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giovedì 28 maggio 2015

XXX Maggio - Ode alla Vergine di Rouen, ovvero La Passione di Santa Giovanna d'Arco

I. Dagli atri urlava una canzone estrema,
ed ella allor l’udiva; ed era un liuto
d’un ignoto che ergeva un anatèma.

Fu come il canto che a un castel perduto
mestamente lagnava un Trovatore,
quand’ella stava dinnanzi a un re muto;

e questo labbro ripeteva all’ore
un Miserere: «Pietà, oh mio Signore!».

II. Oh Giovanna, per questo io gemo e canto
le doglie atroci dell’ultimo giorno,
perché di te il ricordo non sia infranto.

Dico alle nubi del Cielo tuo adorno
l’eco dei tuoi dolori, e il spasmo indìo
di te che forse qui mi stai d’intorno;

e tu, fanciulla, ascolta il cuore mio,
prega per me, e per noi, e supplica Iddio!

III. E giunse l’ora temuta e tramata,
Sàtana venne a strappar le catene,
ed ella si giaceva trasognata.

Sognava forse le campagne amene
che un giorno abbandonava, e i cardi e i fiori,
e dimentica fu delle sue pene.

Ma l’Inferno irrorava i suoi terrori,
fiamme giulive, terribili ardori!

IV. Or canto una fanciulla morta al fuoco,
cenere tetro di giovani fiori,
canto la Morte, gli estremi dolori,
e il Sole all’orizzonte che s’è fioco:
non c’è un Amore nemmen in canzone
che non sia fiamma, supplizio e Passione!

V. Era bella, era giovane
e bionda e candida,
falba come la veste
rozza e discinta,
come le bianche nuvole
verso il crepuscolo,
ed era alle funeste
catene avvinta,

era una donna povera,
fu miserabile,
e andava trascinata
da empi demòni,
come nell’onde i turbini
scorrono l’àlighe,
ed era addolorata
cogli occhi proni;

e ammirava la cerula
pelle, l’estatico
e tetro mezzogiorno,
e l’orizzonte
che ardeva in mezzo ai palpiti
d’un nembo pallido,
del quieto Sole adorno
alto su un monte,

ed era un volto debole,
occhio di femmina
che la bestemmia urlava
infame strega,
che l’empia piazza immobile
ergeva in tremiti,
che in furia le imputava
l’empia congrega.

Lunghi i capei scendevano
al collo tremulo,
e tremavan le mani
le braccia ignude,
dove la veste lacera
scopriva i gomiti  
contristati d’arcani,
le doglie crude,

e stava il labbro in spasimo,
contorto in brividi
presso i morsi agitati
della paüra,
lungo i ferri terribili
del legno, il Dèmone,
si compivano i Fati
della Natura,

e il volto pron, spasmodico
cadeva al cumulo
del legno, la catasta
su cui era un piolo,
sul qual gridò il patibolo
del fuoco spastico,
ed ella e pura e casta
piangeva al suolo.

Aveva in cuor incogniti
pensier, rammarico,
sogni privi d’un volto
di giovinezza,
ricordi incerti e anonimi
che si fuggivano
dal tormento disciolto,
ignea la brezza,

martìr secreti indocili,
segreto spasimo,
e barcollava bianca
tra l’alabarde
che al cielo minacciavano
furie diaboliche,
e si fremeva stanca
lungo le barde,

ed ella era l’eretica,
sprezzo eucaristico,
era la visionaria
eresiärca,
occhio d’insani Dèmoni
che ne inquietavano
le terre e i boschi e l’aria,
e il Patriärca,

era la donna in fregola,
bruta caligine,
che in vero amava il Cristo,
e ch’era santa,
era la giovin vittima
d’un truce vescovo:
Sàtana è giunto, è visto,
il Verbo incanta.

Ella saliva al talamo
del fuoco angelico,
e lo sguardo perduto -
casto piacere -
porgeva ai sgherri orribili,
e i polsi incolumi,
e i piè, e il costato muto
a un vil dolère,

chiudeva i tristi pollici
al legno timido,
le vene perforate
dal vento fiero,
e sanguinò invisibile
tralci di turbini,
caviglie raggelate
a un spino altèro,

come facea lo Spirito
che in furie all’incubo
scorgeva denudato
sopra due travi
che lente sanguinavano
presso le Vergini,
col sogghigno chinato
steso sui schiavi,

come quest’Uom davìdico
col mento lacero,
ed ella alla sua schiena
soffriva i tocchi
dei legni che sferzavano,
incauti fulmini,
e sanguinò la vena
dei cupi suoi occhi.

I popoli gridavano,
nella sua porpora
mirava l’assassino
la piazza in furia,
e tradito il Pontefice
e l’ecclesiastico
dovere, e il suo divino
pegno e la curia,

faceva omaggi all’anglico
paggio satanico,
e coglieva il denaro
di questa taglia,
di questa mesta e misera,
di quella femmina
che lo rendeva avaro
per la battaglia.

Allor la dama il ruvido
ramo dei platani
scalza saliva e mentre
venne legata
chiedeva invan un simbolo,
bramava stringere
al condannato ventre
Croce dorata:

gli sgherri orrendi presero
le corde in fremiti,
al ceppo il destro piede,
dopo il mancino,
e i giovin fianchi avvolsero,
e li stringevano
bestemmiando la fede,
inno al Destino,

strìnser le forme vergini
del petto in ansimo,
il collo ignudo al pioppo,
le guance rosse,
tristi la schiaffeggiarono,
e il suo carnefice
qui camminando zoppo
ruppe dell’osse;

ed ella allora l’indole
alzava in lagrime,
gemeva in cupo pianto,
e singhiozzava,
e le diceva il Popolo:
«Vanne a un prostibolo!»,
e il cuore l’era infranto,
e sibilava.

Gli strali la coprivano
del Sole insolito,
e come un Mostro i fumi
del fuoco acceso
di strazi l’assalivano,
e sospiravano
di stelle come i lumi
nel ciel sospeso,

e le fiamme s’alzavano
tra i tetri frassini,
e i piedi sofferenti
e le caviglie
truci solleticavano
e si gemevano,
e i velami aderenti
a queste chiglie

di queste sete d’aride
ragne infiammabili,
bruciarono i polpacci
giovin nel grido
delle labbra che urlavano
al Ciel le suppliche,
e in fuochi i catenacci
e il rogo infìdo;

ed ella ormai frenetica
e lamentevole
abbassando lo sguardo
li perdonava,
come spirando a Davide
paradisiäco
di Lui l’eterno dardo
ne seguitava,

e ruppe i lacci ai gomiti
del fuoco al fulmine,
le man in prece univa,
e tosto ardeva,
i veli si disciolsero,
la denudarono,
la Morte l’assaliva,
e si gemeva…

ed ella lagrimàvasi,
nel duol patetico,
sempre gridava il nome
del suo Gesù,
e divampava in formide
lingue di Spiriti
e si scorgeva come
ella già fu.

Così attristato un parroco
a quest’immagine
d’empio fuoco e di fiamma
porse una Croce,
con rigore monastico,
egli un ascetico,
la pose sul diaframma
a brace atroce.

Quando i vampar morirono
non fu che il cenere;
ma tra l’ossa bruciate
apparve un cuore:
rosso, rubino, e incolume,
pegno d’un Angiolo,
carni meravigliate.
Vinse il Signore!

In Gloria Dei, Iesus Christi, et Sanctae Suae Johannae Arci, Virginis Galliae, Virginis cordis mei. Amen

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XXVII Maggio AD MMXV

sabato 28 marzo 2015

Una Canzone per il Triduo pasquale - L'Angoscia dell'Ulivo

Ei orava nel Tempio d’un prato,
spasimando a’ nembi superni,
piagneva all’estremo suo Fato
tra ‘l coro degli Angioli eterni,
e al volto tremava impaurito,
singulti di preci interrotte,
i salmi al fatal Infinito;
è sempre più Notte.

Tremava a’ compari dormienti
su’i sassi de’i tremuli ulivi,
solingo pe’i legni soffrenti
nel grido degli ultimi rivi,
e mesto aspettava ‘l Destino,
le scolte del tristo Demòne,
un sandalo a terra ferino,
la cruda Passione.

I tremiti al labbro irrequieto
spezzarono i santi lamenti,
un sorso di fiele e d’aceto
scendeva alla gola, e i tormenti
andavano folli e illusori
d’un Calice tolto e consunto.
Ma andranno i fatali aspersori
sull’Uomo defunto!

Batteva le mani a una pietra
in duolo che dir non si puote,
s’ergeva alla tenebra tetra,
le membra ansimanti ed immote.
Udiva nel petto un tremore,
un palpito alla Furia feroce,
un fior che si squarcia nel core;
è giunta la Croce.

Piagneva al recordo degli ermi,
al Sole del ciel nazareno,
i guardi, le speni, gli infermi,
il frutto d’un vergine seno.
Gridava alla Madre lontana,
al sonno de’i stanchi fratelli,
la spene ansimava sì vana
a’ queti arboscelli.

In lagrime stava a membrare
i queti villaggi redenti,
il lago, ‘l Giordano e del mare
melliflui e terribili i venti.
Membrava la mesta Maria,
dal sasso salvata e dai crudi,
che tolse dall’orrida via,
dal core de’i drudi.

Lagnàvasi a Lazzaro e a’ morti
che alzava dal sonno supremo,
a’ figli da’i morbi risorti,
le bimbe dal tumulo estremo.
Membrava colui che gli disse:
«Signore, ti prego: ch’io veda!»,
gli storpi che un dì benedisse
pe’i quali fia preda.

Nel core un dolor deleterio
temprava sudando nel gelo,
copriva le nenie e ‘l salterio
d’un funebre e lugubre velo.
Lagnava alla Sorte assegnata,
fremeva alle posse del Dio,
co’ voce tremante e ansimata
chiedeva: «Son io?».

Ansante chiamava i compari,
bugiardi ne’i giuri proposti
or quando agli altàr tutelari
il pane ei donava co’i mosti.
Ma questi sen stavano in sonno,
temendo pur essi la Vita;
né lagne spezzare ne ponno
stanchezza infinita.

Tremava all’udir che gemeva
un nembo tra gli astri e la Luna,
che trista la Notte faceva
se istessa più cupa, più bruna,
e a un ramo gli apparve una forma
d’un torvo Demòne irridente,
le fiamme alle gote e in sull’orma,
terribile dente.

Mirava che questi inghiottiva
le terre d’un negro sudario,
che al Spirto nel volo appariva
e al santo e divin reliquario,
che ‘l Tempio struggeva ridendo,
nel foco d’un cupo tremuoto,
al corpo d’un legno tremendo
avvinto ed immoto.

Scorgeva che un Calice aperse
le nubi del cielo notturno,
il sangue le terre n’asperse
dinnante al Demòn taciturno.
Piagnendo accettava la meta,
morire in tra immenso dolore,
del Nume appagare la pièta
per te, peccatore.

Allora ei n’udiva le scolte,
le lagne del misero Inferno,
le spade di tenebra avvolte,
maëstre di doglie e d’ischerno.
Giungeva l’estremo momento,
la Morte schiudeva le grotte.
Veniva ‘l mortal patimento;
e fuvvi la Notte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XXIII Marzo AD MMXV