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sabato 28 marzo 2015

Una Canzone per il Triduo pasquale - L'Angoscia dell'Ulivo

Ei orava nel Tempio d’un prato,
spasimando a’ nembi superni,
piagneva all’estremo suo Fato
tra ‘l coro degli Angioli eterni,
e al volto tremava impaurito,
singulti di preci interrotte,
i salmi al fatal Infinito;
è sempre più Notte.

Tremava a’ compari dormienti
su’i sassi de’i tremuli ulivi,
solingo pe’i legni soffrenti
nel grido degli ultimi rivi,
e mesto aspettava ‘l Destino,
le scolte del tristo Demòne,
un sandalo a terra ferino,
la cruda Passione.

I tremiti al labbro irrequieto
spezzarono i santi lamenti,
un sorso di fiele e d’aceto
scendeva alla gola, e i tormenti
andavano folli e illusori
d’un Calice tolto e consunto.
Ma andranno i fatali aspersori
sull’Uomo defunto!

Batteva le mani a una pietra
in duolo che dir non si puote,
s’ergeva alla tenebra tetra,
le membra ansimanti ed immote.
Udiva nel petto un tremore,
un palpito alla Furia feroce,
un fior che si squarcia nel core;
è giunta la Croce.

Piagneva al recordo degli ermi,
al Sole del ciel nazareno,
i guardi, le speni, gli infermi,
il frutto d’un vergine seno.
Gridava alla Madre lontana,
al sonno de’i stanchi fratelli,
la spene ansimava sì vana
a’ queti arboscelli.

In lagrime stava a membrare
i queti villaggi redenti,
il lago, ‘l Giordano e del mare
melliflui e terribili i venti.
Membrava la mesta Maria,
dal sasso salvata e dai crudi,
che tolse dall’orrida via,
dal core de’i drudi.

Lagnàvasi a Lazzaro e a’ morti
che alzava dal sonno supremo,
a’ figli da’i morbi risorti,
le bimbe dal tumulo estremo.
Membrava colui che gli disse:
«Signore, ti prego: ch’io veda!»,
gli storpi che un dì benedisse
pe’i quali fia preda.

Nel core un dolor deleterio
temprava sudando nel gelo,
copriva le nenie e ‘l salterio
d’un funebre e lugubre velo.
Lagnava alla Sorte assegnata,
fremeva alle posse del Dio,
co’ voce tremante e ansimata
chiedeva: «Son io?».

Ansante chiamava i compari,
bugiardi ne’i giuri proposti
or quando agli altàr tutelari
il pane ei donava co’i mosti.
Ma questi sen stavano in sonno,
temendo pur essi la Vita;
né lagne spezzare ne ponno
stanchezza infinita.

Tremava all’udir che gemeva
un nembo tra gli astri e la Luna,
che trista la Notte faceva
se istessa più cupa, più bruna,
e a un ramo gli apparve una forma
d’un torvo Demòne irridente,
le fiamme alle gote e in sull’orma,
terribile dente.

Mirava che questi inghiottiva
le terre d’un negro sudario,
che al Spirto nel volo appariva
e al santo e divin reliquario,
che ‘l Tempio struggeva ridendo,
nel foco d’un cupo tremuoto,
al corpo d’un legno tremendo
avvinto ed immoto.

Scorgeva che un Calice aperse
le nubi del cielo notturno,
il sangue le terre n’asperse
dinnante al Demòn taciturno.
Piagnendo accettava la meta,
morire in tra immenso dolore,
del Nume appagare la pièta
per te, peccatore.

Allora ei n’udiva le scolte,
le lagne del misero Inferno,
le spade di tenebra avvolte,
maëstre di doglie e d’ischerno.
Giungeva l’estremo momento,
la Morte schiudeva le grotte.
Veniva ‘l mortal patimento;
e fuvvi la Notte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XXIII Marzo AD MMXV