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lunedì 17 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Sogno del Cuore

Sogno del cuore, che cosa tu brami?
Forse un ritorno alle fresche Alpi e ai monti,
all’ombre mattutine di alti rami,
e nella sera i montani orizzonti.
Oro, ricordi? è il crepuscolo alpestre,
tra le nubi di sangue e l’infinita
eco dei ghiacci ove, Anima smarrita,
tu contemplavi il ciel dalle finestre.
Ma attimi sono d’un dì tramontato;
e ora ti preme e ti resiste il Fato!
Insonne sogno del sonno dell’Io,
è dunque all’Alpe che senti d’Iddio?

Sonni irrequieti, perché spasimate?
Siete più muti del chiostro più nero,
freddi e spettrali, e insicuri tremate.
Non rivivete! Dov’è il cimitero?
Quivi vi attende la negletta bara,
e la Notte vi mostra e l’ossa e i crani,
e non siete che spettri umidi e vani.
Non è vèr che la Vita è tanto amara?
L’Alpe dilegua nel vespro del giorno,
e cosa vi rimane, ahimè, d’intorno?
I campi dei sepolcri e delle lagne,
l’atee e irredente e funeree campagne!

Insonne sonnecchiàr, che mai ricordi?
I fiori alpini e le possenti cime.
Tu eri - sognavi! - sui nordici fiordi,
Wòtan tuonava con urlo sublime.
Eri tu presso una vetta indomata,
gli Angeli e il soffio del Nume vivente,
e passavano l’ore e lente, e lente.
Ma questa sera oramai è tramontata!
Sogno del cuore, che cosa tu pensi?
Forse è meglio annegàr tra i nembi densi!
Eppur alla tua guancia in pianto e falba
verrà il Sole. Ma come sarà l’alba?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XVII Agosto AD MMXV 

domenica 16 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. Ode al Lamento d'un Contrabbandiere

Hai tu dell’oro, oh bandito irredento?
Senti! Va’ al monte e compra la tua Vita,
sì, lei che un dì hai perduta; e nel vento
ascolta! Suona il ciel d’un’eremita.
Oh piacèr del fugace contrabbando!
I boschi scruti, e hai timòr dei fucili,
ghigni vi sono più oscuri e più vili,
e il tetro sterpo può esserti nefando.
Orsù! Orsù! Bevi il liquòr della Luna,
sfida la Sorte, e la vana Fortuna!
Non senti che il pugnàl preme le spine?
È Notte tarda. Dov’è il tuo confine?

Taci! Nascondi il tuo sigaro. Senti?
V’è un frèmer di lanterne e di mastini.
Se muori, dimmi: cosa emani ai venti?
Sogni d’Amore, e angosce di Destini.
Ma qui i tuoi passi camminano lenti,
e riparo ti sono i neri pini.
Fermati! E pensa! Cos’hai nel tuo cuore?
Torna al paëse, ritorna al tuo Amore!

Zingara alpina la Notte t’avvince,
docile danza coi veli lunari,
e l’Alpe ha un occhio come d’una lince;
e ora sei un’ombra, sottìl più dei mari,
e al seno della roccia ti giaci al sicuro,
e invochi i Santi, quelli tutelari.
Così a un castagno nudo e tristo e impuro
la sera inghiotti, l’Infinito oscuro!

La ronda s’allontana. Non la intendi?
Varca il confine, e compi il tuo mestiere!
Ora tu compri, contratti e poi vendi,
e dei banditi tu sei il cavaliere.
Allor tu puoi tornàr alla tua donna;
ma attento, oh folle, oh tu, alle carabine.
Non sognàr già le guance femminine,
e la temente e spasimante gonna!
Hai comprato la Vita; e vuoi morire?
Scappa! Stai quieto! Ora è meglio fuggire!
E se il tuo cuore tormentando sogna,
sappi: t’aspetta o la forca o la gogna!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XVI Agosto AD MMXV
 

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Viandante alpestre

L’Alpe è una donna che fugge il Poëta,
lo sai, oh viandante, oh tu, che erri lontano?
Tra le nevi disciolte ella s’allieta;
ma no, non del tuo canto ansio e profano.
Canti alle pietre, e ti lamenti ai falchi,
e nel Nulla dei monti e delle sere
tacciono l’arpe e le fredde preghiere,
e cos’è mai? Ah! Nel ciel senti: oricalchi!
Pellegrina ombra! È venuta la Notte;
e chiedo: «Avrai tu rifugio alle grotte?».
La caccia muore, e l’orizzonte è cupo;
lento, lento cammina! V’è un dirupo.

L’Alpe tra i tuoni annuncia un Temporale,
lo vedi che sei in pasto ai lampi e al vento?
Cupa è la sera di gelida opàle,
e tu lo sai? Forse avrai un patimento,
gelerà il cuore in mezzo al maëstrale,
palpito indarno d’insàn Sentimento.
Viandante, forza, la Sorte disfida,
e non temèr quel che in costei s’annida!

Curvo come ombra di spettro sottile,
fermati e ascolta! È il tuo affanno in respiro,
e nulla più ti par quieto e gentile,
nemmèn la fonte col fresco suo spiro,
né il vecchio pane che addenti dal sacco,
né un vuoto sorso di vino, né il ghiro
che va a dormire, e l’impronta del tacco
ti fa paüra. Non fare il bivacco!

L’Alpe è una Luna, argento capriccioso,
l’hai scorta, allora? E il tuo peregrinare
mai finirà, e nel venìr silenzioso
dell’alba nuova, camminerai, e urlare
forse dovrai supplicando il Destino,
e il viaggio eterno ti vedrà più solo,
come d’inverno a un ramo un usignolo,
e tu, ami ancora questo sasso alpino?
Ami purtroppo! Una pietra che è niente,
un folle sogno, oh sonnecchiàr demente!
Ma per te l’Alpe è davvero una fanciulla.
Meriti forse morìr nel suo Nulla?

L’Alpe è un segreto che tieni nel cuore,
e perché non lo dici all’Infinito?
Il cielo tace, anche il lampo in furore,
dillo, oh viandante! Perché sei smarrito?
La valle intende questo tuo dolore,
e Dio ha orecchi e occhi nel suolo impietrito.
Grida alle stelle e al vespro oscuro e nero
l’Anima tua con il suo almo mistero!

Silenzio oscuro si regna d’intorno,
e stanco e smorto or continui pei monti,
e qui ti fermerà almen l’altro giorno?
Giaci affamato e scruti gli orizzonti,
come se in te qualcosa s’è perduto,
e a stento baci le pietre dei ponti.
Non sai cos’è, e il tuo labbro si fa muto,
e a terra cade e s’infrange il tuo liuto.

L’Alpe è il Destino che ti chiama ai lunghi
sentièr perenni d’un insàn dolère.
Mangerai sassi, discorrerai ai funghi,
vedrai i giorni morìr nell’orbe sere.
Viandante, è il Fato; e tu ancor lo sopporti?
La Vita ti abbandona, e non hai un fiore
sulla bara vivente, e tane e Amore,
vivi fuggendo, e vivi come i morti.
All’alba dice la fresca montagna
niente se non la tua tremula lagna.
Vivesti male, lo dice il tuo volto,
fuoco d’un’ombra nei sogni sepolto!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XV Agosto AD MMXV

mercoledì 3 giugno 2015

1815 - Immagini d'Accampamento di Vita notturna

A un focolare un bivacco gemeva,
e tremule canzoni alzava al vento,
e l’orba sera in tenebròr splendeva,
e l’orizzonte urlava di tormento,
e una ronda la Notte n’attendeva,
e intorno andava con un passo lento,
e un nappo ergeva un brìndis militare
a Marte, del guerrier il Tutelare.

Alcuni prodi pulìvan lo schioppo,
ben altri si lustràvan gli stivali,
bevèvan l’ombre al ramoscèl d’un pioppo,
e un dado si lagnò ai giuochi fatali,
e un tamburino camminava zoppo,
e un’aria osava ai freddi maëstrali,
e seduti ai ruscèl di vil campagna
i prodi stàvan tra i gaudi e la lagna.

Nel cielo oscuro, frattanto, la Luna
a vestire le nubi s’apprestava,
e il ciel pareva un’argentea laguna
che le deposte spade illuminava,
e l’argento lunàr per questa bruna
Notte di campo, in effetti, brillava;
e lungi un lupo a costui asperse un canto,
negro di Furia, più cupo di manto.

Il sonno si fuggiva, e un occhio insonne
all’Inghilterra volse i desidèri,
e giòvin rammentava le sue donne
e i seduttori inganni e i menzogneri
baci alle pieghe dell’agili gonne,
e dei suoi campi i recinti e i sentieri,
ed egli - un seduttore! - aveva strazio
di questo ferro di sangue mai sazio.

La recluta pensava al sen materno,
e si tingeva di tetra paüra,
sonno gli apparve un sepolcro d’Eterno,
presagio infausto di cui n’ebbe cura,
e intorno il Cielo, il medèsmo, il superno,
di Morte tinse l’inquieta Natura,
e il fanciullìn tremava inerme, e poscia
fu vinto dai sospetti e dall’angoscia.

Nel frattempo un messèr col plaid d’un Scoto
la cornamusa trillava ai viventi,
e gemeva un cantàr, silenzio immoto,
funebre nenia dai trilli sgomenti,
e cattolico e ligio e pio e devoto
e con detti di sacri Sentimenti
mesto pregava coll’Ave Maria,
gaëlico soffrìr di Poësia.

Un cavalier sfiorava il palafreno,
e mestamente scorgeva d’intorno,
e alla destra teneva un po’ di fieno
che l’animàl mangiò di sella adorno,
e di questo il mantèl brillava ameno
sotto le foglie d’un pioppo e d’un orno,
e tranquillo ignorava il suo Destino,
se vittorioso - e tanto - oppur meschino.

Un soldato scriveva a sua fanciulla,
lettera arcana d’un uomo che trema,
e sotto il crine d’un’orba betulla
forse ne impresse una parola estrema,
e l’avvenìr si cadeva nel Nulla,
e si tuonava forse un anatèma;
e alla fine vi scrisse: «Oh bella addio,
senso e speranza di questo cuor mio!»,

e si chiedeva con la menta avvinta
nei tristi sogni del spento tramonto
s’ella che abbandonò gli fosse incinta,
s’ei il bimbo avesse visto, e fece il conto
con quest’attesa di Morte dipinta,
e nell’ambascia finì il suo racconto,
e di tremore vivente moriva,
e il sonno vanamente l’assaliva.

Ricordava un galante una canzone
che si temprava di suoni d’Amori,
il violìn che gridava a un bel verone
tra i flauti e i clarinetti e i suonatori,
ed era un canto di viva passione,
d’alte preghiere e d’insani dolori;
ed egli con in man un po’ di vischio
la rammentava facendone un fischio.

Nella sua tenda con un caporale
freddo di cuore e d’animo agitato
gli ordini disse un fatal generale
che con un detto condannava al Fato
le tante gioventù, e all’estro geniale
del dèmon suo si piaceva innalzato,
e con questo ridìr caddero a mille,
vane le speni, e inutili le stille.  

Òrdin di pattugliare: sì, eseguiti.
La ronda ha fatto? Ha intravisto il nemico.
I disertori: oramai son smarriti.
La batteria: al frumento, al gran aprìco.
Gli ordini intesi: certo, e poi capiti,
e disse il generàl: «Altro non dico»;
e decretava i volèr dell’Inferno,
le sante Furie del Ciel, dell’Eterno.

A recitàr se n’andava un rosario
un povero e straziato cappellano,
e pàrvegli che il consuetudinario
pregar ne fosse orribilmente vano,
e stringendone al petto un reliquario
per questi campi scorreva lontano,
e tra un’ombra di Morte oscura e oppressa
segretamente celebrò una Messa.

Adesso un miserabile a una viola
spaventato e tremando ed irrequieto
disse tra sé una fuggente parola
e d’un ruscello si sedette al greto,
e tosto caricava la pistola.
Ma non ebbe coraggio; e allor inquieto
le gesta di Cesare e d’Alessandro
dannando, s’attoscò coll’oleändro.

Quest’è la Notte dell’accampamento,
Luna febbrile di sepolcri immani,
dove si regna l’eterno spavento,
dove suicìdi si tirano i cani,
e questo vespro ne danna al tormento
i prepotenti, i guerrieri e i sovrani,
e debole la Vita qui si langue,
e vi sarà domàn un mar di sangue.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì III Giugno AD MMXV

        

mercoledì 14 gennaio 2015

La Battaglia di Patay, ovvero L'ultima Confessione d'un Cavaliere

Pe’ campi di maggese, e a’ boschi e a’ pietre
e pegl’ansi ruscelli e l’erbe fresche,
e all’orizzonte, e all’incognito e all’etre
in tenzon seguitavan le guerresche
schiere, e all’empio certame e in maglie tetre
n’andavano i messeri, e alle donnesche
chiome alle furie del vento ostinato
di Giovanna volgevan, più che al Fato,

e in tra’i cardi e i covòn e i fiori primi
d’opposte direzion venìa l’affronto,
e i prodi e i paggi, e i destrieri e i sublimi
balestrier or n’andâr, e in sul confronto
coll’inimico in furie e presso gl’imi
cespi pugnâr or in fino al tramonto,
e intorno si coprìa la trista terra
d’urla e di sangue, di strazio e di guerra;

e così si celava in rea boscaglia
l’Anglo che a pugna or funereo moveva,
e presso le betulle e l’alba paglia
de’i rival le masnade omai cingeva,
e quest’insana e meschina plebaglia
crudelmente le schiere trafiggeva,
e al vessillo del rege e folle e avaro
qual folgore n’andava ‘l fiero acciaro,

e in cielo si lagnava ‘l truce dardo,
e un urlo s’irrorava a un spoglio faggio,
quivi che un prode scontava l’azzardo
della brama del lauro e del coraggio,
e un balestrier gagliardo e pur testardo
d’umori ne colmava ‘l campo in maggio,
e la possa struggea la vil campagna
or de’i Plantagenesta e di Bretagna.

Fûr lupi al spalto d’un misero ostello,
terribili le belve, ora i Normanni,
e omai s’insanguinava un pio ruscello,
e in fin de’i nembi tersi i scialbi vanni,
e l’Anglia ne spargea un immenso avello
su cui i suoi figli sedettero in scranni,
e ‘l prode un antro n’ebbe in sull’usbergo,
ma ‘l vile nel sepolcro ‘l freddo albergo;

e all’aër che soffrìa or gli ansiosi squilli
delle diane n’andavan cupi e irati,
e lungi se ne stavan di vessilli
colme le tende de’i duci infuriati,
e anco i Franchi or volgendo in truci trilli
bramarono cangiar gli avversi Fati,
e volsero a mirar la lor Pulzella
come un mendìco all’alba in su’ una stella;

ed ella allor co’ prodi e in triste posse
l’albo destrier spronava, e in man le lame
trepidamente andava e si commosse
pur nel versar del sangue in sul certame,
e al ciel ergendo or l’acciaro le fosse
febbrilmente schiudea al perduto ossame,
e ‘l brando che immergea ne seguitava
a punire ‘l rival che sgomentava.

Ma due messer iniqui e in su’i destrieri
contra costei n’andâr e i brandi in mano -
come fean i valenti cavalieri -
ergevano nel nome or del sovrano,
ed eran crudi e spietati e sì altèri
che opporsi forse sarìa stato vano.
Eppure la fanciulla li esaudiva,
e anch’ella brando in mano or li assaliva:

l’un a destra e a mancina, ed ella in mezzo,
e d’ambo i fianchi ‘l colpo or si vibrava,
e questi la miravan co’ disprezzo
mentr’ella fieramente ‘l disfidava,
e ‘l vento a lei e a’ capei or compiva un vezzo
come un segno divin che s’agitava,
e allorché questa calava ‘l cimiero,
già presso e tetro stava un cavaliero

sicché ‘la in freddo acciaro ‘l trafiggeva
nemmanco col cozzar dell’arme antìche,
e sguainato un pugnal, mentr’ei gemeva,
schivando ‘l colpo dell’altro, e alle spiche
ora ‘l disarcionava e ne immergeva
la lama nelle carni, e l’inemiche
n’ebber sgomento - e tanto! - l’orbe schiere
che si retrocedettero or men fiere.

Allor la dama in furia or l’arme ascose,
e aizzando i suoi guerrieri, si ritrasse,
e a mirar la tenzone a’ fulve rose
mestamente si volse, e all’erbe basse,
e le preghiere diceva armoniose
come se in core si mortificasse,
e quivi e in tra’ l’ortiche udì un bisbiglio
d’un uomo che moriva in gran periglio,

e in sul lontan brandir dell’ansie e oscene
spade, e a’ lagne guerresche e all’urla affrante
questo singulto or s’alzava e le pene
di guerra denunziava - ed eran tante! -
e un labbro ‘l sospirava, e nelle vene
l’umore si scorrea or più che spasmante;
e Giovanna si volse in direzione
sua, qual fanciulla al trillar di canzone,

e mentre s’infuriava ‘l campo ancora,
e ‘l certame gemea di Morte impura,
e intanto che cadea in sur d’una viora
un giovine guerrier, e l’armatura
al pugnal si dolea qual mai finora,
e mentre in lagne or n’andò la Natura,
e frattanto che ‘l cielo s’oscurava
presso ‘l sangue e le piaghe e l’ansia bava,

e intanto che fremeva a San Dionigi
un cavalier de’i Franchi e a San Martino,
e al balenar de’i torvi acciar e grigi,
e al disfidar insano del Destino,
e mentre ne celavan l’orbe effigi
i guerrieri al cimier, or presso un pino
ella scorgea un balestrier morituro
dell’Anglia ricoperto in manto oscuro.

Giacea tra l’erbe folte e in spasmi atroci,
e l’occhio si pascea di santa meta,
e co’ debili e indarne e vane voci
del Cielo supplicava or l’alta pièta,
e in duol dassen se ne stava feroci,
e insanguinata n’era in fin la seta
che all’usbergo s’alzava nobiliare
co’ uno stemma lontan d’immenso mare,

e al fianco si morìa un bruno destriero,
e ‘l core ei si cullava or colla destra
‘ve tra ‘l ferro guerresco e truce e nero
piagato stava ‘l motto: «Majestas Vestra»,
e privo ‘l volto al soffrir del cimiero,
a mancina brandìa fatal balestra,
e in tremiti n’attese e co’ un singulto
gli Inferi ambiti al peccar che fu inulto,

e ‘l scarno volto in ansia or stava e in pianto,
e in lagrime scorrea l’occhio funereo,
e sempiternamente e ansioso e affranto
or i nuvoli ambiva e ‘l Ciel etereo,
e lento sen venìa sempre d’accanto
l’orrido regno d’un verme cinereo,
e pel peccar temea or l’aspra condanna
sicché la pièta n’ebbe in fin Giovanna;

e costei, infatti, e svelta e a lui diresse
e abbandonava ‘l gentil palafreno,
e allor discesa a’ terra e in ciglia oppresse
a confortarlo andava, e a’ Nembi almeno
sincero e puro e sacro omai l’eresse
che in pregar s’inchinò al piagato seno,
e questi le sclamava: «I’ fui Guglielmo;
e cotanto peccai di spada e d’elmo!»,

e a’ stenti s’involava ‘l detto in duolo,
e al labbro ne sgorgava ‘l tristo cruore,
e in cielo de’i rondon mirava ‘l volo,
e all’orecchio n’andò ‘l guerresco ardore,
ed ella si prostrava al negro suolo,
e santa n’invocava ‘l sommo Amore,
sicché co’ membra inchinate e sì prone
dolcemente esaudì una Confessione.

Così dal volto sciolse ‘l ner cimiero,
e ‘l guardo ne mostrava or femminile,
e al morente n’apparve omai foriero
di requie ‘l Ciel ambito, e pur da vile
la pièta del Divin n’udìa, e ‘l mistero
d’un eterno e mellifluo e dolce aprile,
e la Pulzella or tranquillo ammirava
e i suoi peccati oscen ne confessava.

Disse di guerre, e di stragi e di doglie,
come una Furia, la Francia percosse,
volse agli ostelli che strusse e alle soglie,
e sire fu d’inganni e di sommosse,
disse di Vite falciate qual foglie,
e tràttosi in vergogna or si commosse,
e sempre ne tremava all’Immortale
poiché gli anni passò da criminale,

e alla dama negòssi un cavaliero,
e le man le prendea, e ne lagrimava,
fu sol un crudo e fatal masnadiero
che ovunque e in nom del rege assassinava,
e al colpo estremo si seppe sì altèro
che di paüra insana or ne tremava,
e seguitando disse d’altre gesta
che la Morte rendevan più funesta:

corse a’ villaggi de’i Franchi e chiedeva
donne e danari, e bestiame e scudieri,
e quivi le capanne or spesso ardeva
a’ vivi in fin scagliando gli aspri ceri,
e al vespro e in sul tramonto si sedeva
dove una fiamma sen stava e a’ sentieri,
oppure si pascea d’un bel banchetto
tra’i vini e ‘l sangue e l’odi, e ‘l vil diletto,

e or che a un braccio fatal giacea lambito,
i crimini ei ne pianse e chiese vènia,
ma non come ‘l fa un crudel bandito
che a gabbare l’Eterno or pur s’ingegna,
e la dama ei implorava or più smarrito,
ed ella ne sclamò una mesta nenia,
e perduta nel Ciel e udendo un tòno
ben certa n’era di dargli ‘l perdono.

Ma d’un tratto ‘l cavalier si fece cupo,
e mesto si gridava in lamentanza,
e della Morte attesa in sul dirupo
sempre più ne piagnea, e siccòme avanza
l’ora temuta, or qual grido d’un lupo
spirante ei n’accennava una romanza,
e alla dama narrò dell’Inghilterra
che abbandonava un dì per far la guerra,

e così la Pulzella l’ascoltava,
e nel core or lo stava compatendo,
e anch’ella - la guerriera! - ‘l lagrimava
come Achille in sul piè del rege, e ardendo
di candida virtute ‘l consolava
esorcizzando a lui l’Inferno orrendo,
e come una nutrice ‘l prese al volto
e al seno lo posava e in vezzi e molto,

e la destra ansimante a’ suoi capei
in carezze volgea di caritate,
e come un figlio ‘l prese e in grazia, ed ei
febbrile ne lodò le chiome aurate,
e dolcemente s’erse ai Ciel costei
colle ciglia al Signore or consacrate,
e più non era ‘l duce che or credete
ma in femminil vestito un santo prete.

Allor ‘la ne cingea un picciol pugnale,
e in modo ‘l prese che fece una Croce,
e docile ‘l mostrava al spir fatale
di lui che svelto andava al verme atroce,
ed ei con questo volse all’Immortale
l’arida possa dell’ultima voce,
e mentre ‘l mirava, e in fin lassù,
mestamente inneggiò a Cristo Gesù,

e col guardo smarrito e sempre affisso
alla dama or temprò un recordo ameno,
e a costei lo diceva e al crocifisso
sibben dicendo stesse: «Oh quanto peno!»,
e sempre e più in sull’orlo dell’abisso
alla Patria rivolse ‘l cor sereno,
e in rimembranze scorse ‘l caro ostello
che poco visse col padre e ‘l fratello.

Così ben si giovò del suo paëse,
e del grano maturo in sull’Estate,
e della sua famiglia - e fu gallese -
e pur di Canterbury ‘l sommo Vate[1],
e de’i campi e de’i boschi e di maggese,
e delle fitte selve un dì adombrate,
e degli stemmi antichi e dell’effigi
e dell’acque ridenti in sul Tamigi,

e dolce rammentava i gran tornei,
e le cacce a’ cinghiali e a’ cervi e a’ tordi,
e de’i certami altèri i buon trofei,
e del liuto i cortesi e molli accordi,
e pur tra questi ‘l guardo di colei
che gli fu sposa e cui i sensi fûr sordi,
e abbandonato un giorno ‘l queto tetto,
e la donna, e le serve e un pargoletto,

e quivi che in immenso e reo dolère
morituro giacea, in quest’ansio detto
tremendo mormorava ‘l dispiacere,
e pallido n’andava omai d’aspetto,
e fioco n’ansimava le preghiere
com’uom che già sen va d’Iddio al cospetto,
e ancora rammentò la gioventude
‘ve quasi gli mancò ogni gran virtude,

e in pianto rimembrava una riviera,
e all’orizzonte etesio i scoti monti,
e di Dover la scialba e pia scogliera,
e del Galles le ripe, e i boschi e i fonti,
e l’Inghilterra in fior di Primavera,
e i bei e cavallereschi e gaudi affronti,
e sconfinata e gentil la campagna
che l’anglo fiume biancheggia e che bagna,

e del torneo gioviale l’alte iscuse,
e del Nord le perenni e fredde nevi,
e l’iscozzesi e sacre cornamuse,
e i rustici palagi e l’albe pievi,
e ‘l nunzio della guerra che l’illuse,
e de’i vascelli i legni e torvi e grevi,
e immobili le spume or d’empio mare
che non potea tuttora e più ammirare,

e a rammentar piagnea della Tempesta,
e della tremolante e pia marina,
e i peccar ripeteva e l’egre gesta,
e la Furia che ‘l mosse ognor meschina,
e tetro rimembrò ‘l Plantagenesta
dell’Anglia eterna Notte e non mattina;
e Giovanna che quivi ‘l compativa
dolce e maternamente or l’accudiva.

Alfine ‘l sire or disse: «A me l’acciaro
sicché quest’alta Croce or n’abbia al petto»,
e la fanciulla ‘l diede, e al cor e amaro
ei sel mise sereno e pien d’affetto,
ed ella a terra pose or questo caro
che al pugnal or volgea ‘l dolente aspetto,
e poscia un guardo solo ei ne spirava
col sangue al labbro aperto e colla bava.

Allor Giovanna or disse: «Vi perdono»
e segnandosi, in pianto or stette e molto,
e all’occhio suo n’apparve un fior d’un tòno,
e ‘l Paradiso apparve al mesto volto,
e all’orecchio n’udì un festoso sòno
che dir parea a costei: «L’abbiam accolto!»,
e intanto l’Anglo altèro ne fuggiva,
e pietoso ‘l Francese or nol seguiva.

Così la santa dama al suo Divino
l’impresa ne compìa, e pure in misfatto
santificata pose e al gran Delfino
un serto che gentil concluse ‘l patto.
Ma l’Inferno segnava a lei ‘l Destino
nel vendicar se istesso; e allor d’un tratto
Satana a’ Franchi or ne diè ‘l tradimento,
e a lei una Curia infame un patimento.

Ma d’eterno momento
Giovanna in Ciel si pasce e al suo Signore
d’eterno e puro e vero e santo Amore!

In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XII, Martedì XIII, Mercoledì XIV Gennaio AD MMXIV





[1]  Cioè Geoffrey Chaucer.