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lunedì 30 maggio 2016

La Martyre - La Martire

Quando il tuo labbro sarà àër di fuoco,
e incenerito morirà il tuo crine,
e sarai vento,
quando il tuo spiro arderà, e il falbo e fioco
fiòr di tua gioventù avrà la sua fine,
nel patimento,
e quando salma esànime sarai
tra l’urlàr delle donne e gli anatèmi,
arsa e consunta,
quando muti saranno i tuoi ansi lài,
e la tua bocca non avrà più speni,
orba defunta,
quando non resterà di te che un tàcito
cènere, forse nutrirai le viole
come un fango di Vita; e
quando si scioglierà il tuo corpo impàvido, e
ghermirai le più arcane ombre del Sole,
tu per sempre assopita,
sarai alba nel tramonto dei tuoi Sogni,
e una fiamma ti avrà baciata al seno,
voracemente.
E sarà il bacio del tuo Cielo estàtico,
gioja e soffrìr, e un liquore e un veleno
della tua mente,
l’ùltimo Sogno, quello che è più eterno,
tu, priva di urna ove riposàr quieta;
e sarai vento nell’àlito ardente
di Dio. E qui io che ti prego
vorrei sapère come sia il tuo bacio.
Prega, oh Donna, per me!
Oh Giovanna di Dio!  


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Romanticismo francese, Santa Giovanna d'Arco, XIX Secolo



In Dì di Lunedì XXX Maggio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

giovedì 24 settembre 2015

Ave Maria

L’inverno è giunto e s’appressa un nevischio,
e Tu, divinamente bella, e casta,
e pura, e eburnea, oh Tu, Santa Maria
con quest’ultimo canto dell’allodola
e col meriggio del precoce Sole
forse vieni così a rianimàr soffi…
aër di Vita in questi nostri cuori;
e mentre il vento ulula e fa il suo fischio,
e dove regna un ghiaccio iconoclasta,
allor percorri Tu la nostra via,
qui, come in Primavera - oh sì - un’allodola
il fresco bosco e il campo delle viole,
e consacrando i cieli, soffi… e soffi… e
soffi implorando, e mondando i dolori.
Ave Maria, ave, o tra le benedette
la donna eterna, che il Signor hai teco,
di grazia il volto femminino e lieve;
sii Tu, sii benedetta, e benedetto
al par di Te le carni del tuo seno,
Cristo Gesù! Santa Maria, oh Maria,
che sulle nevi regni delle vette,
‘ve l’orizzonte Iddio lì porta seco,
guancia di porpora e di molle neve,
oh Tu, Tu, il crine più lieto ed eletto,
oh di bellezza il cuor che è quei più pieno,
Santa Maria, oh Tu, la Madre d’Iddio,
prega per noi che nel peccato ergiamo
l’insuperbita fronte… prega… prega
per noi… prega per noi! Finché non vien
l’ora tremenda della nostra Morte.

Amen


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì VII Dicembre AD MMXV

martedì 8 settembre 2015

Dies Irae

Odo tuonàr il Temporale, e il giorno
febbrilmente si oscura; e cos'è il grido?
Baldo corsiero s'avanza, e d'intorno
vedi, cuor mio? che versa sangue? E a un lido
di cenere e ossa e di deserti falbi
perduto ei volge; ed io impietrisco? e in manto
di nero lutto, che ho in petto? e che canto?
E sento i tuoni e scorgo i lampi scialbi;
e chi è quel Mostro che grida furente?
Esci! Esci! Oh mio Orco! dal cuor, dalla mente!
E così sento in me un'empia frattura;
e cos'è Iddio? e cos'è la mia Natura?

Ombre di Spiriti
vanno, e la Notte
svelta qui arriva,
e tremo ai turbini,
le sciolte grotte,
la spenta riva.
Orme di pallide
chiome di Vandali,
grida di bellici,
di cavalieri,
ascolto, e m'agita
il senso l'Anima,
e giaccio tremulo
sui miei sentieri.
E vedo: giungono
i suoi Demòni,
mi scruta Sàtana
con i suoi tuoni!
Oh cuore mio, misero
a che i tuoi palpiti?
Perché tu vuoi tremare?
E che mai dici? 
Trema! Risplende il Giudice
dei ciel, dei nugoli;
e ancora vai a sognare?
Ti maledici!
Sèntilo; e spèzzati!
Urla il Demonio,
ti prende l'alito,
è un matrimonio:
nozze tra due Anime
irremovibili,
tremanti e immobili,
l'una è l'Amore,
le guance pallide,
il ciglio rorido,
gli umori gelidi,
l'altro è il dolore.
Giorno è irascibile,
del suo Giudizio,
e tremo e piango,
e sono misero
morto nel vizio,
prono nel fango.

Senti, oh mio cuore? Non odi che ei assale
le vette antiche? e i ruscelli di fuoco?
Lo sai? Lo sai? E non tremi al Temporale?
Anima nuda che hai vissuto poco!
Perché non tremi? Guarda! Ecco le palme
dei Martiri! E non gridi? Ecco le divine
trombe furiose! Ed è questa la fine?
E chi... e chi salverà le nostre salme?
E mentre par che io stia qui per sognare
una Croce mi pòrtan l'onde e il mare.
Chi sei tu, oh Cavalier? Fai tu la Storia?
Oh mio Signore, pietà! Oh Re di Gloria!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì VIII Settembre AD MMXV

martedì 23 giugno 2015

Ode dinnanzi alla Sindone

Il duomo è tetro e lugubre,
le volte timide,
nel silenzio dei ceri
giace un lenzuolo,
splende un'orrenda immagine
di sangue e spasimi,
e i lumicini alteri
volgono al suolo.

La Chiesa è cupa e in tenebre,
mesto il Santissimo,
piange di strazio e ardore
l'ostia che vive
nel vitreo tabernacolo
che orrido palpita
d'un insano dolore,
vene sorgive

d'un cuore che si sanguina,
nel pianto orribile
d'una donna che mesta
qui non si scorge,
e le campane tacciono
la nenia funebre,
e grida una Tempesta
che non s'accorge

di quel che i cuori sentono,
di ciò che credono,
i dubbi, e i Sentimenti,
e incauta Fede,
e in essa vanno i turbini,
si scoppia il fulmine
d'un Amor che nei venti
ne muove il piede.

Sono davanti all'arida
seta sindonica
d'un uomo crocifisso
in Palestina,
e ascolto e odo i suoi gemiti,
dolor di Martire,
e l’occhio mio gli è affisso,
guancia divina.

Mi prostro a questi brividi
che si distendono
nel mistero del cuore,
nel mare incauto
dove l’onde s’infuriano
e poi si placano,
nel volto dell’Amore
un suon di flauto,

e gemo al dagherròtipo
del sacro termine,
della Vita che crea,
e che è Infinito,
all’ultimo crepuscolo
d’un figlio d’uomini,
che per la stirpe rea
morì smarrito,

e piango al santo culmine
d’un ineffabile
sacrificio del Cielo,
Morte feroce,
su due travi che alzarono
verso le nuvole
e al di là del lor velo
la santa Croce.

Così vedo i drammatici
aspri e spasmodici
segni dei ferri, e cola
immoto e cupo
il sangue insopportabile
che va a discendere
dalle tempie alla gola
in pasto a un lupo,

i flagelli che gridano
al corpo immobile
d’un uomo che si spoglia
del suo Divino,
le spine che si fremono
e che colpiscono
ogni sua insana doglia,
empio Destino,

le percosse che gemono,
e che impazziscono,
la lancia al suo torace,
il cuor aperto,
gli sputi che si mòrmorano
al viso debole,
agli occhi della Pace,
eterno il serto.

Sei Tu! E andasti al patibolo,
per questi Popoli,
che soffristi l’arcano
del Fato tetro,
che in molti t’umiliarono,
e che t’irrisero,
soffrire disumano,
fràgil qual vetro,

Tu che vincesti l’Erebo,
l’Erinni indocili,
che ergesti gli Evangeli
ai peccatori,
Tu, nato da una Vergine
docile femmina,
Re e Spirito dei Cieli,
nembo d’ardori,

Tu che ne sei il Paràclito
Figlio unigenito,
e che moristi ucciso,
giovane, e nudo,
Tu che governi i nugoli
e all’indicibile
Padre donasti un viso,
nel strazio crudo.

Sei Tu! Signor degli Angeli,
e di quest’eremi,
che il suolo hai battezzato
nel sol tuo fuoco,
e che proteggi i monaci,
e il folle e il misero,
l’impuro, e intemerato
sospiro, e poco

può farti contro il Sàtana,
bieco Lucifero,
e Tu sei qui, il Signore,
Sovrano immenso,
Tu che vai oltre la cabala,
oltre ogni valico,
Tu che sei il Dio, l’Amore;
e guardo e penso:

quanto son miserabile,
e quanto piccolo,
condannato al potere
di questa terra,
al peccato e agli spasimi,
e a queste lagrime,
e a perenne dolère,
e a orrenda guerra.

Ma Tu sei qui; e in quest’attimo
accorri placido
a perdonarmi - e tanto -
e a dar speranze,
Tu che sulla tua Sindone
hai impresso l’iride
d’innamorato pianto
con tue doglianze.

Sia gloria a Te, Re nobile,
stirpe di Davide!
Gloria sia del tuo Tempio
ai Cavalieri!
Gloria ai Savoia, legittimi
sir di tua immagine!
Gloria al tuo strazio, all’empio
raggio dei ceri!

Amen

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Notte tra Lunedì XXII e Martedì XXIII Giugno AD MMXV



venerdì 12 giugno 2015

La Ballata a un Cavaliere errante

Non so perché, nell'errar, cavaliere,
tu volgi il volto contristato e muto,
silenzioso pe'l bosco e pe'l perduto
colle, e svanisci all'ombra delle sere.

Non hai che un palafreno, e un fulvo manto,
la spada al fianco, una lancia alla schiena,
e il mento tuo s'allunga a un pelo affranto,
la barba bruna e invecchiata; e la vena
sanguina trista alla pupilla amena,
poiché tu sei uno Spirito qui insonne,
scandalo insano d'uomini e di donne,
ed è il tuo sguardo falbo come cere.

Nascostamente ti seguo, io scudiere,
e nel tuo errar ti pizzico il mio liuto.
Ma in questi tuoi occhi non t'ho mai veduto,
mi sei lontano alle foreste altère.

Non so perché, Messèr, sei un pellegrino,
ne perché tu rifiuti ogni tenzone
che l'uom propone e della cacciagione,
né so qual sia l'errante tuo Destino.

Ma ho scorse un dì l'insanguinate mani,
dita di sangue per Furia d'Amore,
e ho visto che il tuo sguardo in fin i cani
intenerisce per lungo dolore;
e tu d'un feudo eri forse il signore,
e or per un monte terribile e arcigno
udendo il sol cantar d'un mesto cigno,
vanamente t'aggiri, e il tuo cammino

lì si lamenta all'ombre d'uno spino,
e canta e lagna un'arcana passione
che più cortese d'un'ansia canzone
ti proferisce un mistero divino.

Non so perché hai sguainato la tua lama,
e di certo la spingi or nella pietra,
e sceso dal destriero e in mezzo all'etra
dell'Alpe, siedi e il Sole di dirama.

Qui t'inginocchi, e a pregare t'accingi,
e la tua lancia cola sangue e umori,
e alle tue mani il tuo pianto ne stringi,
e implori la pietà per tanti errori,
e nei venienti e oscuri tenebrori
siamo soli, or tu ed io e il tuo maëstrale,
muti e lontani, e presso l'Immortale,
e tu ti lagni a una perduta dama.

Non so qual sia nel bosco la tua fama,
né qual arcano il tuo ciglio penètra.
Ma so che adori il suonar di mia cetra,
suon che il tuo cuore segreto ricama.

Non so che a questo monte tu hai pregato
per la campagna che t'allontanava,
per il rivale che ti tormentava,
e per me, tuo scudiere, e pel mio Fato.

Non so che tu ne sanguini perenne,
e che il tuo labbro è un soffiar dell’Eterno,
e che in te, o cavalier, il mondo è indenne,
un rosso fiore d’un nembo superno,
e che sei il fuoco che scioglie l’inverno;
e tu, che vaghi e sempre e senza meta,
per questo, o prode, concedimi pièta,
oh tu errante, oh tu l’intemerato!

Non so che a questo colle tu m’hai amato,
e che dal vespro che qui mi tentava
la tua preghiera certo mi salvava;
e a te, io scudièr, mi sono avvicinato.

Oh me, me sciagurato!
Non ho compreso, o cavalier, tuo cuore,
tu che sei Dio, e che sei l'errante Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XII Giugno AD MMXV

giovedì 28 maggio 2015

XXX Maggio - Ode alla Vergine di Rouen, ovvero La Passione di Santa Giovanna d'Arco

I. Dagli atri urlava una canzone estrema,
ed ella allor l’udiva; ed era un liuto
d’un ignoto che ergeva un anatèma.

Fu come il canto che a un castel perduto
mestamente lagnava un Trovatore,
quand’ella stava dinnanzi a un re muto;

e questo labbro ripeteva all’ore
un Miserere: «Pietà, oh mio Signore!».

II. Oh Giovanna, per questo io gemo e canto
le doglie atroci dell’ultimo giorno,
perché di te il ricordo non sia infranto.

Dico alle nubi del Cielo tuo adorno
l’eco dei tuoi dolori, e il spasmo indìo
di te che forse qui mi stai d’intorno;

e tu, fanciulla, ascolta il cuore mio,
prega per me, e per noi, e supplica Iddio!

III. E giunse l’ora temuta e tramata,
Sàtana venne a strappar le catene,
ed ella si giaceva trasognata.

Sognava forse le campagne amene
che un giorno abbandonava, e i cardi e i fiori,
e dimentica fu delle sue pene.

Ma l’Inferno irrorava i suoi terrori,
fiamme giulive, terribili ardori!

IV. Or canto una fanciulla morta al fuoco,
cenere tetro di giovani fiori,
canto la Morte, gli estremi dolori,
e il Sole all’orizzonte che s’è fioco:
non c’è un Amore nemmen in canzone
che non sia fiamma, supplizio e Passione!

V. Era bella, era giovane
e bionda e candida,
falba come la veste
rozza e discinta,
come le bianche nuvole
verso il crepuscolo,
ed era alle funeste
catene avvinta,

era una donna povera,
fu miserabile,
e andava trascinata
da empi demòni,
come nell’onde i turbini
scorrono l’àlighe,
ed era addolorata
cogli occhi proni;

e ammirava la cerula
pelle, l’estatico
e tetro mezzogiorno,
e l’orizzonte
che ardeva in mezzo ai palpiti
d’un nembo pallido,
del quieto Sole adorno
alto su un monte,

ed era un volto debole,
occhio di femmina
che la bestemmia urlava
infame strega,
che l’empia piazza immobile
ergeva in tremiti,
che in furia le imputava
l’empia congrega.

Lunghi i capei scendevano
al collo tremulo,
e tremavan le mani
le braccia ignude,
dove la veste lacera
scopriva i gomiti  
contristati d’arcani,
le doglie crude,

e stava il labbro in spasimo,
contorto in brividi
presso i morsi agitati
della paüra,
lungo i ferri terribili
del legno, il Dèmone,
si compivano i Fati
della Natura,

e il volto pron, spasmodico
cadeva al cumulo
del legno, la catasta
su cui era un piolo,
sul qual gridò il patibolo
del fuoco spastico,
ed ella e pura e casta
piangeva al suolo.

Aveva in cuor incogniti
pensier, rammarico,
sogni privi d’un volto
di giovinezza,
ricordi incerti e anonimi
che si fuggivano
dal tormento disciolto,
ignea la brezza,

martìr secreti indocili,
segreto spasimo,
e barcollava bianca
tra l’alabarde
che al cielo minacciavano
furie diaboliche,
e si fremeva stanca
lungo le barde,

ed ella era l’eretica,
sprezzo eucaristico,
era la visionaria
eresiärca,
occhio d’insani Dèmoni
che ne inquietavano
le terre e i boschi e l’aria,
e il Patriärca,

era la donna in fregola,
bruta caligine,
che in vero amava il Cristo,
e ch’era santa,
era la giovin vittima
d’un truce vescovo:
Sàtana è giunto, è visto,
il Verbo incanta.

Ella saliva al talamo
del fuoco angelico,
e lo sguardo perduto -
casto piacere -
porgeva ai sgherri orribili,
e i polsi incolumi,
e i piè, e il costato muto
a un vil dolère,

chiudeva i tristi pollici
al legno timido,
le vene perforate
dal vento fiero,
e sanguinò invisibile
tralci di turbini,
caviglie raggelate
a un spino altèro,

come facea lo Spirito
che in furie all’incubo
scorgeva denudato
sopra due travi
che lente sanguinavano
presso le Vergini,
col sogghigno chinato
steso sui schiavi,

come quest’Uom davìdico
col mento lacero,
ed ella alla sua schiena
soffriva i tocchi
dei legni che sferzavano,
incauti fulmini,
e sanguinò la vena
dei cupi suoi occhi.

I popoli gridavano,
nella sua porpora
mirava l’assassino
la piazza in furia,
e tradito il Pontefice
e l’ecclesiastico
dovere, e il suo divino
pegno e la curia,

faceva omaggi all’anglico
paggio satanico,
e coglieva il denaro
di questa taglia,
di questa mesta e misera,
di quella femmina
che lo rendeva avaro
per la battaglia.

Allor la dama il ruvido
ramo dei platani
scalza saliva e mentre
venne legata
chiedeva invan un simbolo,
bramava stringere
al condannato ventre
Croce dorata:

gli sgherri orrendi presero
le corde in fremiti,
al ceppo il destro piede,
dopo il mancino,
e i giovin fianchi avvolsero,
e li stringevano
bestemmiando la fede,
inno al Destino,

strìnser le forme vergini
del petto in ansimo,
il collo ignudo al pioppo,
le guance rosse,
tristi la schiaffeggiarono,
e il suo carnefice
qui camminando zoppo
ruppe dell’osse;

ed ella allora l’indole
alzava in lagrime,
gemeva in cupo pianto,
e singhiozzava,
e le diceva il Popolo:
«Vanne a un prostibolo!»,
e il cuore l’era infranto,
e sibilava.

Gli strali la coprivano
del Sole insolito,
e come un Mostro i fumi
del fuoco acceso
di strazi l’assalivano,
e sospiravano
di stelle come i lumi
nel ciel sospeso,

e le fiamme s’alzavano
tra i tetri frassini,
e i piedi sofferenti
e le caviglie
truci solleticavano
e si gemevano,
e i velami aderenti
a queste chiglie

di queste sete d’aride
ragne infiammabili,
bruciarono i polpacci
giovin nel grido
delle labbra che urlavano
al Ciel le suppliche,
e in fuochi i catenacci
e il rogo infìdo;

ed ella ormai frenetica
e lamentevole
abbassando lo sguardo
li perdonava,
come spirando a Davide
paradisiäco
di Lui l’eterno dardo
ne seguitava,

e ruppe i lacci ai gomiti
del fuoco al fulmine,
le man in prece univa,
e tosto ardeva,
i veli si disciolsero,
la denudarono,
la Morte l’assaliva,
e si gemeva…

ed ella lagrimàvasi,
nel duol patetico,
sempre gridava il nome
del suo Gesù,
e divampava in formide
lingue di Spiriti
e si scorgeva come
ella già fu.

Così attristato un parroco
a quest’immagine
d’empio fuoco e di fiamma
porse una Croce,
con rigore monastico,
egli un ascetico,
la pose sul diaframma
a brace atroce.

Quando i vampar morirono
non fu che il cenere;
ma tra l’ossa bruciate
apparve un cuore:
rosso, rubino, e incolume,
pegno d’un Angiolo,
carni meravigliate.
Vinse il Signore!

In Gloria Dei, Iesus Christi, et Sanctae Suae Johannae Arci, Virginis Galliae, Virginis cordis mei. Amen

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XXVII Maggio AD MMXV