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venerdì 8 maggio 2015

Introspezione effimera

Arduo è asserir d’un giovine
Poëta; l’epoca
strazia le giovinezze,
l’attese vaghe,
gli Ideäli morirono,
e a terra caddero,
onde non odon brezze
le giovin piaghe.

L’Amore è un incubo,
requie è un mistero,
i desidèri
non si folleggiano,
e ‘l cielo è nero,
tetri i sentieri.

Il Tempo inesorabile
urlando in spasimo
m’ha forse ucciso ‘l core,
l’ha pugnalato
nel vano e incauto attendere
del mio desìdero,
nell’incubo dell’Amore,
nel far del Fato.

Sognavo esistere
a un Sole tinto
di spene estrema,
si consumavano
i tempi, e avvinto
fui a un anatèma.

Anni inqueti passarono,
e i sogni - sòliti
ad avverarsi e all’uomo
e al visionario -
indarno meco vennero,
e poscia furono,
ombre d’un cieco atòmo,
d’un reliquario,

ossame pavido,
nell’urna ignuda,
cenere muto
nel fosco loculo,
la Sorte cruda,
un truce liuto,

spettri che tetri vagano
ghermendo l’anime,
tombe viventi al Sole,
disonorate,
serpi che nel mio spirito
corrodon l’alito
d’Iddio, ‘l stel delle viole,
le singhiozzate

onde del piagnere,
acque del duolo,
rivi feroci
che rincorrendosi
spiccano ‘l volo,
martiri in croci,

stille, l’Ondine - lagrime -
del pianto reduce
della pioggia d’aprile,
d’una vecchïaia
che nella culla irròrasi,
lenta e flemmatica,
senescenza infantile
che strilla e abbäia.

Secolo vindice,
orbe fatale,
volgo a uno specchio
e l’ombre s’ergono
d’un immortale
giovine vecchio.

Tempi infelici ambivano
cullarmi gl’incubi,
nel Caos eterno affissi
l’occhio tremante,
in un venir di brividi,
d’affanni apatici,
e mestamente i’ vissi,
sonno sognante.

Amavo l’attimo
del sognar lieto,
ma odiavo intanto
la Vita insolita,
e gaudio e inquieto
ero in tal manto.

Qui i’ trascorrevo gli attimi
nel vano lèggere
lambendo l’avvenire
di molli aurore,
lumi che più non sorsero
nell’acre tènebra,
e fu eterno ‘l soffrire,
vivo ‘l dolore.

Vane le Lettere,
vano ‘l Pensiero,
indarno ‘l gelso
volto di femmina,
un cimitero,
sepolcro eccelso.

Gli orizzonti si chiusero,
mi seppellirono
le cure e l’ansie e i pianti,
speni irrisolte
che secrete scorrèvansi
in freddi tremiti,
e sudate e ne’i canti
di Morte avvolte.

Cantavo all’Ecate,
e al scialbo giorno,
e vanamente
lambivo incognito
viso d’intorno,
donna pallente.

I Tempi mi rapirono
quel ch’è l’effimero
sogno, e i ridenti giorni,
l’aprile, e ‘l maggio,
e i concitati palpiti,
donde qui m’agito,
secco qual ramo d’orni,
debil foraggio.

I tempi vennero
della vendemmia,
caddi alle falci
di tanti secoli,
della bestemmia,
le cetre ai salci

Non mi resta che ‘l rapido
e inarrestabile
tramonto della Vita,
e della spene.
Poëta vano, e giovine,
smarrito ràpsodo.
Una fiamma assopita
è ‘l sangue in vene!

Cupo son, lugubre
arido e mesto,
sono uno spettro
tremulo e apatico
d’un re funesto,
d’un vano scettro.

Non mi resta che vivere
siccòme un platano
alle Furie del vento,
Erinni in fiore.
Non posso che trascòrrermi
serrando l’Anima,
e senza Sentimento,
e senza un core.

Son tregua ignobile
voce d’un Nume,
di gioventù,
Iddio che sclàmasi
in spento lume:
«Son Quei che fu!».

Non questo è ‘l mondo nobile,
nugolo flebile
pe’i giovini Poëti,
la Poësia.
Orbe di vecchi scheletri,
morbi spasmodici,
son prosciugati i greti,
e corre via

Vita medesima,
la Creäzione
è decaduta.
Domina Sàtana!
La mia canzone
muore perduta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì VIII Maggio AD MMXV

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