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giovedì 13 agosto 2015

Cantico d'un Poeta montano alla Poesia che fugge

Povero cigno! Giovane
nei tuoi alti spasimi
in un lago su un monte
vai, e ti lamenti
col canto che urla il funebre
istante, il gemere,
nell’immenso orizzonte,
tetro di venti.

Oh miserabile,
tu, oh creätura,
tu, Poësia,
ascolta i gemiti
della Natura,
della mia via!

Vai, e t’allontani in attimi
che si disperdono,
e un’ora seppellisce
la tua ombra scialba,
che un dì io vidi defùngere
presso il turìbolo
d’un Cielo che languisce,
Notte, mai è l’alba.

Vai, e ora il tuo affliggere
copre le cime
di tanta Morte,
oltre i miei palpiti,
nel fior sublime
dell’empia Sorte.

Misero cigno! Timido
strale dell’etere
fuggi via, e non sei nulla,
una chimera,
ombra spettrale ai vàlichi
che ora ti irridono,
come un’ansia fanciulla,
tu, Primavera,

che nel più lugubre
silenzio altèro
piangi le rose
di questi cantici,
e nel ciel nero
le tempestose

nubi che si disfidano
scorgi, ineffabile
soffio, àlito d’Iddio,
superna Idea,
Poësia che nei gemiti
trascorri i termini
del cuor che scrive, il mio,
rosea ninfea.

Oh cigno flebile,
nel cielo ustorio
del nuovo Sole,
ti vai ad immergere
nell’aspersorio
di tombe e viole!

Addio! T’han preso i turbini,
l’inesorabile
Mostro del Tempo, e muori,
e nel ricordo
di te m’è duol l’immagine
lontana e immobile,
il sepolcro tuo e i fiori,
e il cuor m’è sordo!

Perché ancor tacito
sei Tu, oh Signore?
Perché? Orsù, dillo!....
Io sono languido,
voglio il cantore,
l’arpa d’un grillo!

Addio, oh mio cigno povero,
che i Tempi fuggono,
addio, giovane volto,
ala di talco!
Addio, tu sguardo attonito
d’angoscia e pallido!
Addio, viso che tolto
m’ha un tristo falco!

Non è che il piangere
che mi rimane
sul mio cammino:
sempre m’inghiottono
le fauci insane
d’un vil Destino!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XII Agosto AD MMXV

martedì 26 maggio 2015

Sogno scapigliato. Un Ritratto di Fanciulla

Presto è il crepuscolo,
suon la campana
l’Ave Maria,
vienmi una nobile
orma d’arcana
giovin Poësia,

viene gradevole
una signora,
giovine e molle
all’aura livida,
e m’innamora
come una folle

brezza d’un attimo
di bel mattino
quando ritorna
l’astro che illumina
ogni Destino
e il mondo adorna.

La scorgo al vicolo
sotto la lampa,
è bella e bruna,
bianca nell’Ecate
è la sua vampa
come la Luna.

Come una rorida
d’alba una rosa,
fresca passeggia
sotto una nuvola
che trista e ansiosa
non più lampeggia.

La chioma in riccioli
lunga e castana
questa fanciulla
ne tiene - e in brividi -
come una vana
ombra di Nulla,

e dolce e tremula
sotto la pioggia
alza l’ombrello -
orma di tenebra -
e da una roggia
ode un fringuello.

Sente il suo ràpsodo
che incauto canta,
tetro e celato
tra i quieti platani
dove s’ammanta
d’un tristo Fato.

Ella che volgesi
forse m’ha scorto,
m’ha letto il cuore
che svelto palpita
dove son morto
di tanto Amore,

mi scruta l’anima -
impallidisco -
lenta sorride
dal labbro timido
su cui svanisco
e che m’uccide;

mi vede pallido,
soffrente e scialbo
piucchè d’argento
qual piombo in panico,
sopra un prunalbo
ne intende ‘l vento,

ammira il cenere
dell’orizzonte
dove sta il lampo
che fiero spasima
e la mia fronte
senza più scampo.

La guancia in porpora
a me si muta,
non so che dire
a questa Najade
forse perduta,
m’odo morire.

Tremo e n’ho i brividi,
ella mi guarda
come rapita,
sente i miei palpiti
come maliarda
della mia Vita.

È bella è docile
come una viola,
è una saëtta
questa sua immagine
che mi consola
e che m’aspetta,

e rosea e giovine
e snella appare,
sembra una Dea,
sirena all’alighe
del greco mare,
una ninfea,

e in miele e morbido
giace il suo seno
nel fazzoletto
al collo pùdico,
come un veleno…
come un diletto,

e attenta e immobile
forse m’origlia,
dall’occhio bruno
mi scruta i fremiti,
batter di ciglia,
e son più d’uno;

e il cuor mi s’agita,
non è più domo
come in passato -
prima del fascino -
e sono un uomo,
e sono amato.

La mano è candida,
alto è il sembiante;
l’ammiro e mentre
scruto i suoi gomiti -
occhio d’amante -
miro il suo ventre,

le guardo l’iride,
l’ansie pupille
fatte d’ardore
come meteöre,
sono faville -
l’odo - d’Amore,

son Cieli ed Angioli,
Quei che n’avvera
tanto sentita
di sterili attimi
la mia preghiera
spesso smarrita.

Ma poso indocile
a un bel suo palmo,
scruto e m’acquieto -
n’ha un pegno all’indice -
tosto mi calmo,
sono irrequieto.

Ella n’ha spasimo,
pur volge altrove,
non sono amato,
e piango e làgnomi,
e mi commove
un tristo Fato.

Or che sto in lagrime,
adulterino,
quest’ansio cuore
forse mi strangolo;
e tu, Destino,
e tu, Dolore,

mi fate all’anima
tante irrisioni,
voi mi beffate
siccome un Dèmone
che le passioni
m’ha sempre orbate,

come una fregola
di vano vischio
che più si svelle,
e vo’ e mi soffoco
del vento al fischio!....
Oh bianca pelle,

oh squame candide,
di questa scialba
Notte la Luna:
guardate il rapsodo
che in fino all’alba
sogna la bruna;

ed or se aggràdavi,
se avete pièta
di questo core,
che i spasmi cessino
d’un’alma inquieta
di vano Amore!

Ai tabernacoli
d’un’ansia chiesa,
tra gli arsi ceri,
tra i suoni d’organo
mi si palesa
ella; e mi feri,

tu melanconico
tristo peccato,
tu che m’hai colto
come un adultero
fiore spezzato
che non è assolto,

qual imperterrito
reo peccatore,
quando Matteo
ne legge il parroco,
sclama al Signore:
«In Gloria Deo!»;

sento gli spasimi
d’un cuore impuro,
cerco vederla,
sempre rabbrivido,
e nell’oscuro
sembra una perla,

è come il stabile
fior della cera
delle candele
che ancor m’accusano,
sembra una sfera
di quieto miele…

e tra i bei cantici,
e sul suo viso
vengon le pene
che mi dà il Diavolo,
e il Paradiso
fugge, e il mio bene!

Ma pio e nostalgico
di lei nel cuore
sta un dispiacere
che non annovero,
forse d’Amore,
forse un dolère,

siccome l’incubo
del mio peccare,
e come un fiore
di giovin primula.
Vien meno il mare
del mio dolore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XIII Aprile AD MMXIV, Domenica delle Palme, Revisionata nel Dì: Martedì XXVI Maggio AD MMXV

lunedì 25 maggio 2015

Dagherròtipo di Montagna

Non so che dir a voi, se non addio!

Ricordo: il degherròtipo
dei monti candidi,
delle foglie innevate,
degli imi rivi,
gli orizzonti agli Spiriti,
e l'erbe roride
dei ghiacci, e le dorate
pietre tra i clivi.

Oh monti, oh monti, dell'inverno addio!

Rimembro le terribili
fronti dei valichi,
i soventi nevischi
nel freddo vento,
i seppelliti pascoli
sui colli gelidi,
la caccia, i corni e i fischi
in torneamento.

Oh vette, oh vette, dell'inverno addio!

Richiamo: gli alti e tremuli
sassi dei taciti
cervi, d'un falco insonne,
l'arie di vetro
di ghiaccio eterno e debole,
l'aspre casupole,
abbandonate donne
nel bosco tetro.

Oh valli, oh valli, dell'inverno addio!

Ricordo: lì il ricovero
gentile e misero
dopo la passeggiata,
il focolare,
dove sedevo estatico
muto di cantici,
sognando la mia amata
rosa, il ghiacciare.

Oh cime, oh cime, dell'inverno addio!

Rimembro: il vespro spastico
grido degli incubi,
e la vana preghiera
a un labbro sordo,
quando aspettavo un attimo
di quiete, d'aridi
spiri; e qui fu la sera,
su questo fiordo.

Oh l'Alpi, oh l'Alpi, dell'inverno addio!

Richiamo: tetre l'aquile
torve di spasimo,
il tramonto montano
fosco e invernale,
nubi di tubercolosi
in sangue languido,
nella Notte la mano
dell'Immortale.

Ma nel ricordo la Vita si tace,
rimàngon questi monti e queste vette,
restano l'alte valli e queste cime,
quest'Alpi ombrose; e non ho più né pace,
né viver, né sognare. V'è il sublime
canto che dice: oh mie montagne, addio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XXV Maggio AD MMXV

venerdì 8 maggio 2015

Introspezione effimera

Arduo è asserir d’un giovine
Poëta; l’epoca
strazia le giovinezze,
l’attese vaghe,
gli Ideäli morirono,
e a terra caddero,
onde non odon brezze
le giovin piaghe.

L’Amore è un incubo,
requie è un mistero,
i desidèri
non si folleggiano,
e ‘l cielo è nero,
tetri i sentieri.

Il Tempo inesorabile
urlando in spasimo
m’ha forse ucciso ‘l core,
l’ha pugnalato
nel vano e incauto attendere
del mio desìdero,
nell’incubo dell’Amore,
nel far del Fato.

Sognavo esistere
a un Sole tinto
di spene estrema,
si consumavano
i tempi, e avvinto
fui a un anatèma.

Anni inqueti passarono,
e i sogni - sòliti
ad avverarsi e all’uomo
e al visionario -
indarno meco vennero,
e poscia furono,
ombre d’un cieco atòmo,
d’un reliquario,

ossame pavido,
nell’urna ignuda,
cenere muto
nel fosco loculo,
la Sorte cruda,
un truce liuto,

spettri che tetri vagano
ghermendo l’anime,
tombe viventi al Sole,
disonorate,
serpi che nel mio spirito
corrodon l’alito
d’Iddio, ‘l stel delle viole,
le singhiozzate

onde del piagnere,
acque del duolo,
rivi feroci
che rincorrendosi
spiccano ‘l volo,
martiri in croci,

stille, l’Ondine - lagrime -
del pianto reduce
della pioggia d’aprile,
d’una vecchïaia
che nella culla irròrasi,
lenta e flemmatica,
senescenza infantile
che strilla e abbäia.

Secolo vindice,
orbe fatale,
volgo a uno specchio
e l’ombre s’ergono
d’un immortale
giovine vecchio.

Tempi infelici ambivano
cullarmi gl’incubi,
nel Caos eterno affissi
l’occhio tremante,
in un venir di brividi,
d’affanni apatici,
e mestamente i’ vissi,
sonno sognante.

Amavo l’attimo
del sognar lieto,
ma odiavo intanto
la Vita insolita,
e gaudio e inquieto
ero in tal manto.

Qui i’ trascorrevo gli attimi
nel vano lèggere
lambendo l’avvenire
di molli aurore,
lumi che più non sorsero
nell’acre tènebra,
e fu eterno ‘l soffrire,
vivo ‘l dolore.

Vane le Lettere,
vano ‘l Pensiero,
indarno ‘l gelso
volto di femmina,
un cimitero,
sepolcro eccelso.

Gli orizzonti si chiusero,
mi seppellirono
le cure e l’ansie e i pianti,
speni irrisolte
che secrete scorrèvansi
in freddi tremiti,
e sudate e ne’i canti
di Morte avvolte.

Cantavo all’Ecate,
e al scialbo giorno,
e vanamente
lambivo incognito
viso d’intorno,
donna pallente.

I Tempi mi rapirono
quel ch’è l’effimero
sogno, e i ridenti giorni,
l’aprile, e ‘l maggio,
e i concitati palpiti,
donde qui m’agito,
secco qual ramo d’orni,
debil foraggio.

I tempi vennero
della vendemmia,
caddi alle falci
di tanti secoli,
della bestemmia,
le cetre ai salci

Non mi resta che ‘l rapido
e inarrestabile
tramonto della Vita,
e della spene.
Poëta vano, e giovine,
smarrito ràpsodo.
Una fiamma assopita
è ‘l sangue in vene!

Cupo son, lugubre
arido e mesto,
sono uno spettro
tremulo e apatico
d’un re funesto,
d’un vano scettro.

Non mi resta che vivere
siccòme un platano
alle Furie del vento,
Erinni in fiore.
Non posso che trascòrrermi
serrando l’Anima,
e senza Sentimento,
e senza un core.

Son tregua ignobile
voce d’un Nume,
di gioventù,
Iddio che sclàmasi
in spento lume:
«Son Quei che fu!».

Non questo è ‘l mondo nobile,
nugolo flebile
pe’i giovini Poëti,
la Poësia.
Orbe di vecchi scheletri,
morbi spasmodici,
son prosciugati i greti,
e corre via

Vita medesima,
la Creäzione
è decaduta.
Domina Sàtana!
La mia canzone
muore perduta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì VIII Maggio AD MMXV