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giovedì 16 aprile 2015

Le Fanciulle del Reno

I. A te, o Reno, i’ ne canto un’elegia,
un Poëma mellifluo, Poësia
lieta di Vita, e la canzone assorda
i nembi; e questa corda

dell’arpa che i’ ne pizzico saltella,
e all’onda tua si giace, e all’acqua bella,
donde ‘l mio senso ne sogna i furenti
spettri de’i gorghi, argenti

d’un ruscello vicino, e i’ sento augei
lamentar pe’i disciolti tuoi capei,
lo stornello che ispira - e dolce e tanto -
questo mio estremo canto.

II. Nel dolce sogno in palpito
pepli che ondeggiano
pell’acque vanno, e un liuto
d’un Fauno strilla.
Sono le sete ataviche
delle Amadriädi,
nel scorrere perduto
un velo trilla.

O Reno, ‘l veggo e l’incubo
con questo làgnasi,
tra le pieghe i monìli
e gemme e argento
quietamente si gridano,
si solleticano,
i cimbali gentili
in Furia al vento.

Allor sognando i’ chièggomi
e i’ sento un tremito:
«Chi nell’acque si spoglia?»,
e l’eco tace.
Ma tu ‘l sai delle femmine
figlie tue celebri.
Canto la stirpe, doglia
della tua Pace.

III. La Natura in sul vespro ansante scende,
e ‘l sonno la foresta - e ‘l ciel - apprende.
I pepli che si scorrono son pinti
del crepuscolo e avvinti.

L’orizzonte si brilla, e come l’oro
sazia la sete dell’avido, e ‘l toro,
e ‘l bove e la giovenca dormon queti
lungo i tuoi freschi greti.

Ma un stagno n’assomiglia ‘l tuo sopore,
balza la rana stringendoti ‘l core;
e candide le mani femminili
s’ergono al ciel, gli aprili.

IV. Acque di crini e di seni e di menti
mellifluo ti lamenti, o Reno, e al volo
delle Furie iraconde - i freddi venti -
timido canta a’ capei l’usignuolo.

Quando ‘l meriggio sovvien a’ torrenti,
tra le ninfèe e i ranuncoli un giacciòlo
una Ninfa ne coglie, e i stel ardenti
lieta recide al lagnar dell’assiuolo;

ed ella zampillando all’onde e a’ spenti
orni ombreggianti le man posa al suolo.

Frattanto le fanciulle anch’esse Ondine
sònano ignude le cetre infeconde,
sterili in sogni d’Amor. Le divine

e palpitanti forme, e vagabonde,
l’argento ne cùllan - l’acque - e in fine
scendono e s’alzan, le vette profonde.

Oh Reno, oh graziöse fanciulline!....
Oh Sirene spogliate! Oh gemme bionde!

Ma le nubi iraconde
in tènebre si stanno, e ‘l Temporale
Dönner ne invoca, ‘l martello fatale.

V. Gocce di pioggia si cadono, e al petto
delle Ninfe carèzzan l’alba pelle,
e cingono i capei e ‘l giovine aspetto
dell’acquatiche e donne e ardenti stelle.

Un rìcciolo si scioglie, e al bianco letto
dell’azalèe si cade; e queste belle
tue figlie, o sacro Reno, odono ‘l detto
delle prische e soffrenti pioggerelle.

Gemme argentate si bagnano, e chiome
ne scorrono i terribili ruscelli,
e ‘l vento ne domanda loro ‘l nome,

invisibile e altero, oscuri velli.
Allora la Tempesta infuria come
ne’i nugoli notturni i pipistrelli.

VI. Allora una fanciulla a’ prisca pioggia
timidamente segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia
al ventre e al fianco e all’anca e cade; e ameno

un lampo all’orizzonte si rosseggia
alluminando i côlli delle spoglie
Ninfe e lo stagno, e la sera si albeggia,
e in sul rivo si càdon l’ansie foglie.
Ma niuna di costor n’ha in cor le doglie,
anzi ciascuna prosegue ‘l suo canto,
sibbèn dal ciel oscuro scenda ‘l pianto,
grandine amara, un dolente veleno.

Così, oh Reno, se’ fatto un’orba roggia!
e una fanciulla segue al falbo seno
un gocciolar che placido s’appoggia.
Che un bacio al ventre sia, un abbraccio almeno!

VII. Nel frattempo una Ninfa ne escorizza
d’in su’i fondali cupi, e a un nembo irato
l’arpa sonàndo, un arcan profetizza.

De’i torvi Nibelunghi l’empio Fato
placidamente urlando n’asserisce,
e ‘l labbro suo si giace estasiäto.

D’Attila scorge la schiera che ardisce
la prole vendicarti, o Reno eterno,
e d’Alberìgo ‘l sangue si languisce.

Non più cardi, non fiori, solo ‘l verno
pella Germania impura allor s’impèra,
faci perpetue di guerre e d’ischerno.

Quest’Unno ha vendicato l’empia sera
‘ve Irminsùl degli Dei fatal dispera!

VIII. Ma questa profetessa ha fulvo ‘l crine,
e l’occhio spiritato e all’alte Norne
orrido volge, e le compagne Ondine
la deridono tanto; e in ciel adorne

di folgori si stanno l’alme nubi,
piovono ossami liquefatti e insani,
solleticano meste i casti pubi
delle tue figlie, o Reno. E ansanti cani -
di Wòtan - si lamentano; e lontani
delle Valchirie vanno i palafreni,
e ‘l galoppar ne bacia i molli seni
dell’onda palpitante e oscura e informe.

Passan gl’istanti, e ‘l Temporal ha fine,
e Dönner si lenisce e allor si dorme,
placasi alfine, e le melliflue Ondine
di paüra e di requie or sono adorne.

IX. Seno si beve quest’acque piovane
che scesero alla pelle. Giovinette
ne lagnano le Ninfe l’arpe arcane
all’orizzonte freddo delle vette.

Reno, ammira! le piogge lontane
or ne sono siccòme le saëtte.
Le tènebre funeree sono vane,
sciolgonsi vili, e si fuggono inette;

e seren si risplende sol l’immane
guardo dell’acque tranquille e dilette.

Quest’è ‘l canto ammaliante e queto e in fiore
alle tue figlie, o Reno, e a una fanciulla
che in Poësia si nutre in petto ‘l core,

la profetessa al sen d’una betulla.
Fanciulle, riposate! Abbiate Amore,
la dolcezza fatal che vi trastulla!....

Ma ‘l sogno si svanisce; e v’è ‘l dolore
intorno. E tutto fugge… e regna ‘l Nulla!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì XV, Giovedì XVI Aprile AD MMXV       

        

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