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lunedì 1 giugno 2015

Fantasia romantica - L'eterna Notte delle Villi

Nel ciel notturno e lugubre
e a un monte intrepido,
tra i fatui spettri s’erge
tetra del Nulla
la chioma irremovibile
d’un scialbo Spirito
che nel vespro s’immerge,
una fanciulla.

Un fior scheletrico,
ai piè sta un gelso
cranio argentato
della Luna fuggevole,
decreto eccelso
d’un empio Fato;

e son lontani i loculi,
ombrosi e timidi
del vecchio cimitero,
dell’ossa antiche,
dove consunti e putridi
giaccion gli scheletri
all’impronta d’un cero,
le tombe aprìche,

e il vento cerulo
grida alle Norne,
a quest’Erinni
dei monti nordici,
le vette adorne
di funebri inni.

Or lenta e spaventevole
l’ombra si scalpita,
vestita della Luna,
cupo madore,
trasognato cadavere,
un miserabile
crine di donna bruna,
femmina in cuore,

e mesto e torpido
rivolge il volto
all’orizzonte
regno dell’Ecate,
e al flutto folto
d’un tristo fonte;

e mentre un lupo s’ulula,
fauce famelica,
al far di mezzanotte
e ai tocchi infausti
spire di guance vergini
da terra sorgono,
a tremolanti frotte,
e sono esausti

occhi nevrotici
di spente donne,
scarni fogliami
di ridde apatiche
in falbe gonne,
cenere e ossami.

Allor arpe fatidiche
al bosco suonano,
son accordi spettrali,
muti singulti
di femminini cantici,
per questi talami
tetri e cimiteriali,
rimasti inulti,

e urla spasmodiche
vanno irrequiete
per la foresta,
e si rosseggiano,
lampo le miete,
l’acre Tempesta,

e fosche e insane gemono,
in trilli flebili,
e invitano alla danza,
al ballo eterno,
e le falbe corëuti
folli ne gridano
una cupa romanza,
canzon d’Inferno,

canto salmodico
al re Destino,
alla purezza
di Morte vergine,
al fior meschino
della bellezza;

urla che si distendono
a quel non scibile
giorno del matrimonio
che si fuggiva
con questa tomba giovane,
orba e venefica,
voler d’insan Demonio,
Notte corriva,

perenni spasimi
di spettri puri
tra i pruni e i fiori,
lor che si vagano
tra i boschi oscuri
dei smorti Amori.

Così le donne danzano,
bàllan frenetiche,
e son le passacaglie
del dì perduto,
le danze che si girano
e che s’avvolgono,
pallenti come paglie,
al suon d’un liuto,

e son le fragili
quiete gavotte,
che ne lagnava
un vespro il cembalo
per lieta Notte
che se n’andava,

e son le note, l’agili
gonne tra i turbini,
i freschi minuëtti
del pianoforte
che gli amanti suonavano
per sale morbide,
e i dubbi, e i lor sospetti,
dado di Sorte.

Gli spettri intorno girano,
girotondeggiano,
si danno per le mani,
ossi risorti,
e danzando ne fischiano
sospiri tremuli,
coll’eco van lontani,
nei monti assorti,

e v’è Proserpina
che un flauto suona,
ansanti trilli
che si proclamano
nel ciel che tuona
voci di Villi,

e in mezzo a questo circolo
balla uno Spirito,
tocco di polonese,
fanciulla bionda
che ballando desidera
dai spettri evadere,
là, verso il suo paëse,
ma l’iraconda

calca terribile
la manda indietro
dovunque volge,
ed ella lagrima,
fràgil qual vetro,
tra queste bolge

invano contorcendosi
e spasimandosi
il cimitero cerca,
brama una croce,
e si vuole diffondere
nel Nulla orribile,
e colle Villi alterca,
Fato feroce.

Si lagna ai Dèmoni,
l’occhio l’è pianto,
vuole morire
per sempre. Oh misera!
Odia quel canto
che deve udire.

È colpa irrimediabile,
insostenibile
essere morta prima
d’un fior nuziale,
del talamo dei zefiri
d’imene docile?
E costei qui sublima
urlo spettrale.

I pepli piegano
esterrefatti
sopra la terra,
e poi s’ondeggiano,
e a questi tatti
fanno la guerra,

ed ella immota supplica
le Furie formide,
e s’inginocchia e prega
la sua Regina;
è in Vita che non vivere
come potrà essere?
E questo viver nega,
giace supina.

È costei un loculo
che morto vive,
per sempre, a sera
nel bosco s’agita,
acque sorgive
d’una riviera,

è un’urna oscura e ruvida
rapita ai funebri
fiori della ghirlanda,
della sua bara,
ai mesti e truci salici,
e ai torvi frassini,
di sepolcrale landa,
ombrosa e amara,

agli imperterriti
neri cipressi,
ai lumicini
dei sassi lugubri,
ai vermi stessi
dei suoi Destini,

alle sue cadaveriche
spoglie che cambiano
il casto seno e il ventre
e il mento, e il piede
in vil, bavoso cenere,
in sale putrido,
e qui si danza, e mentre
balla n’ha fede.

Ma la croce che misera
ha in desideri,
non può trovare,
e grida ai nugoli
dei spettri altèri,
irato mare.

Tra i balli demoniäci
l’altre ricordano
gli Amori abbandonati
tra danze slave,
e allor questa miserrima
tosto scherniscono
inneggiando ai suoi Fati,
e alle sue bave,

e son crisalidi
di tombe spoglie,
odio perenne
al ciel medesimo
di queste doglie,
al Nume indenne,

e atroci si scatenano
e si tormentano
in nivee giravolte,
coi pepli scialbi
che alla Luna si splendono
di fuochi tiepidi,
e dalla Morte assolte
gràffian prunalbi,

e i nomi incidono
dei loro amanti,
con tristi cuori
donde le ràdiche
strappan danzanti
in rei furori,

e da costoro ottengono
gli inesorabili
fili del dio Destino,
dell’aspra Vita,
e qual Norne recidono
quest’umàn aliti,
Demòne peregrino
per via smarrita.

Allora mietono
vite d’Amore,
scrivono il nome
dell’uomo vivido
di lei che il cuore
ne strazia come

un pianto lamentevole,
che no’l desidera,
che vede il fil reciso
del suo adorato,
che non lo può raggiungere,
e che va a gemere
lungi dal Paradiso,
invan bramato;

e or più spasmodica
per ottenere
un po’ di quiete,
aspetta il cerulo
giorno, e a cadere,
dell’alba ha sete.

Ma questa Notte rigida
inestinguibile
lontan dal giorno pare,
e queste danze
crudeli si risuonano,
e la costringono
sempre a ballare
queste romanze;

e soffre pallida
un Fato crudo,
sogno, non muore,
lamenta tremula,
il piede nudo,
strazio d’Amore,

e naufraga il suo cuore
al pensier della tomba, al suo cuscino,
cranio di donna che geme al Destino,

e dell’altre il furore
verso costei si divampa e s’accende.
Ma ecco che l’alba ne giunge che attende.

Impietosito il Signore
costor condanna a Notte sempiterna,
e la misera donna alla gioia superna;

e quest’è il tenebrore
della Notte dei spettri e delle Villi,
di chi all’Amore ne schernisce i trilli.

Notte romantica,
di fantasia,
del Genio frutto
che in cuor mi spasima
di Poësia,
pianto di lutto;

pianto degli uomini
che nella Notte
e nei fantasmi
lievi pröiettano
quei che son frotte,
i propri spasmi,

pianto di gemito
sempre irrisolto
per quest’Amore
nel Fato tremulo,
umano e avvolto
nel proprio cuore….
E il Destin grida invano
a un Dio che è qui sovrano!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

In Memoria di C. J. H. Heine e di A. C. A. Adam



Lunedì I Giugno AD MMXV

giovedì 16 aprile 2015

Le Fanciulle del Reno

I. A te, o Reno, i’ ne canto un’elegia,
un Poëma mellifluo, Poësia
lieta di Vita, e la canzone assorda
i nembi; e questa corda

dell’arpa che i’ ne pizzico saltella,
e all’onda tua si giace, e all’acqua bella,
donde ‘l mio senso ne sogna i furenti
spettri de’i gorghi, argenti

d’un ruscello vicino, e i’ sento augei
lamentar pe’i disciolti tuoi capei,
lo stornello che ispira - e dolce e tanto -
questo mio estremo canto.

II. Nel dolce sogno in palpito
pepli che ondeggiano
pell’acque vanno, e un liuto
d’un Fauno strilla.
Sono le sete ataviche
delle Amadriädi,
nel scorrere perduto
un velo trilla.

O Reno, ‘l veggo e l’incubo
con questo làgnasi,
tra le pieghe i monìli
e gemme e argento
quietamente si gridano,
si solleticano,
i cimbali gentili
in Furia al vento.

Allor sognando i’ chièggomi
e i’ sento un tremito:
«Chi nell’acque si spoglia?»,
e l’eco tace.
Ma tu ‘l sai delle femmine
figlie tue celebri.
Canto la stirpe, doglia
della tua Pace.

III. La Natura in sul vespro ansante scende,
e ‘l sonno la foresta - e ‘l ciel - apprende.
I pepli che si scorrono son pinti
del crepuscolo e avvinti.

L’orizzonte si brilla, e come l’oro
sazia la sete dell’avido, e ‘l toro,
e ‘l bove e la giovenca dormon queti
lungo i tuoi freschi greti.

Ma un stagno n’assomiglia ‘l tuo sopore,
balza la rana stringendoti ‘l core;
e candide le mani femminili
s’ergono al ciel, gli aprili.

IV. Acque di crini e di seni e di menti
mellifluo ti lamenti, o Reno, e al volo
delle Furie iraconde - i freddi venti -
timido canta a’ capei l’usignuolo.

Quando ‘l meriggio sovvien a’ torrenti,
tra le ninfèe e i ranuncoli un giacciòlo
una Ninfa ne coglie, e i stel ardenti
lieta recide al lagnar dell’assiuolo;

ed ella zampillando all’onde e a’ spenti
orni ombreggianti le man posa al suolo.

Frattanto le fanciulle anch’esse Ondine
sònano ignude le cetre infeconde,
sterili in sogni d’Amor. Le divine

e palpitanti forme, e vagabonde,
l’argento ne cùllan - l’acque - e in fine
scendono e s’alzan, le vette profonde.

Oh Reno, oh graziöse fanciulline!....
Oh Sirene spogliate! Oh gemme bionde!

Ma le nubi iraconde
in tènebre si stanno, e ‘l Temporale
Dönner ne invoca, ‘l martello fatale.

V. Gocce di pioggia si cadono, e al petto
delle Ninfe carèzzan l’alba pelle,
e cingono i capei e ‘l giovine aspetto
dell’acquatiche e donne e ardenti stelle.

Un rìcciolo si scioglie, e al bianco letto
dell’azalèe si cade; e queste belle
tue figlie, o sacro Reno, odono ‘l detto
delle prische e soffrenti pioggerelle.

Gemme argentate si bagnano, e chiome
ne scorrono i terribili ruscelli,
e ‘l vento ne domanda loro ‘l nome,

invisibile e altero, oscuri velli.
Allora la Tempesta infuria come
ne’i nugoli notturni i pipistrelli.

VI. Allora una fanciulla a’ prisca pioggia
timidamente segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia
al ventre e al fianco e all’anca e cade; e ameno

un lampo all’orizzonte si rosseggia
alluminando i côlli delle spoglie
Ninfe e lo stagno, e la sera si albeggia,
e in sul rivo si càdon l’ansie foglie.
Ma niuna di costor n’ha in cor le doglie,
anzi ciascuna prosegue ‘l suo canto,
sibbèn dal ciel oscuro scenda ‘l pianto,
grandine amara, un dolente veleno.

Così, oh Reno, se’ fatto un’orba roggia!
e una fanciulla segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia.
Che un bacio al ventre sia, un abbraccio almeno!

VII. Nel frattempo una Ninfa ne escorizza
d’in su’i fondali cupi, e a un nembo irato
l’arpa sonàndo, un arcan profetizza.

De’i torvi Nibelunghi l’empio Fato
placidamente urlando n’asserisce,
e ‘l labbro suo si giace estasiäto.

D’Attila scorge la schiera che ardisce
la prole vendicarti, o Reno eterno,
e d’Alberìgo ‘l sangue si languisce.

Non più cardi, non fiori, solo ‘l verno
pella Germania impura allor s’impèra,
faci perpetue di guerre e d’ischerno.

Quest’Unno ha vendicato l’empia sera
‘ve Irminsùl degli Dei fatal dispera!

VIII. Ma questa profetessa ha fulvo ‘l crine,
e l’occhio spiritato e all’alte Norne
orrido volge, e le compagne Ondine
la deridono tanto; e in ciel adorne

di folgori si stanno l’alme nubi,
piovono ossami liquefatti e insani,
solleticano meste i casti pubi
delle tue figlie, o Reno. E ansanti cani -
di Wòtan - si lamentano; e lontani
delle Valchirie vanno i palafreni,
e ‘l galoppar ne bacia i molli seni
dell’onda palpitante e oscura e informe.

Passan gl’istanti, e ‘l Temporal ha fine,
e Dönner si lenisce e allor si dorme,
placasi alfine, e le melliflue Ondine
di paüra e di requie or sono adorne.

IX. Seno si beve quest’acque piovane
che scesero alla pelle. Giovinette
ne lagnano le Ninfe l’arpe arcane
all’orizzonte freddo delle vette.

Reno, ammira! le piogge lontane
or ne sono siccòme le saëtte.
Le tènebre funeree sono vane,
sciolgonsi vili, e si fuggono inette;

e seren si risplende sol l’immane
guardo dell’acque tranquille e dilette.

Quest’è ‘l canto ammaliante e queto e in fiore
alle tue figlie, o Reno, e a una fanciulla
che in Poësia si nutre in petto ‘l core,

la profetessa al sen d’una betulla.
Fanciulle, riposate! Abbiate Amore,
la dolcezza fatal che vi trastulla!....

Ma ‘l sogno si svanisce; e v’è ‘l dolore
intorno. E tutto fugge… e regna ‘l Nulla!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì XV, Giovedì XVI Aprile AD MMXV