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mercoledì 19 agosto 2015

Vanità! L'Amore e la Morte

Amore e Morte! è compassione eterna!
Dov’è la rosa dei sepolcri muti?
Non è che un sogno, o un Mostro, una lanterna
funerea e aspra dei Trovatòr coi liuti.
La Notte avvolge i desideri e i freschi
sensi, e il frequente sognàr dei meschini,
e questi sogni non son che i Destini.
Vedi, oh fanciulla? gli albeggianti teschi?
La sera preme le tombe e le bare;
chi ama naufraga svelto in questo mare.
Dentro il soffio d’un bacio v’è il morire;
oh tu, sei folle! se lo vuoi lambire!

Amore e Morte! è un sogno che è un viandante!
Non sei un Titàno, se vuoi ambìr a Iddio?
È la Sorte funesta, o un’ansia urlante;
e amàr, morìr non è uguale, oh cuor mio?
Il cimitero è tempestoso, è il Nulla,
e il talamo è un sepolcro visionario.
Non sai che Amore è l’urna d’un ossario?
Resti silenti di casta fanciulla!
Non è che il perno della Poësia,
la viva tomba che bacia e va via!
E non è il bacio che vermi e liquami,
l’occhio consunto. È questo che tu brami?

Amore e Morte! Dicotomia estrema!
Perché non parla l’avello giurato?
No, no! Oh Titàno! Iddio vuol che si gema,
nel fuggìr dell’Amòr, la Morte e il Fato!
Sale al banchetto la vèrgine e beve
la coppa oscura che arde nel suo seno.
Ma sa costei che a colàr va il veleno?
Che spenta e morta dormir or qui deve?....
Sepolte guance! è la maledizione
d’una vana e melliflua e orba canzone!
Così tra i sassi sepolcrali è vano
questo senso di Vita che è lontano!

Amore e Morte! è uno spettro in singulti!
Quando urlerà la funerea campana?
E baci, e labbra, e giuramenti inulti
non saràn che una bara ombrosa e vana!
Smarriti i sogni, resta un Poëta
che sa quanto l’Amòr è vano; e in pianto,
non senti, oh spettro? che singhiozza un canto?
Non è allor meglio vivere da asceta?
Ma tu, rinunci agli abbracci e alle donne,
e ai sogni che ti lasciano ombra insonne;
pur sai che non inganni il Fato? Cime
di paüre irrisolte nel Sublime!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XIX Agosto AD MMXV

venerdì 10 luglio 2015

Lamento ai Sepolcri dei Cavalieri



Oh voi, sepolcri dei cavalier, ceri
di falbe fiamme e che alla cattedrale
ferocemente sospirate, oh fieri

sassi dei mausolei, oh aër spettrale,
che gemendo percuoti le Gargolle
e dei Demòni le lagnanze e l’ale,

voi, tombe dei guerrieri, oh terra folle
del cenere, ed estremo e oscuro avello
cui la preghiera si tormenta, e molle

e scialbo ossame, oh dei salci arboscello
che alle ghirlande e alle pietre tu dormi,
pianto di lutto, gridàr d’un stornello,

oh quanto voi qui v’ergete ed enormi,
spettri che scorgo, oh fantasmi deformi!

Voi estreme siete le impronte dei spenti
Eroi e del Tempo che antico è fuggito,
scheletriche sembianze in preda ai venti,

e a me gridate le guerre e il ruggito
e le vostre tenzoni, e il dolce liuto
d’un Trovator che un dì si fu smarrito,

e le Furie dei Mori, e il labbro muto
delle rapite dame, e gli elmi freschi
che ormai hanno il sonno in cuor dell’Assoluto.

Oh voi, ascoltate: mi gemo! E i donneschi
vostri trofei ne sogno, e i tristi assedi,
dove urlaste i valòr cavallereschi.

Sento le spade, e i vostri ferrei piedi;
e Tu, oh Iddio, a questi il sonno alfìn concedi!

Statue di marmo tra i rosoni tetri
mestamente contemplo, e un solitario
mesto sepolcro risplende tra i vetri.

Qui forse si riposa il reliquario
d’un Templàr che rapì una bionda ebrea,
e il cèner suo coi vermi si fa vario.

Ai piè dei sassi non sta un fior, ninfea,
né fulve rose, né viole, e anatèmi
si disperdono, e un’alma piange: è rea.

Non stanno cardi, e nemmèn crisantemi,
e questa cattedrale si decade,
e tu, oh tu, cavalier, per questo gemi.

Queste l’ultime son dei Prodi biade;
di tombe oscure sempiterne rade.

Oh voi, pallenti, voi muschi che ergete
le vostre bave a questo cimitero,
e che incompiuti e perenni gemete,

voi, pietre orrende, che nel monastero
per l’eco ivi espandete ansia di Morte,
e voi, voi volte alte di vespro nero

che pel cielo ondeggiate anime assorte
nell’Erebo del Fato, voi campane
che abbandonate urlate al vento, e forte

qui percuotete le sembianze vane
dei conti e dei marchesi, oh campanile
cadente a valle per selve lontane,

oh quanto appare il vostro sguardo vile,
eterni inverni immemori d’aprile!

Siete il suggello d’un Tempo remoto,
fuggito e morto, l’ora dell’onore,
e tutto in voi si giace ansante e immoto.

Siete le nenie dei tornei, e il furore
delle Tempeste delle guerre sante,
sacro ricordo d’un canto d’Amore.

Così tra voi m’aggiro, e in lagne affrante
eternamente piango ai vostri ossami,
che vestono tuttòr gemme e adamante.

Oh voi, voi, siete i caduti fogliami
di balde stirpi che l’Odio ha sepolto,
gli arazzi d’oro, e d’argento i ricami.

Allor davvero mi tormento e molto
nel rimembràr del vostro antico volto.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Venerdì X Luglio AD MMXV   

lunedì 1 giugno 2015

Fantasia romantica - L'eterna Notte delle Villi

Nel ciel notturno e lugubre
e a un monte intrepido,
tra i fatui spettri s’erge
tetra del Nulla
la chioma irremovibile
d’un scialbo Spirito
che nel vespro s’immerge,
una fanciulla.

Un fior scheletrico,
ai piè sta un gelso
cranio argentato
della Luna fuggevole,
decreto eccelso
d’un empio Fato;

e son lontani i loculi,
ombrosi e timidi
del vecchio cimitero,
dell’ossa antiche,
dove consunti e putridi
giaccion gli scheletri
all’impronta d’un cero,
le tombe aprìche,

e il vento cerulo
grida alle Norne,
a quest’Erinni
dei monti nordici,
le vette adorne
di funebri inni.

Or lenta e spaventevole
l’ombra si scalpita,
vestita della Luna,
cupo madore,
trasognato cadavere,
un miserabile
crine di donna bruna,
femmina in cuore,

e mesto e torpido
rivolge il volto
all’orizzonte
regno dell’Ecate,
e al flutto folto
d’un tristo fonte;

e mentre un lupo s’ulula,
fauce famelica,
al far di mezzanotte
e ai tocchi infausti
spire di guance vergini
da terra sorgono,
a tremolanti frotte,
e sono esausti

occhi nevrotici
di spente donne,
scarni fogliami
di ridde apatiche
in falbe gonne,
cenere e ossami.

Allor arpe fatidiche
al bosco suonano,
son accordi spettrali,
muti singulti
di femminini cantici,
per questi talami
tetri e cimiteriali,
rimasti inulti,

e urla spasmodiche
vanno irrequiete
per la foresta,
e si rosseggiano,
lampo le miete,
l’acre Tempesta,

e fosche e insane gemono,
in trilli flebili,
e invitano alla danza,
al ballo eterno,
e le falbe corëuti
folli ne gridano
una cupa romanza,
canzon d’Inferno,

canto salmodico
al re Destino,
alla purezza
di Morte vergine,
al fior meschino
della bellezza;

urla che si distendono
a quel non scibile
giorno del matrimonio
che si fuggiva
con questa tomba giovane,
orba e venefica,
voler d’insan Demonio,
Notte corriva,

perenni spasimi
di spettri puri
tra i pruni e i fiori,
lor che si vagano
tra i boschi oscuri
dei smorti Amori.

Così le donne danzano,
bàllan frenetiche,
e son le passacaglie
del dì perduto,
le danze che si girano
e che s’avvolgono,
pallenti come paglie,
al suon d’un liuto,

e son le fragili
quiete gavotte,
che ne lagnava
un vespro il cembalo
per lieta Notte
che se n’andava,

e son le note, l’agili
gonne tra i turbini,
i freschi minuëtti
del pianoforte
che gli amanti suonavano
per sale morbide,
e i dubbi, e i lor sospetti,
dado di Sorte.

Gli spettri intorno girano,
girotondeggiano,
si danno per le mani,
ossi risorti,
e danzando ne fischiano
sospiri tremuli,
coll’eco van lontani,
nei monti assorti,

e v’è Proserpina
che un flauto suona,
ansanti trilli
che si proclamano
nel ciel che tuona
voci di Villi,

e in mezzo a questo circolo
balla uno Spirito,
tocco di polonese,
fanciulla bionda
che ballando desidera
dai spettri evadere,
là, verso il suo paëse,
ma l’iraconda

calca terribile
la manda indietro
dovunque volge,
ed ella lagrima,
fràgil qual vetro,
tra queste bolge

invano contorcendosi
e spasimandosi
il cimitero cerca,
brama una croce,
e si vuole diffondere
nel Nulla orribile,
e colle Villi alterca,
Fato feroce.

Si lagna ai Dèmoni,
l’occhio l’è pianto,
vuole morire
per sempre. Oh misera!
Odia quel canto
che deve udire.

È colpa irrimediabile,
insostenibile
essere morta prima
d’un fior nuziale,
del talamo dei zefiri
d’imene docile?
E costei qui sublima
urlo spettrale.

I pepli piegano
esterrefatti
sopra la terra,
e poi s’ondeggiano,
e a questi tatti
fanno la guerra,

ed ella immota supplica
le Furie formide,
e s’inginocchia e prega
la sua Regina;
è in Vita che non vivere
come potrà essere?
E questo viver nega,
giace supina.

È costei un loculo
che morto vive,
per sempre, a sera
nel bosco s’agita,
acque sorgive
d’una riviera,

è un’urna oscura e ruvida
rapita ai funebri
fiori della ghirlanda,
della sua bara,
ai mesti e truci salici,
e ai torvi frassini,
di sepolcrale landa,
ombrosa e amara,

agli imperterriti
neri cipressi,
ai lumicini
dei sassi lugubri,
ai vermi stessi
dei suoi Destini,

alle sue cadaveriche
spoglie che cambiano
il casto seno e il ventre
e il mento, e il piede
in vil, bavoso cenere,
in sale putrido,
e qui si danza, e mentre
balla n’ha fede.

Ma la croce che misera
ha in desideri,
non può trovare,
e grida ai nugoli
dei spettri altèri,
irato mare.

Tra i balli demoniäci
l’altre ricordano
gli Amori abbandonati
tra danze slave,
e allor questa miserrima
tosto scherniscono
inneggiando ai suoi Fati,
e alle sue bave,

e son crisalidi
di tombe spoglie,
odio perenne
al ciel medesimo
di queste doglie,
al Nume indenne,

e atroci si scatenano
e si tormentano
in nivee giravolte,
coi pepli scialbi
che alla Luna si splendono
di fuochi tiepidi,
e dalla Morte assolte
gràffian prunalbi,

e i nomi incidono
dei loro amanti,
con tristi cuori
donde le ràdiche
strappan danzanti
in rei furori,

e da costoro ottengono
gli inesorabili
fili del dio Destino,
dell’aspra Vita,
e qual Norne recidono
quest’umàn aliti,
Demòne peregrino
per via smarrita.

Allora mietono
vite d’Amore,
scrivono il nome
dell’uomo vivido
di lei che il cuore
ne strazia come

un pianto lamentevole,
che no’l desidera,
che vede il fil reciso
del suo adorato,
che non lo può raggiungere,
e che va a gemere
lungi dal Paradiso,
invan bramato;

e or più spasmodica
per ottenere
un po’ di quiete,
aspetta il cerulo
giorno, e a cadere,
dell’alba ha sete.

Ma questa Notte rigida
inestinguibile
lontan dal giorno pare,
e queste danze
crudeli si risuonano,
e la costringono
sempre a ballare
queste romanze;

e soffre pallida
un Fato crudo,
sogno, non muore,
lamenta tremula,
il piede nudo,
strazio d’Amore,

e naufraga il suo cuore
al pensier della tomba, al suo cuscino,
cranio di donna che geme al Destino,

e dell’altre il furore
verso costei si divampa e s’accende.
Ma ecco che l’alba ne giunge che attende.

Impietosito il Signore
costor condanna a Notte sempiterna,
e la misera donna alla gioia superna;

e quest’è il tenebrore
della Notte dei spettri e delle Villi,
di chi all’Amore ne schernisce i trilli.

Notte romantica,
di fantasia,
del Genio frutto
che in cuor mi spasima
di Poësia,
pianto di lutto;

pianto degli uomini
che nella Notte
e nei fantasmi
lievi pröiettano
quei che son frotte,
i propri spasmi,

pianto di gemito
sempre irrisolto
per quest’Amore
nel Fato tremulo,
umano e avvolto
nel proprio cuore….
E il Destin grida invano
a un Dio che è qui sovrano!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

In Memoria di C. J. H. Heine e di A. C. A. Adam



Lunedì I Giugno AD MMXV