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martedì 23 giugno 2015

Ode dinnanzi alla Sindone

Il duomo è tetro e lugubre,
le volte timide,
nel silenzio dei ceri
giace un lenzuolo,
splende un'orrenda immagine
di sangue e spasimi,
e i lumicini alteri
volgono al suolo.

La Chiesa è cupa e in tenebre,
mesto il Santissimo,
piange di strazio e ardore
l'ostia che vive
nel vitreo tabernacolo
che orrido palpita
d'un insano dolore,
vene sorgive

d'un cuore che si sanguina,
nel pianto orribile
d'una donna che mesta
qui non si scorge,
e le campane tacciono
la nenia funebre,
e grida una Tempesta
che non s'accorge

di quel che i cuori sentono,
di ciò che credono,
i dubbi, e i Sentimenti,
e incauta Fede,
e in essa vanno i turbini,
si scoppia il fulmine
d'un Amor che nei venti
ne muove il piede.

Sono davanti all'arida
seta sindonica
d'un uomo crocifisso
in Palestina,
e ascolto e odo i suoi gemiti,
dolor di Martire,
e l’occhio mio gli è affisso,
guancia divina.

Mi prostro a questi brividi
che si distendono
nel mistero del cuore,
nel mare incauto
dove l’onde s’infuriano
e poi si placano,
nel volto dell’Amore
un suon di flauto,

e gemo al dagherròtipo
del sacro termine,
della Vita che crea,
e che è Infinito,
all’ultimo crepuscolo
d’un figlio d’uomini,
che per la stirpe rea
morì smarrito,

e piango al santo culmine
d’un ineffabile
sacrificio del Cielo,
Morte feroce,
su due travi che alzarono
verso le nuvole
e al di là del lor velo
la santa Croce.

Così vedo i drammatici
aspri e spasmodici
segni dei ferri, e cola
immoto e cupo
il sangue insopportabile
che va a discendere
dalle tempie alla gola
in pasto a un lupo,

i flagelli che gridano
al corpo immobile
d’un uomo che si spoglia
del suo Divino,
le spine che si fremono
e che colpiscono
ogni sua insana doglia,
empio Destino,

le percosse che gemono,
e che impazziscono,
la lancia al suo torace,
il cuor aperto,
gli sputi che si mòrmorano
al viso debole,
agli occhi della Pace,
eterno il serto.

Sei Tu! E andasti al patibolo,
per questi Popoli,
che soffristi l’arcano
del Fato tetro,
che in molti t’umiliarono,
e che t’irrisero,
soffrire disumano,
fràgil qual vetro,

Tu che vincesti l’Erebo,
l’Erinni indocili,
che ergesti gli Evangeli
ai peccatori,
Tu, nato da una Vergine
docile femmina,
Re e Spirito dei Cieli,
nembo d’ardori,

Tu che ne sei il Paràclito
Figlio unigenito,
e che moristi ucciso,
giovane, e nudo,
Tu che governi i nugoli
e all’indicibile
Padre donasti un viso,
nel strazio crudo.

Sei Tu! Signor degli Angeli,
e di quest’eremi,
che il suolo hai battezzato
nel sol tuo fuoco,
e che proteggi i monaci,
e il folle e il misero,
l’impuro, e intemerato
sospiro, e poco

può farti contro il Sàtana,
bieco Lucifero,
e Tu sei qui, il Signore,
Sovrano immenso,
Tu che vai oltre la cabala,
oltre ogni valico,
Tu che sei il Dio, l’Amore;
e guardo e penso:

quanto son miserabile,
e quanto piccolo,
condannato al potere
di questa terra,
al peccato e agli spasimi,
e a queste lagrime,
e a perenne dolère,
e a orrenda guerra.

Ma Tu sei qui; e in quest’attimo
accorri placido
a perdonarmi - e tanto -
e a dar speranze,
Tu che sulla tua Sindone
hai impresso l’iride
d’innamorato pianto
con tue doglianze.

Sia gloria a Te, Re nobile,
stirpe di Davide!
Gloria sia del tuo Tempio
ai Cavalieri!
Gloria ai Savoia, legittimi
sir di tua immagine!
Gloria al tuo strazio, all’empio
raggio dei ceri!

Amen

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Notte tra Lunedì XXII e Martedì XXIII Giugno AD MMXV



giovedì 4 giugno 2015

Il Cantico di Pontiac alla Figlia

Figlia mia, guardami,
e vien vicina
nel lungo viaggio,
e intorno osservale:
la fresca china,
e là, il villaggio,

e i nembi liberi,
la prateria,
e i nostri monti
che nivei splendono
di Poësia
per gli orizzonti.

Figlia mia, prendimi
le mani e meco
rema a quest’onde
del fiume intrepido,
un flutto cieco,
d’acque errabonde,

e guarda: i flebili
boschi, gli abeti,
le rive in fiore,
tra i nembi l’aquila,
e gli irrequieti
passeri; e il cuore

donna, fortifica,
scorriamo insieme
questo torrente,
quest’alghe, ed apriti
all’ansia speme
d’un uom gemente.

Figlia mia, Spiriti
ci stanno intorno,
son tutelari,
non temèr, chiamano
in Notte il giorno,
i stral lunari,

e allor contemplale:
le nostre terre,
strette nell’ira
d’un volto pallido
che sparge guerre,
in folle spira,

i quieti pascoli,
l’erbe e il bisonte,
e il sconfinato
nel ciel crepuscolo,
il fresco fonte
intemerato.

Figlia, avvicinati,
al padre stanco
che t’ha voluto
sul fiume, vindice
dell’uomo bianco,
volto perduto,

e che va incognito
agli Appalachi,
tribù cercando,
che sugge l’acido
dei tristi bachi
quasi ansimando;

e non far tremule
smorfie. Paüra
non devi avere,
lo vuol lo Spirito
della Natura,
del tuo dovere.

Siamo due intrepidi,
due vagabondi,
strazi e ribelli,
siam come i fulmini -
quelli iracondi -
tetri di pelli.

Figlia mia, vòlgiti,
è il tuo Destino,
sei la guerriera
di questi miseri
spettri in cammino
per la riviera,

e sulle ruvide
selve insicure
andrèm a urlare
guerra alle candide
impronte oscure
di lor che il mare

un dì varcarono
per schiavizzarci,
toglierci il vento,
tenebre d’uomini,
per denudarci
pe’ un po’ d’argento.

Figlia mia, ascoltami,
noi moriremo
per l’avvenire.
Quel giorno - l’ultimo! -
insièm saremo,
un sol soffrire.

Perché nell’anima
il Pellirossa
ha tanto cuore.
L’invidia il pallido,
freddo com’ossa,
freddo d’Amore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

In Memoria di Pontiac, capo degli Ottawa, che resistette in armi alla prepotenza coloniale inglese e che tra le sue tribù fu modello di umiltà e di virtù.



Giovedì IV Giugno AD MMXV

lunedì 1 giugno 2015

Fantasia romantica - L'eterna Notte delle Villi

Nel ciel notturno e lugubre
e a un monte intrepido,
tra i fatui spettri s’erge
tetra del Nulla
la chioma irremovibile
d’un scialbo Spirito
che nel vespro s’immerge,
una fanciulla.

Un fior scheletrico,
ai piè sta un gelso
cranio argentato
della Luna fuggevole,
decreto eccelso
d’un empio Fato;

e son lontani i loculi,
ombrosi e timidi
del vecchio cimitero,
dell’ossa antiche,
dove consunti e putridi
giaccion gli scheletri
all’impronta d’un cero,
le tombe aprìche,

e il vento cerulo
grida alle Norne,
a quest’Erinni
dei monti nordici,
le vette adorne
di funebri inni.

Or lenta e spaventevole
l’ombra si scalpita,
vestita della Luna,
cupo madore,
trasognato cadavere,
un miserabile
crine di donna bruna,
femmina in cuore,

e mesto e torpido
rivolge il volto
all’orizzonte
regno dell’Ecate,
e al flutto folto
d’un tristo fonte;

e mentre un lupo s’ulula,
fauce famelica,
al far di mezzanotte
e ai tocchi infausti
spire di guance vergini
da terra sorgono,
a tremolanti frotte,
e sono esausti

occhi nevrotici
di spente donne,
scarni fogliami
di ridde apatiche
in falbe gonne,
cenere e ossami.

Allor arpe fatidiche
al bosco suonano,
son accordi spettrali,
muti singulti
di femminini cantici,
per questi talami
tetri e cimiteriali,
rimasti inulti,

e urla spasmodiche
vanno irrequiete
per la foresta,
e si rosseggiano,
lampo le miete,
l’acre Tempesta,

e fosche e insane gemono,
in trilli flebili,
e invitano alla danza,
al ballo eterno,
e le falbe corëuti
folli ne gridano
una cupa romanza,
canzon d’Inferno,

canto salmodico
al re Destino,
alla purezza
di Morte vergine,
al fior meschino
della bellezza;

urla che si distendono
a quel non scibile
giorno del matrimonio
che si fuggiva
con questa tomba giovane,
orba e venefica,
voler d’insan Demonio,
Notte corriva,

perenni spasimi
di spettri puri
tra i pruni e i fiori,
lor che si vagano
tra i boschi oscuri
dei smorti Amori.

Così le donne danzano,
bàllan frenetiche,
e son le passacaglie
del dì perduto,
le danze che si girano
e che s’avvolgono,
pallenti come paglie,
al suon d’un liuto,

e son le fragili
quiete gavotte,
che ne lagnava
un vespro il cembalo
per lieta Notte
che se n’andava,

e son le note, l’agili
gonne tra i turbini,
i freschi minuëtti
del pianoforte
che gli amanti suonavano
per sale morbide,
e i dubbi, e i lor sospetti,
dado di Sorte.

Gli spettri intorno girano,
girotondeggiano,
si danno per le mani,
ossi risorti,
e danzando ne fischiano
sospiri tremuli,
coll’eco van lontani,
nei monti assorti,

e v’è Proserpina
che un flauto suona,
ansanti trilli
che si proclamano
nel ciel che tuona
voci di Villi,

e in mezzo a questo circolo
balla uno Spirito,
tocco di polonese,
fanciulla bionda
che ballando desidera
dai spettri evadere,
là, verso il suo paëse,
ma l’iraconda

calca terribile
la manda indietro
dovunque volge,
ed ella lagrima,
fràgil qual vetro,
tra queste bolge

invano contorcendosi
e spasimandosi
il cimitero cerca,
brama una croce,
e si vuole diffondere
nel Nulla orribile,
e colle Villi alterca,
Fato feroce.

Si lagna ai Dèmoni,
l’occhio l’è pianto,
vuole morire
per sempre. Oh misera!
Odia quel canto
che deve udire.

È colpa irrimediabile,
insostenibile
essere morta prima
d’un fior nuziale,
del talamo dei zefiri
d’imene docile?
E costei qui sublima
urlo spettrale.

I pepli piegano
esterrefatti
sopra la terra,
e poi s’ondeggiano,
e a questi tatti
fanno la guerra,

ed ella immota supplica
le Furie formide,
e s’inginocchia e prega
la sua Regina;
è in Vita che non vivere
come potrà essere?
E questo viver nega,
giace supina.

È costei un loculo
che morto vive,
per sempre, a sera
nel bosco s’agita,
acque sorgive
d’una riviera,

è un’urna oscura e ruvida
rapita ai funebri
fiori della ghirlanda,
della sua bara,
ai mesti e truci salici,
e ai torvi frassini,
di sepolcrale landa,
ombrosa e amara,

agli imperterriti
neri cipressi,
ai lumicini
dei sassi lugubri,
ai vermi stessi
dei suoi Destini,

alle sue cadaveriche
spoglie che cambiano
il casto seno e il ventre
e il mento, e il piede
in vil, bavoso cenere,
in sale putrido,
e qui si danza, e mentre
balla n’ha fede.

Ma la croce che misera
ha in desideri,
non può trovare,
e grida ai nugoli
dei spettri altèri,
irato mare.

Tra i balli demoniäci
l’altre ricordano
gli Amori abbandonati
tra danze slave,
e allor questa miserrima
tosto scherniscono
inneggiando ai suoi Fati,
e alle sue bave,

e son crisalidi
di tombe spoglie,
odio perenne
al ciel medesimo
di queste doglie,
al Nume indenne,

e atroci si scatenano
e si tormentano
in nivee giravolte,
coi pepli scialbi
che alla Luna si splendono
di fuochi tiepidi,
e dalla Morte assolte
gràffian prunalbi,

e i nomi incidono
dei loro amanti,
con tristi cuori
donde le ràdiche
strappan danzanti
in rei furori,

e da costoro ottengono
gli inesorabili
fili del dio Destino,
dell’aspra Vita,
e qual Norne recidono
quest’umàn aliti,
Demòne peregrino
per via smarrita.

Allora mietono
vite d’Amore,
scrivono il nome
dell’uomo vivido
di lei che il cuore
ne strazia come

un pianto lamentevole,
che no’l desidera,
che vede il fil reciso
del suo adorato,
che non lo può raggiungere,
e che va a gemere
lungi dal Paradiso,
invan bramato;

e or più spasmodica
per ottenere
un po’ di quiete,
aspetta il cerulo
giorno, e a cadere,
dell’alba ha sete.

Ma questa Notte rigida
inestinguibile
lontan dal giorno pare,
e queste danze
crudeli si risuonano,
e la costringono
sempre a ballare
queste romanze;

e soffre pallida
un Fato crudo,
sogno, non muore,
lamenta tremula,
il piede nudo,
strazio d’Amore,

e naufraga il suo cuore
al pensier della tomba, al suo cuscino,
cranio di donna che geme al Destino,

e dell’altre il furore
verso costei si divampa e s’accende.
Ma ecco che l’alba ne giunge che attende.

Impietosito il Signore
costor condanna a Notte sempiterna,
e la misera donna alla gioia superna;

e quest’è il tenebrore
della Notte dei spettri e delle Villi,
di chi all’Amore ne schernisce i trilli.

Notte romantica,
di fantasia,
del Genio frutto
che in cuor mi spasima
di Poësia,
pianto di lutto;

pianto degli uomini
che nella Notte
e nei fantasmi
lievi pröiettano
quei che son frotte,
i propri spasmi,

pianto di gemito
sempre irrisolto
per quest’Amore
nel Fato tremulo,
umano e avvolto
nel proprio cuore….
E il Destin grida invano
a un Dio che è qui sovrano!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

In Memoria di C. J. H. Heine e di A. C. A. Adam



Lunedì I Giugno AD MMXV