tu vesti il Sole in Fiamme, o Gea

I. Sempre tu vesti il Sole in fiamme, o Gea,

e sospirano forse i fiori al nobile

incanto di te che ridi, ove crea

il tuo sorriso la terra immobile

 

del divenire. Te, dunque, un dì fea

Anima diva dal voler docile

per dare a questi fior Amor di Dea

e Vita eterna nell’errar ignobile

 

di ritorni perenni in una bara

e in una culla, nel verno e nel campo

santo un po’ maturato dell’Estate.

 

Madre Terra..! Matrigna Terra, amara,

amata forse!... Come un tristo lampo

e dolce a me il ver disveli: tornate

 

a me le stagioni, atre

Erinni in te mi trascinan nel vento.

Nasco, rinasco.. muoio. Annientamento!

 

II. Perché tu, dunque, hai creata la terra?

Perché hai creato questa larva d’Uomo?...

Tu sei la culla, la tomba che serra

il germe.. il cenere orbo di ogni atòmo.

 

Amica.. amata.. nemica, non sferra

queste catene il nero monocròmo

dell’ente, ma martella come in guerra

la campana funerea del tuo duomo.

 

Oh Gea! Non odi? Il fanciullino piange

appena nato ché sa di morire.

Morirà presto o tardi. Ma che importa?...

 

E il tuo canto materno ora gli infrange

anche il riposo.. il disio di dormire

per risvegliarsi e udir: “La mamma è morta”.

 

Nessuno lo conforta.

Noi siamo i figli selvaggi del Fato,

del tuo ventre amoroso e bestemmiato.

 

III. Oh Gea, io ti prego! Non nascondere orme,

impronte, tracce di un piccolo Dio

che mestamente siede sull’informe

consistenza del Nulla e dell’oblio!...

 

Benedetta Matrigna! Il cielo enorme

vela il tuo sguardo estremo, dove espio

con la mia stirpe, sangue vermiforme,

il satanico cenno di un gridio.

 

Madre del Nulla e della Vita e Tutto,

prega, se puoi, per l’illuso scompiglio

nell’ora della nascita e di Morte!...

 

Tu vesti a festa, il Sole, ma sei in lutto:

la terra vomita e riaccoglie il figlio,

finché l’ultimo verme non lo assorbe.

 

IV. Ma perdonami quest’aspra bestemma,

io so che oltre te, c’è la Vita vera,

quella di cui odo con questo epilemma:

è inverno.. è ancora inverno, o Primavera?...

 

Sì, io ti perdono, per la bella gemma

sul ramo già virente, per la sera

che allumini di Luna, nel dilemma

è giorno o notte con le stelle in schiera?...

 

Io ti perdono, per il campo arato

che mi dà il grano da solleticare,

per lo stormo che torna al nido a fianco,

 

per il meriggio fresco e delicato…

E vedo nuvole erranti in un mare

che sembra solo il Paradiso bianco.

Dipinto di Gaston Bussière (1862-1928), Leilah, Tardo-Romanticismo, Simbolismo, Accademismo francese, 1913. Olio su Tela, Dimensioni 61,3x50,2 cm. Collezione Privata, precedentemente dal 1913, Salon des Artistes Français, Parigi (Francia).
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Martedì VIII Marzo AD MMXXII.

venerdì 20 settembre 2019

I Primi tre Sonetti del nuovo Autunno

Il Buio della Sera alla Finestra

Il buiö della sera alla finestra
io vedo; e la brevità dell'Estate,
e di Settembre le nebbie che a fiate
prime si mostrano, e la nube mesta

annunziatrice della Notte, e questa
attesa d'un che d'ignoto, a me odiate
ombre riportano. Ahi! né le pacate
ore mi sono care, né la desta

scintilla della Luna più mi aggrada
in tanto buiö. Ma dentro, pur lento,
un udir legger di gioia ho io nel cuore

come d'un Sogno che chiama; e la rada
di questo mar notturno in un momento
mi s'allumina e dice inni d'Amore.

Splendon le Vie lontane e sopra i biondi

Splendon le vie lontane e sopra i biondi
campi le nubi della sera, e quella
Luna che timida albeggia, profondi
sguardi del vespero. Ma la rubella

strada che ammiro, dove vagabondi
corvi bisticciano oscene budella
di caccia, a me di sprezzo grida. E i tondi
rami del noce che una pìccol stella

di fioco lume ghermisce, e i latrati
dalle cascine diroccate, i quai
mattoni stanno spogli al freddo, e il raggio

oscuro della Notte or di sprezzati
incubi mi circondano. Né i guai
m'opprimon. Ma di sognar ho io coraggio.

Addio! Oh esequie d'Estate! il tuo santo

Addio! Oh esequie d'Estate! il tuo santo
avello ancor s'aprirà per un anno,
la ghirlanda intrecciando con il canto
della vendemmia. Né èllera né affanno

a te... a me mancheran; né più d'accanto
ti rivedrò sì presto. E grideranno
i giorni in questo passeggero pianto
di nebbie, e tante Notti specchieranno

le steppe con la neve, e le bufere.
Ma tu non sei ancor pago, oh malvagio Ade!
che trattieni per sempre Persefòne!

Allora sono più lunghe le sere,
il luminoso giorno presto cade,
ed è questa, o Ade, la sua pia canzone.

Hans Andersen Brendekilde, Autunno, Tardo-Romanticismo scandinavo, Seconda Metà del Secolo XIX

Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Venerdì XX del Mese di Settembre AD MMXIX.

lunedì 9 marzo 2015

I Sonetti dell'Illusione primaverile

I. Un Sogno illusorio

Un illuso sognar la Primavera
a marzo si discende, e ‘l cielo fresco
d’oro si splende fin quando la sera
febbrilmente si tace; e un fior di pesco

dolendo ammutolisce, e a una riviera
d’alveo d’un rivo - dell’upupa un tresco -
alle nubi ne canta una preghiera,
e all’orribile Luna, occhio donnesco.

Ma in queste pur amene imago i’ spiro,
or forse chè ne veggo ‘l verno ancora,
forse che al core mi giova un martiro.

Così a queste campagne e a’ Notte mora
co’ gemiti nell’alma i’ qui m’aggiro,
e l’alba che s’annunzia ‘l pianto infiora.

Nel ciel albeggia aurora;
ma del Sole allo stral giulivo e ustorio
la vera qui m’appar sogno illusorio.

II. A un Usignuolo

Ma che allieti, oh cantor, nel ciel che splende
nel mare delle gemme e agli arboscelli?....
Succube e impervio d’un sogno che attende
Morte, non è che ‘l cantar degli augelli;

e tu perennemente al Sol che fende
i nugoli pallenti or voli, e a’ belli
rami, o usignuolo, e le seriche bende
de’i germogli ne cingi e i sanguinelli.

Eppur cotesto gaudio, e questo canto,
e ‘l rostro che s’allieta e che ne sogna,
o misero, non è che un queto pianto

dianzi a perenne e crudele menzogna;
e sappilo: così che ‘l verno affranto
ancor non è, e qui provane vergogna.

Canti la tua zampogna
una nenia di strazio a un funerale,
e se un gaudio ne vuoi, va’, e schiudi l’ale.

III. Un effimero Fiore

Cingere un fior e tenerselo al petto,
illusione d’un folle! E ‘l stel si muore
poscia un attimo sol di Vita e affetto,
pe’ un giorno si permane ‘l debil core.

Questa rosa che tieni e in bell’aspetto
presto non fia che uno stame in pallore,
e svelto troverai all’albo cospetto
uno scheletro scialbo, un reo dolore.

Lascia morire in tra l’erbe lambite
questo fior che qui vuol la sepoltura,
qui in tra l’ortiche e le terre smarrite,

nel greto innamorato; e alla Natura
le lagrime ne spremi, e l’assopite
speni abbandona in cotesta radura!

Vita: corolla impura,
mendace fiorellin di Primavera,
breve ‘l meriggio, e perenne la sera.

IV. L’Illusione della Primavera nella Notte

Nella Notte si tace ‘l flebil vento,
e i fiori del mattin si dormon queti,
e ‘l stelo non esiste, e un turbamento
cupo di Morte s’aleggia in su’i greti.

La tenebra s’inghiotte ‘l torneamento
delle gemme e de’i pruni e degli abeti,
e lugubre e straziante un Sentimento
a me chiede: «Che scorgi, a’ rami inquieti?».

I’ la sola ne scorgo eterna Notte,
ombre di spettri, e né vera e né verno,
e inesistenti fior defunti a frotte,

e dell’inquieto viver l’orbo perno,
e le cime lontane e l’orbe grotte,
e un dolor inconsutile ed eterno.

Immagini dell’Inferno!
Nella tenebra giace ‘l re del Nulla.
Niente la Notte nel bosco ne culla.

V. Una Rimembranza

Piango perché ti rimembro in tra’i boschi,
quando i dadi del Fato a te i’ giuocava,
perché mi fuggirai - per sempre! - e i foschi
attimi eterni co’i quai i’ ben t’amava.

Allor questo recordo a’ folli chioschi
di Vita dissipata or va - e ‘ve i’ andava -
riversandomi fieli e amari toschi
al labbro che nel sogno un bacio urlava.

Ho scommesso la Vita; ma ho perduto,
ogni desiro d’Amore si cade,
e in sul ciel mi rimane questo liuto,

nudrito di soffrenti e infauste biade;
e svenandomi eterno i’ giaccio muto,
tacito e freddo, e ‘l dolore m’invade.

Ascoltate, oh contrade:
questa che gemo è una fioca romanza,
dolce e funesta e crudel rimembranza!

VI. Un Cervo

Agile salta pe’i freschi ruscelli
un giovine cerbiatto, e in vêr l’aprile
queto d’erbe si pasce a’ sanguinelli
che n’allumina ‘l Sol primaverile.

Svelto si balza a una roccia, e gli augelli
lietamente n’ascolta, e a’ un fior gentile
d’una cerva l’Amor ne sogna e i belli
crini del manto di bruno fienile.

Al meriggio d’un pruno all’ombra oscura
serenamente posa, e giace prono,
e sonnecchiando ammira la Natura,

del fringuello soäve al lieto sòno.
Ma d’un tratto per questa e pia radura
da un platano selvaggio iscoppia un tòno;

e ‘l bosco all’unisòno
lo ripete, sperando un fior d’Amore.
No: oh cerbiatto, t’inganni: è ‘l cacciatore!

VII. La prima Viola

Di porpora si splende all’erba ansiosa
una viola che aulente al vento gira,
e ‘l ciglio d’oro or pinto in guancia ascosa
tra l’aëre gentil soffia e sospira.

La Quaresima annunzia e forse sposa
coteste tinte di lugubre lira,
e in sul prato si giace dolorosa
‘ve ‘l vespro che sen vien ormai n’ammira.

Sa che alla sera la Morte l’attende,
la tenebra infeconda, e un immortale
verno la cinge, le strilla, la prende

nel murmure crudel del maëstrale;
e in gemiti a un sepolcro si discende,
nell’oscuro del bosco, e al suol fatale,

e al suo reo funerale
pur ne veste i funerei paramenti,
nostalgici e feroci Sentimenti!

VIII. L’Illusione della Foresta

I germogli si stanno a’ bagolàri,
e i frassini e i pineti in mezzo a’ voli
rifioriscono lieti, e i pioppi cari
carchi ne sono de’i dolci usignuoli.

Ma in tra’ questi silvestri e queti mari
un illuso sognar sen va pe’i suoli:
tetri precando in vêr Ciel tutelari
colle scuri sen van i legnaiuoli.

Allora si morrà ‘l pioppo e ‘l carpino,
e cadente ‘l castagno, e ‘l tiglio e l’orno,
svelti trafitti da insano Destino,

nello stral che si brilla, ‘l Sol, nel giorno;
e pur l’eterno e altèro e veglio pino
si sciorrà nel sonàr d’un freddo corno.

Così si spira adorno
del primiero fogliame ‘l bosco, e muore
pallido un occhio di tremulo fiore.

IX. Rovine di Campagna

L’erba fresca si cresce al sasso osceno
d’un casinìn nel bosco, e a’ tetti spenti,
e l’èdera in su’i muri, e a un ferro ameno
d’orrida stalla percossa da’i venti.

L’avìte stanze al cui guardo i’ mi peno
di focolar l’impronte e i rei tormenti
a’ nugoli ne mostrano e un veleno
di fiamme e di dolore a’ pavimenti.

Fu un casolare ch’ardea in su’ un sentiero,
nella vera che splende e si ripete,
e ora in tra’i pineti si pinge di nero,

tra le fronde che stanno all’aura liete;
e lungi or n’assomiglia a un cimitero,
in rovine mutato, e in muta quiete.

Or così ‘l Tempo ‘l miete,
e l’anno si diletta or col raccolto
del muro che marcisce del suo volto.

X. Frammenti di Sole

Andando alle campagne i’ scorgo ‘l Sole
che in tra’i nembi si splende in vêr la vera,
e ‘l guardo i’ ne distendo a un stel di viole
che fioriscono liete in falba schiera.

Ma i’ contemplo a un ruscel la viva mole
di questa stella aprìca, e in aurea cera
questo suo stral si moltiplica a’ gole
dell’acqua che si scorre a un ciel di sera.

Allor mirando i’ veggo a’ cristalline
onde, gl’intensi d’un astro i frammenti -
in tante stelle aprìche - e all’acquitrine

brillar i mille Soli al spir de’i venti;
e ‘l speglio si rimane e a’ rive e a’ chine,
d’oro tessuto e d’àlighe e argenti.  

Eppur in tai momenti,
nel giuoco di quest’onde ‘l Sol si piega,
scorre lontano, e in mister lì s’annega.

XI. A una Primavera di Montagna

Ti rimembri le selve e i monti e i rivi?....
Inseguimmo le cerve, insieme, al fianco,
e all’erte faticose andammo, e quivi
un valico ammirammo in ghiaccio bianco.

Le foglie ne rammenti e i bei e giulivi
salci nel svelto fugare del branco?....
Ammirammo del Sol gli strali vivi,
e ‘l meriggio in sul vespro in volto stanco.

Oh queta Primavera di montagna!
Pelle balze scendemmo - e lieti e uniti -
e contemplammo i ghiacci e la campagna,

e i rocciosi Titàni e i nivei liti;
e in cantici di dolce e tenue lagna
lì i’ n’aspettava i tuoi passi smarriti.

Son recordi infiniti
che a me giova sonàr al mesto liuto
spasmando in rimembrar tempo perduto.

XII. All’Orizzonte

I’ non so che diparta all’orizzonte,
se ‘l Sole del mattin, oppur la pioggia,
e ancora i’ ne contemplo a un veglio ponte
la bruma de’i ghiacciai che ovunque appoggia.

Tònano i nembi - mugghiar d’un bisonte -
e ‘l nebuloso ciel splende a una roggia,
e lontano l’aurora un negro monte
lentamente n’annunzia e cupo ‘l foggia.

Nel meriggio sarà così l’aprile,
o ‘l prolungato verno, e i’ in ansie aspetto
scorger nel cielo la spira gentile

della vera che sorge, o ‘l ghiaccio schietto;
e cotesto mistero è folle e vile,
e al labbro mi raggela in fin un detto.

A un incerto cospetto
di perenne soffrir mi giaccio, e altèra,
beffarda e illusa va or la Primavera.

XIII. Il Cinguettio degli Augelli

Un cantico funereo allegro e in Vita
l’augello ne cinguetta a un ramo spoglio,
lieto alla Morte la vera concìta,
e la gemma che cresce e ‘l bel germoglio.

Allora la sua voce all’infinita
aura s’espande e si spasma in su’un soglio
d’una tomba feroce e rea e avvizzita,
e d’un mare ne cinge un freddo scoglio.

La Natura donò a’ cotesti augelli
l’allegria di lagnar canzon di Morte,
quivi, in su’i verdi e nascenti arboscelli

‘ve le gemme si stanno e son contorte;
e cantano in sull’acque de’i ruscelli
l’essenza della Vita: estrema Sorte….

E morirà da forte
questo canto bugiardo, ‘l cinguettio,
e lo rimembrerà soltanto Iddio!

XIV. Rimembranza d’un Maggio perduto

Come a maggio m’appar un tempo lieto
dove mi volgo a’ melliflui sentieri,
come un sogno che giunge al labbro inquieto
nel tremulo volar degli sparvieri.

Allora d’un ruscello al lieve greto
mi soffermo, e ne penso: i fior leggeri,
i gelsi e i gelsomini e un pio canneto,
e della vera i ciel or lusinghieri.

Ma nel cor mi s’ammanta un pianto antico,
nell’erbe del recordo un’empia cura,
e lagrime mi vanno al sasso aprìco

lungo le ripe di torva radura;
e quivi ne arrossisco a un giorno amico,
e l’Amore mi fu e sogno e sventura.

Così in questa Natura
mesto contemplo l’infame Destino,
vagolando in eterno e in reo cammino.

XV. Una Scommessa di Primavera

Un giorno i’ scommetteva a dolce rosa,
qual danari giuocavo i Sentimenti,
donde si nacque malìa avventurosa,
la Sorte che infuriava al cor de’i venti.

A’ suoi petali etesi e all’amorosa
Corolla i’ ne gettava i dadi e a stenti,
cosicché i’ n’azzardaj la Vita ansiosa,
tra la Morte e la spene e i pianti ardenti.

Ma ‘l Destino sen stava ascosto e pronto,
donde i’ perdeva, ‘l respiro pur anco,
e misero di speni in bieco affronto

allor ne rimasi, e sanza ‘l fior al fianco;
e al sospiro i’ ne piansi, e al mio racconto
tuttor d’amar mi reputo stanco.

Così impazzendo manco;
ma felice ne son d’aver scommesso,
e ‘l core questo fiore ama lo stesso.

XVI. Illusione del Tempo di Pasqua

Rimembro che sorgea la nova aurora,
e ‘l tempo trascorrea sacro e pasquale,
e i’ col Fato nel core di Pandòra
spasmando ne rompea ‘l suggèl fatale;

e al volto del Risorto - e ciò m’accora! -
su di me si proruppe un folle male:
i’ amava una ninfea di Notte mora
nel biondo luccicar dell’Immortale.

Annegai in sul Destino, e i’ giacqui in pianti,
da questo fiorellin i’ trucidato
fui nella vera di teneri manti….

Oh terribile Fato, empio, esecrato!....
Allora i’ ne cantava i queti canti,
lacero all’alma, nel core umiliato.

Me istesso i’ ho fatto odiato;
e la vera annegava in questo fiore
di perduto e di folle e insano Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato, Domenica, Lunedì VII, VIII, IX Marzo AD MMXV