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venerdì 18 marzo 2016

Attila: il Vaticinio delle Norne

Figliuolo della steppa, Attila, l’Unno,
le Norne dìcono, afferra il suo Reno,
Streghe del Fato, esse prime fanciulle, e
tetre ombre di Ygdrasìl. Oh Erda… Erda, oscura,
vaticinio in tempesta della Sorte!
Le selvàtiche schiere vanno. Irose
àrdono le campagne intorno, i flutti
del sacro rivo, covo delle Ondine,
vìndici del Dio Wòtan, esse, tormèntano
la stirpe delle Nebbie, i Nibelunghi,
la Morte seminando disperate,
e mietendo di sangue immani germi,
mentre del fiume le spogliate Ninfe
càntano all’oro perduto e funereo,
i seni riflettendo nelle empie onde
alluminate dal fuoco dei bruti.
Figliuolo della steppa, Attila, autunno
dell’Alemagna invitta, a’ il loro seno
scialbo, ei lamenta, qui, tra le betulle
che si infiàmmano tosto; e la Natura
si tinge di ogni patimento e Morte.
Si àgitano allòr le onde burrascose,
e il Regno della Nebbia in tanti lutti
precìpita, morendo tra le spine
dei bàrbari flagelli che spavèntano
anche le pietre. E venèfici funghi
gli Gnomi bèvono, in coppe dorate
maledicendo Alberico. Gli infermi
spettri della perenne Notte vanno
a morìr tra le fiamme e il suol cinereo.
Siete voi vendicate, oh Ninfe bionde,
oh esili nel ruscello, i corpi ignudi!
Egli è la Furia della steppa ardita,
Attila, il Re degli Unni, e volge contro
ogni inumana e sovrumana possa,
figlio del nostro labbro - dìcon tetre
le Norne - ei irride l’ignoto Destino,
ei, ira di folli e guerresche tribù
che vèngon da lontano, oltre le cime
dei sacri monti, e oltre il Valalla spento.
Veste le pelli degli orsi sgozzati,
sangue è la bava bevuta ai Germani,
cieco nel cuore, insipiente del Dio,
truce procede la stirpe a domare,
Vendetta, ei, urlata un dì verso l’Anello
che Lorelei di nuovo al Reno posa,
l’arpa trillando festosa e serena.
Attila brama dovunque lo scontro,
e rigetta la terra un mucchio di ossa;
e di fuoco or si fan calde pur l’etre,
fiume dal flutto oscuro e cinerino.
Il Regno delle Nebbie allora fu!
È stato sterminato, egli, il sublime
Pòpolo, il ladro del fluviale argento,
grìdan le Norne pe’ i rami smorzati
di Ygdrasìl: funerale, esequie, mani
di colui che sfidò l’eterno Iddio,
Alberico, il baldante che regnare
volle sul globo e sul santo ruscello.
Attila fugge. Resta sanguinosa
orma di Morte, di strazio e di pena.
Dìcon le Norne co’ i lor vaticini,
spettri viventi di tanti Destini.

E voi, Valchirie, cupe figlie di Èriahnn,
posse dei nembi che piàngono sempre
di Brunnilde la prode e mesta fine,
voi, donne irate, lasciate insepolte
quest’ossa infami, e questo sangue sparso,
né mai mietete quest’Anime brute
di questi Gnomi del Regno del Vespro,
né mai provate per loro pietà.
E voi, Valchirie, cupe figlie di Èriahnn,
che ferreo avete e il seno, e il piede e il ventre,
e che regnate sopra le alte cime,
non fate di quest’alme da voi avvolte
tributi e onori: maledette sono.
Lasciàtele disperse in Notti cupe,
su queste terre, a far da tristo vepro
per il Destino che sempre vivrà.
E tu, Attila, che ridi, oh tu, oh sovrano?
Lo sai che anche per te c’è pronto un Fato?....
E tu, Attila, che ridi, oh tu, oh sovrano?
Morirai tosto tradito e sgozzato.
Lo sai che un uomo ti attende vêr Roma?
Ti afferra il crine e ti respinge. Trema!
Lo sai che un uomo ti attende vêr Roma?
Incubo oscuro, del cielo anatèma!
Così le Norne dìcono. È il silenzio!
Sangue e flagelli e disperato assenzio!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Arthur Rackham, Alberico e le Fanciulle del Reno



In Dì di Venerdì XVIII Marzo Anno del Signore, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

domenica 22 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VII. Melodramma: La Maledizione di Alberico

«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
esser mia sposa, e con me la regina, e
condividere e regno, e trono e letto,
dove la nebbia regna ed è impetuosa?
Vieni, oh tu, oh dama, qui, tra le mie braccia,
qui… coperta dai baci miei gaudenti!»,
dice Alberico, il crudèl, cuor impuro
le nuche divorando delle Ondine,
famelico sentìr d’istinti e sensi,
e ripensando ei le forme gentili; e
già esse, le Ninfe, pensano a uno scorno,
e follemente Erda ora le addestina
a vendicarsi del Re orrendo e schietto.
Oh Possa infame, tremenda e furiosa!
E il Nibelungo in cuor ripete: «A caccia!»,
e i ghigni suoi si mostrano irridenti,
spettro vivente d’un insieme oscuro
di tenebre e di notti, e nebbioline,
e ignobili sorrisi e sguardi intensi,
ombra dell’ombre, egli è il Re dei più vili.
«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
fònder sue carni con le mie voraci, e
godèr nel cielo della Nebbia eterna,
essere primigenia d’una schiatta?
Oh Ninfe, a che tacete? Non son degno
forse dei vostri visi angelicati? O
solo temete la mia barba lunga
e folta? Anch’io ho il diritto dell’Amore, e
ebbro inebriàr il cuor sul vostro cuore;
e qui m’aggiro. Non v’è Nibelunga,
e non ho spose, io, Re dei disprezzati
Gnomi del vespro, di Nebbie il vil Regno;
e Re, Re! schiavo sòn di brama matta:
ghermìr la vostra carne, la superna
bocca delle onde, oh boccucce di baci!»;
e ascoltando le Ninfe in disperata
posa, serene fanno una risata.

«Oh voi irridete, lische, il Sentimento
mio, che in ira si muta e vi percuote!
Qui, qui nell’onde verrò: e già vi afferro, e
non potrete sfuggìr ai baci miei, e
nude Sirene senza cuor! Oh pietre!»; e
sì il Nibelungo urlando e lento, lento
quasi s’addentra tra l’acque più immote,
e verso le fanciulle va, lo sgherro,
bestemmiando il Destino e pur gli Dei,
avvolto in spire nebulose e tetre,
e nel suo guazzo fùggon impaurite
le meste Ninfe, le man sue evitando,
polpi ghermenti, e furia animalesca,
e scagliandogli fredde onde di sprezzo,
mentr’egli grida rabbioso e baldante.
Così le Figlie del Reno fluttuante
ben più scaltre ne fùggon ogni vezzo,
ma ora fuggendo mòstran la donnesca
forma che certo il bruto non fa blando,
e hanno le guance umiliate e arrossite;
donde non svàmpan le brame infinite
del Nibelungo più rozzo e nefando.
E quegli è terso, e il sacro fiume infesta,
impunito dal cielo e dagli abissi,
e preme i santi scogli e i suoi cristalli.
Preme i fondali con i tristi calli,
e sulle sue fuggenti gli occhi ha affissi,
e tra quest’acque corre, ombra funesta.
E solo il senso sta nella sua testa,
e le conchiglie schiaccia e i loro ricci.
Ma le fanciulle, andando or con più flemma, e
ora arrestando, hanno uno stratagemma.

Qui Woglinde s’immerge e chiama il crudo,
e lo persuade con voce maliarda:
or lo chiama per nome, lui, Alberico,
e provocante gli porge le scuse,
e vêr di lui distende il suo mancino
braccio, e col destro - ahi lui! - se lo accarezza,
oh delicatamente! e tante volte,
e ora gli mostra le spalle e le ascelle,
e tra una sua carezza e un’altra il petto,
e cantando e cantando, oh fior soäve,
il bruto attira, e ‘l porta a sé dinnante.
Allor lo Gnomo verso questo nudo
e folle inganno s’inchina. La guarda!
Ella ripete: «Alberico! Alberico!»,
e canta, e canta… sulle cornamuse
del fresco vento, un inno che è divino;
ed egli non comprende che ‘l disprezza,
e a lei avvicina le chiome sue folte,
e quasi le solletica la pelle, e…
e finalmente ei giace al suo cospetto,
e l’ammira… l’ammira, le dice: «Ave!»,
sogna ingannato d’esserle l’amante.
«Alberico! Alberico! Vieni! Oh vieni!
E ti darò sul labbro un dolce bacio,
come tu sogni nel tuo desiderio; e
ti cingerò con queste braccia mie,
e tu mi prenderai, e mi porterai
nel tuo Regno di Nebbie, e io sarò sposa
tua, e per sempre, oh Alberico! Vieni! Oh vieni!
Perdona se ti ho offeso! Vedi? Giacio
solitaria e piangente, e tu, lì, serio
tosto mi scruti. Ah perdona le rie
gäie parole! Guarda! Senti! I lai
della mia bocca, odorata di rosa!»;
e così il Nibelungo ora le crede,
e a lei vicino s’avanza contento,
e cammina… cammina, e qui procede;
e Woglinde gli soffia un dolce vento
con le sue labbra di fiori d’aprile,
un fumo, esso, un vapore che sul mento
del Re brutale si posa gentile;
ma ecco che il Fato conosce quel vile!
La Ninfa, allora, la barba gli afferra,
e tira… e tira, lo scaglia per terra,
e poscia un poco lentamente scappa
lungi dal folle dalla negra cappa.

Ei sta per maledire ed è infuriato,
e quasi muove i suoi piedi a vendetta;
ma Flosshilde ora emerge, e porge il seno:
prende una stilla, una goccia dell’onde
che sulle forme va scendendo, e lieta
con l’indice fatale l’accompagna,
lungo le carni montuose di dama,
e accompagnata la goccia nel fiume,
veloce immerge la nuca e riemerge
ella, divina, e sorride allo Gnomo
che tanto ha fame, e non scorge ei altro inganno,
follemente perduto e istintivo.
Ella, Flosshilde, nuota e sguazza, e il rivo
agita - e molto! - e si finge in affanno,
e fissa il Mostro, l’Orco, il putrido uomo, e
con una goccia ancora il sèn si terge,
e il suo occhio azzurro brilla d’un bel lume,
bellezza primitiva, e ingenua, e arcana;
e sguazzando… sguazzando ancòr si bagna,
‘ve nel suo cuor non v’è grazia né pièta,
poscia si aggiusta le trecce sue bionde,
e già ai piedi del bruto sta. Ahimè, oh Reno!
Ed ella è dolce, soäve e diletta,
ed egli ancora si mostra stregato.
Flosshilde è giunta, e sul petto si stride,
con la man destra, ove palpita il cuore,
appena sopra il seno, e alzando il volto
dice: «Alberico! Alberico! Ah! Qui bacia
dove m’ha punta un’ape con il miele;
qui, dove il fuoco si acceso impetuoso
per le tue labbra che vogliono amare!
E sarò grata per sempre, e verrò
a Nibelheim con te, oh Re, io tua regina!».
Così Alberico lieto le sorride,
e già s’infiamma di funesto ardore,
e allor s’immerge e a lei vicino molto
al suo bel seno avvicina la faccia,
e ancor non sente il profumo del fiele,
e sul labbro prepara un tempestoso
bacio su quelle pelli che son chiare,
e già lo schiocca, egli, il beffardo. Oh no!
E Flosshilde si mostra più meschina.
Presa dal fiume una rigida perla,
prima del bacio, ecco! Gli dà una sberla.
E fugge… fugge, lo Gnomo irridendo,
il qual sogghigna malvagio e tremendo.

Giace Wellgunde su uno scoglio ignuda.
Con dei capelli e con quattro legnetti
ha appèn plasmata un’arpa leggiadra,
che lieve suona amoreggiando all’aria,
e l’orizzonte inebria d’un suo canto
che verso il Nibelungo accenna un suono
forse di grazia e di compatimento,
gorgheggi molli, melliflui, donneschi,
ditirambi agili e festosi carmi,
distici quieti, labbra urlanti, e carni
gentilmente danzanti, ed elegie:
«Weia! Waga! Waga! Amòr che infame Dio!».
Giace Wellgunde su uno scoglio e cruda
più delle sue sorelle. Oh i divi aspetti!
Di caldi sensi ella - oh sì! - ella la ladra,
interamente emersa e solitaria,
e col suo ignudo corpo trae d’accanto
il Nibelungo, al qual l’ultimo tuono
s’appresta; e allegro, allegro… e lento, lento
ei lì s’avanza a quei sèn che son freschi,
ancora vinto, e senza ira e senza armi,
ascoltando le gaudie Poësie,
ignorando l’estremo, ultimo fio.
Wellgunde è forse la più bella Ondina,
fors’anche ancor di più di Lorelei,
e qui cantando il labbro a bacio muove,
giuocando con il vento e con il Mostro,
e il corpo mostra, ella, divinamente.
Vanno i suoi versi delicatamente
per tutto il Reno, inebriato di mosto.
E tu Alberico, ancor, ancor li udrai!
Erda frattanto governa e destina!
Ecco: Alberico viene e s’avvicina,
e intenso ascolta i caldi e urlanti lai.
Allo scoglio s’aggrappa, e bacia il ventre
di Wellgunde che finge e che l’äiuta
ad andàr presso il viso. Oh Gnomo, il nano!
Ei le bacia le braccia e poi la mano,
e l’arpa prende, scaglia, ed è perduta,
e il labbro pone alle labbra sue; e mentre
il bacio sta schioccando ella lo morde
e nell’onde lo scaglia tra l’ansie orde.
E il Nibelungo ora la maledice.
Ma ecco del Sole una fiammata altrice!

Alberico in sgomento sta in disparte,
e va a una riva, e scruta e guarda e attende,
dei suoi inganni pensando all’orrida arte.
Dall’alto il Sole sul Reno discende,
e illumina i fondali ov’è l’argento,
e il luccicàr dell’oro il nano apprende.
Erda invisibile, Erda, dice al vento
che l’onde sposti, il tesoro mostrando,
e le ubbidisce allor ogni Elemento.
E così ad Alberico, empio, il nefando,
del Reno l’oro compare in fulgore,
e nessun lo difende con un brando.
Del Nibelungo nel lugubre cuore
non v’è più la passione ma il furore;
ed egli chiede: «Oh Ninfe, dite: or come
avèr si può così tanta opulenza,
com’io possa ghermirla e lì portarla
a Nibelheim, al mio regno di brume!».
E le Ninfe, distratte, ed ebbre quasi,
dal Destino incantate, oh Erda la belva!
gli rispondono insieme: «Oh Nibelungo
maledicendo la Possa d’Amore!
Colui che avrà il coraggio di tal gesto
libero avrà ogni varco a questi argenti,
e seminando l’Odio, invitta serpe,
ei godrà d’un Potèr che sarà immane,
più forte questo d’ogni Dio possente,
e il mondo intero, frutto di Erda, avrà.
Oh Nibelungo, non la maledire!».
Ma egli Alberico alle commosse chiome
delle fanciulle inebriate e in demenza,
furiosamente va, e va… va a invocarla -
la Possa santa - e senza senno e acume,
e verso gli ori dai suoi sguardi invasi,
e ivi chiamando a testimòn la selva:
e ogni suo fiore, e ogni salce, e ogni fungo,
ecco, egli maledice, ahimè, l’Amore.
Le Ninfe si ridestano e hanno mesto
lo sguardo ora impietrito, e intorno i venti
con lor combattono e le vìncon. Serpe
oh Erda, oh Erda sei! e le Ninfe son lontane,
e lo Gnomo s’avventa irriverente
sull’oro che gli spetta. Ahi, oh eredità!
E scansano le Ondine ei va a frinire.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
veloci accorrono e contro il crudo
vanamente combàtton. E ombre in nebbie
d’Anime morte dei re Nibelunghi
accorrono al servizio d’Alberico,
lasciati i lor sepolcri, e rùban l’oro.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
fuggire scòrgon con i suoi, lui, il crudo,
verso il dominio della Notte in nebbia,
nell’antro fosco dove i Nibelunghi
i servitori sono d’Alberico,
piangono, e piangono insieme e qui in coro;
e cercano di urlare ai loro Dei,
pallide in volto, scomposti i capei.
L’empio ha rubato il sacro oro del Reno.
Ahi qual s’appresta del Fato il veleno!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXII Novembre AD MMXV

venerdì 11 settembre 2015

Sogno romantico presso le Fanciulle, Figlie del Reno, ovvero, Memorie della perduta Bellezza dell'Arte

Sogno io nei mie sospiri: e alghe e Sirene,
e ombre femminee del Reno selvaggio,
e scrigni dorati di pietre e coralli,
e dolci seni di Ninfe e di Ondine,
e acque fluviali ordite di cristalli,
e onde turchine,
e fiorellìn di maggio;
e sogno io: questi piedi delicati,
queste fanciulle, infantilmente nude, e
senza pudore, baciate dai nembi e
l'una coll'altra dai propri capelli,
e questi crìn solleticàr i grembi, e
l'Eterno che l'illude,
e gli inguini più belli,
e il lor solleticato reciprocamente
seno di miele all'ombre delle vele;
e sogno ancora, io romantico e spento,
i covi ombrosi dei miei Nibelunghi,
dove un Mostro desìdera ghermire
i nudi ventri e le vergogne, e i funghi
marini ai sciolti crini, e dove ardire
è amar le donne, divertite e bionde,
Figlie dell'iraconde
acque,
Dio del Reno.
Ma non è senso questo falbo seno,
e non è desiderio; e queste forme
di nudità non son che specchi avìti
d'una bellezza antica, di cui l'orme
si disperdono; e i Cieli, ampi e infiniti,
le ispirano con casta
brama, e con mente d'una divina Arte,
e l'impùdico corpo iconoclasta
del mio ansio sogno diventa del Bello
una sentenza amara:
vedi, oh Poëta! Sul fresco ruscello è
la sepoltura di un'antica bara!
E questo scrigno che lagna al tuo cuore è
la morte d'Iddio, l'assenza d'Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XI Settembre AD MMXV