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domenica 7 aprile 2019

Pioviggina Aprile

Leggermente tu gemi fresca piova,
o nuvola piccina del mio april
fecondo. Ma ombre di buia sera e tetro
meriggio, allor, su me incòmbon; e mentre
riede questo brutal rigor del verno,
e mentre impallidisce il ciel sì glauco,
odo (io) venir da' le frasche vicine
uno spento cantar d'augei che, in molto
silenzio, il cuor che duol mi intenerisce.
Mai amai sì tanto questa Primavera!

Albert Rigolot, Soleil levant dans la Brume, Tardo-Romanticismo francese, Seconda Metà del Secolo XIX


Massimiliano Zaino Di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica VII del Mese di Aprile AD MMXIX.

sabato 23 giugno 2018

Idillio mediterraneo

Il màr è irato, e urla rabbioso, e grida,
invòca la Tempesta che divora
le prue d'in su' gli scogli ove sorge Ilio,
le pietre urlanti di nebbie di fuoco,
di cènere e furòr,
mare crudèl!....
Tirèsia lo diceva; e presagiva
di Nettuno la Furia svergognata...
Tirèsia maledisse... e il Fato eterno
lo decretò.
Il màr è irato,
rabbioso come un lupo,
mare fatàl.
Io... ràpsodo romàntico su' greche
terre ora immaginate e un po' ghermite
con un abbraccio,
cosa ti dico? mia onda... mia ombra, e Vita?....
Odi il Sòl dell'Estate che singhiozza
l'acque bevendo... 
odi il màr, questo màr... queste onde d'una
spiaggia, odi Odìsseo che ritorna a Ítaca,
odi nel meriggio il stormìr de' i gabbiani,
il canto delle ròndini perdute,
l'Ècate che ritarda co' il suo fàscino
di tènebra; odi, o cuòr,
gli inavverati Sogni
che insieme a' la salsèdine garèggiano
per le scogliere d'ogni àvida Notte...
garèggiano bramàndosi,
garèggiano saltando
tra il sale e il fiele di sguardi perduti...
di sguardi quai d'amanti,
di sguardi e di dolòr...
gli sguardi di un'Ondina che dall'acqua
fa mostra solo degli occhi che sussùrrano
i caldi baci
che dall'imberbe pescatòr vorrìa
sopra il suo seno...
ignudo seno
di spoglio cuore.
No! Non bere, mia Vita, questo loto,
loto d'Egitto che l'ignuda donna
ne coglie per drogàr le ciglia sue
e delle danzatrici...
oh... sacre danzatrici
del Nilo dove scòrrono le tombe
dei Re! No! non mangiàr
questo pètalo folle che si piace
a inebrïàr la mente che non pensa,
che non prega...
loto fatàl!....
Loto di Sogni!....
Infatti, il Genio dell'Estate, da Ade
precedente risorto, Dea Prosèrpina
che i mistèrici riti dell'Aprile
ancor presenzia e
fecondò di germogli e nuove nàscite,
è forse il primo Sogno,
la più cara parvenza, la qual qui
or suggerisce
che il Sole più non v'è...
che l'han rapito i voli dell'Arpie...
che non v'è mare,
né steli, né vïole, nè altri fiori...
che è sempre inverno,
che Odìsseo non ritorna a' la sua Patria,
che l'Orco trattïene la fanciulla
impäurita della Primavera...
che Atene e Sparta rovinosi rami
spogli e bruciati di fuoco e di guerra
al vento èrgono ansanti di massacri....
Alle Termòpili or trecento Sogni
pugnàrono... trecento Sogni andàrono
a Morte... negli Inferi...
i Sogni miei!....
La Vita, allora - così io canto all'arpa
a Saffo appartenuta sull'Egèo -
è un ditiràmbo... un epigràmma fùnebre
che canta urlando
su' il tèrmine d'un Sogno che soffiava
liberamente nella Notta, prima
che sovvenisse l'alba con le rosee
dita assassine
d'ogni sognato sguardo, e d'ogni senso,
oltre il quale non v'è nulla, siccome
il mare che oltre i bei lìmiti di Ercole
s'acquieta e muòr.
Odìsseo sa,
Odìsseo ben conosce:
quel loto afrodisìäco d'onìrici
àttimi da Érato avvolti e convulsi e
che ei inghiotte con il pane...
il Sogno! il Sogno!...
non può èssere varcato oltre i confini.
Infatti, per colui che non vuòl Sogni
e per colòr che vògliono avveràrli
ha preparata Iddio òrrida Tempesta....
Un'Anima che non sogna mai è un'Anima
d'Inferno!

Saffo e Faone, Jacques Louis David, Classicismo francese, Epoca napoleonica, Prima Metà del Secolo XIX


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Sabato XXIII del Mese di Giugno dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

venerdì 18 marzo 2016

Attila: il Vaticinio delle Norne

Figliuolo della steppa, Attila, l’Unno,
le Norne dìcono, afferra il suo Reno,
Streghe del Fato, esse prime fanciulle, e
tetre ombre di Ygdrasìl. Oh Erda… Erda, oscura,
vaticinio in tempesta della Sorte!
Le selvàtiche schiere vanno. Irose
àrdono le campagne intorno, i flutti
del sacro rivo, covo delle Ondine,
vìndici del Dio Wòtan, esse, tormèntano
la stirpe delle Nebbie, i Nibelunghi,
la Morte seminando disperate,
e mietendo di sangue immani germi,
mentre del fiume le spogliate Ninfe
càntano all’oro perduto e funereo,
i seni riflettendo nelle empie onde
alluminate dal fuoco dei bruti.
Figliuolo della steppa, Attila, autunno
dell’Alemagna invitta, a’ il loro seno
scialbo, ei lamenta, qui, tra le betulle
che si infiàmmano tosto; e la Natura
si tinge di ogni patimento e Morte.
Si àgitano allòr le onde burrascose,
e il Regno della Nebbia in tanti lutti
precìpita, morendo tra le spine
dei bàrbari flagelli che spavèntano
anche le pietre. E venèfici funghi
gli Gnomi bèvono, in coppe dorate
maledicendo Alberico. Gli infermi
spettri della perenne Notte vanno
a morìr tra le fiamme e il suol cinereo.
Siete voi vendicate, oh Ninfe bionde,
oh esili nel ruscello, i corpi ignudi!
Egli è la Furia della steppa ardita,
Attila, il Re degli Unni, e volge contro
ogni inumana e sovrumana possa,
figlio del nostro labbro - dìcon tetre
le Norne - ei irride l’ignoto Destino,
ei, ira di folli e guerresche tribù
che vèngon da lontano, oltre le cime
dei sacri monti, e oltre il Valalla spento.
Veste le pelli degli orsi sgozzati,
sangue è la bava bevuta ai Germani,
cieco nel cuore, insipiente del Dio,
truce procede la stirpe a domare,
Vendetta, ei, urlata un dì verso l’Anello
che Lorelei di nuovo al Reno posa,
l’arpa trillando festosa e serena.
Attila brama dovunque lo scontro,
e rigetta la terra un mucchio di ossa;
e di fuoco or si fan calde pur l’etre,
fiume dal flutto oscuro e cinerino.
Il Regno delle Nebbie allora fu!
È stato sterminato, egli, il sublime
Pòpolo, il ladro del fluviale argento,
grìdan le Norne pe’ i rami smorzati
di Ygdrasìl: funerale, esequie, mani
di colui che sfidò l’eterno Iddio,
Alberico, il baldante che regnare
volle sul globo e sul santo ruscello.
Attila fugge. Resta sanguinosa
orma di Morte, di strazio e di pena.
Dìcon le Norne co’ i lor vaticini,
spettri viventi di tanti Destini.

E voi, Valchirie, cupe figlie di Èriahnn,
posse dei nembi che piàngono sempre
di Brunnilde la prode e mesta fine,
voi, donne irate, lasciate insepolte
quest’ossa infami, e questo sangue sparso,
né mai mietete quest’Anime brute
di questi Gnomi del Regno del Vespro,
né mai provate per loro pietà.
E voi, Valchirie, cupe figlie di Èriahnn,
che ferreo avete e il seno, e il piede e il ventre,
e che regnate sopra le alte cime,
non fate di quest’alme da voi avvolte
tributi e onori: maledette sono.
Lasciàtele disperse in Notti cupe,
su queste terre, a far da tristo vepro
per il Destino che sempre vivrà.
E tu, Attila, che ridi, oh tu, oh sovrano?
Lo sai che anche per te c’è pronto un Fato?....
E tu, Attila, che ridi, oh tu, oh sovrano?
Morirai tosto tradito e sgozzato.
Lo sai che un uomo ti attende vêr Roma?
Ti afferra il crine e ti respinge. Trema!
Lo sai che un uomo ti attende vêr Roma?
Incubo oscuro, del cielo anatèma!
Così le Norne dìcono. È il silenzio!
Sangue e flagelli e disperato assenzio!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Arthur Rackham, Alberico e le Fanciulle del Reno



In Dì di Venerdì XVIII Marzo Anno del Signore, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

venerdì 2 ottobre 2015

A Nikolaj Semenovic Leskov, ovvero Sogno e Fantasia della Steppa

Sogno le steppe innevate e infinite,
uguali sempre dell’aspetto erboso, e…
e all’orizzonte oscuro dell’inverno
dove il Tàrtaro cavalca i destrieri, e…
e errabondo sen va per le smarrite
saline dei suoi laghi, e per l’ombroso
lichene dei cerbiatti, erràr eterno e
di cure e di ansie e di alti desidèri; e…
e sogno i monti, gli Urali lontani,
laddove un’ombra sta d’un monastero
nella feroce Notte iconoclasta
che nelle tenebre arde la sua Luna,
tra le guglie dorate dei sovrani
arabi, e i marmi bei d’un cimitero, e…
e l’assedio del vespro che devasta
dei tristi muschi l’inquieta laguna. E
sogno i cantici antichi, e le ballate       
fìnniche e polovèsi, e i lor tamburi
selvaggi e in furie, e le ombre in danza
delle fanciulle, e la bionda Natàsha, e il
piccolo Kòlka, e l’arpe innamorate
dei primigèni orizzonti, i più oscuri,
e mentre suona la nenia in romanza (sogno)
il legnaiuolo con in mano l’ascia. E…
e sogno l’arrendevole Cosacco
che i turbini minaccia in sguardo bieco,
vanamente Titàno degli Slavi, e…
e le risse (sue) per possedèr cavalli, e il
contadino con il suo colbacco,
il campo sconfinato e oscuro e cieco, e
le mongòliche tende dei lor avi, e…
e i selvatici canti e i fieri balli; e…
e questo sogno più del freddo lito,
più della steppa mi sembra infinito.  


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì II Ottobre AD MMXV

giovedì 3 settembre 2015

Introspezioni di Settembre

Sàtana, dimmi: perché quest’autunno?
Di’, oh mio Signor: perché l’estate muore?
Sei tu - l’Inferno - nel petto il mio empio Unno,
oh Cielo eccelso, sei tu il mio dolore!
Oh cuor, dov’è la felicità umana?
Dove son sogni? e inesorata Sorte?
È dunque giunto il tempo della Morte
per le mie fiabe? La fìn disumana?
Dimmi, oh mio cuore: ami la pioggia e il tuono?
e della mia arpa il singhiozzante suono?
E l’estate decade, e vien lo scherno
che la Natura prepara all’inverno!

Dov’è - oh tu, dimmi! - il settembre infinito?
E io nel cuor sogno: passeggiàr tra i pini,
lambìr le fonti, e udìr l’inaudito
canto della Natura, e i gufi chini;
e chiedo allor fin quando andrò a sognare,
chè - non è vèr? - che l’autunno mi opprime?
E muto io piango: e alle perdute cime,
e alle campagne; e io posso non gridare?
E introversi mi sono i cascinali,
poveri e ciechi, e cadenti e fatali;
e lì, dov’era così tanta Vita,
non è rimasta che una via smarrita.

Sento che gemi, oh usignolo! E che dici?
Nelle mie vene sogni emigràr forse?
E tu abbandonerai querce e radici;
perché chi sei? Un spasmante sogno? E scorse
l’estate; e muore oltre il tramonto il Sole.
E cosa io sento? Ora un formicolìo
al vagabondo petto. E ora? Un oblìo;
e intorno vedo quest’ultime viole,
che mi sono un eterno e orbo rimando
alla mia gioventù, e al mio vìver blando.
Ho paüra! perché vado a invecchiare,
e non so più se avrò ore per sognare!

Sento nel petto: fuggìr gli aïroni
che giacèvan nei fanghi, e urlàr le ghiotte
ali dei corvi, e sibilàr canzoni
dalle cetre del vento e della Notte;
E tu, Spirito? e tu? Non sei addolcito
dal vespro svelto? Dalla cupa sera?
E cosa dici se non la preghiera
ora che il bronzo suona all’Infinito?
E al sangue si confonde un po’ di vino;
ma è amaro e cupo, com’è il tuo Destino!
E io son ridotto a un’ombra vagabonda,
Anima mesta di Sorte iraconda!

Passeggio in cuore; e dunque cosa ammiro?
I cieli grigi, e l’accorciàr del giorno,
e i paludosi fanghi; e odo il sospiro
delle cadenti foglie, e vedo attorno:
rose ingiallite nelle vane attese
d’un vano Amore, e camelie spogliate,
e le terre deserte e abbandonate,
e tra le nebbie le campestri chiese,
e chiedo a Iddio: «Che cosa mi succede?»,
donde il silenzio mi ordisce la fede.
E come il Sole che la Notte affronta,
ogni mio sogno per sempre tramonta.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Giovedì III Settembre AD MMXV