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venerdì 30 dicembre 2016

Etroubles - Carme elegiaco di un Viaggio, ossia Dei Monti, della Giovinezza e dei Titani

A te, último dì di mio vïaggio,
che sotto il Sole splendi lungo i monti,
giovane e fresco più di alpine fonti,
che canti il madrigale della gioia
di mio perduto giugno, quando sbocci
sopra la mia cadente giovinezza
come una rosa immacolata che è
lieve e in fiamma, e all’alba, rossa, aulente,
profumata di cera d’Orïente,
a te, último dì di alpino Fato,
nel segreto del vespro in bruta ansia
con questa cetra di Sogni e ricordi,
sì, solamente a te io
canto. E il nulla che sta dinnanzi a me
non ti riporterà se non un’eco,
effige prepotente di una immane
montagna bella, e cara, con la pietra
millenaria e il cristal di neve, l’etra
che seppellisce sul nascere questo
insolito füoco, o vetta mia,
rimasta viva nella Pöesia.
Ricordi?.... Era il mezzodì, e le cime
da lontan brulicavano di ghiaccio,
il superno dominio dell’inverno,
indistruttibile, immortale, eterno;
e tu, o cima, eri lì, sopravvissuta
alla bufera omicida di tue
sorelle, le compagne dell’estate
nel roseto che andava solitario
a profumare questa valle intera
perché eri come una rosa di maggio,
tra i pascoli sereni e il bel foraggio.
E tacque il cuore, o Sole, ora perduto
che mi hai fatto gustar la gioventù,
quando io miravo la direzïone
sul San Bernardo d’antica legione,
Hannibal che passava infurïando
con gli elefanti, i mostri del deserto,
e l’imperiale titanico serto,
e re Carlo che scese per la guerra
rapendo a sé questa italica terra.
Sentii la marcia dei fieri oricalchi,
tra la fuga dei cuccioli e dei falchi,
battere i denti di prodi guerrieri
che dagli ermi dell’Africa giungevano
in Italia per essere qui vindici
oltre l’eternità dei monti stessi
delle subìte pene in cruda pugna.
E con te camminai sui loro passi,
sulle orme secolari fatte épica
d’Eroi e di cavalieri, presso le ombre
dei più remoti castelli di orgoglio,
laddove in altro tempo i miei compari
Trovatori cantavano di te,
vetta mia, o Sole, di mia giovinezza,
con l’arpa che tuttora il ciel carezza.
Ma mi mancava il lor coraggio. I prodi!
Ambir l’eterno di queste montagne…
pensier supremo, incolmabile brama!....
E con te proseguii su’ i biechi, órridi
speroni del Titano della Corsica,
il console perenne che ambì al trono,
e che Eüropa sfidò e ne infiammava.
E fu felice?.... Morì esilïato,
e tal son io da te, o monte perduto,
dove si accese l’ultima scintilla
di questa gioventù che si matura
e che decade nel tempo in cui è vano
gioir, amare, sentir i desii
del cuore che ormai pensa, attende e medita,
dove nient’altro che Arte è la mia Sorte,
e desiderio o Sogno è solo Morte.
Udii trillare i fucili del Destino,
e il mio cuor ne cadeva al suol, supino,
ferito in mezzo, per sempre. E ch’io feci?
Lo volli maledire… questo Fato
che scherzando e pungendo e bestemmiando
univa Sogni impossibili ai fiori,
e a’ stelle tutte, e mi fece incontrare
per un’ultima volta il guardo tuo,
cima di gioventù, o Sole, o montagna,
quand’io anche ti rimembro in mia campagna
da te lontano ormai perpetüamente,
laddove ogni tuo valico è assente,
anche se ti contemplo tanto sei
immensa, quando in melliflua giornata
vesti dovunque l’orizzonte etesio
delle tue rocce e del tuo ghiaccio cesio;
e il canto mi è di sfogo…. Sfogo. Grido!
Per dirti quanto a te ambivo e tacevo,
ascendere i tuoi sassi e regnar fiero
sopra le tue maree di nubi e nebbie,
più come un re di lupi che come uomo,
fondermi pazzamente in ogni atòmo
tuo, e come i prodi lasciar la mia traccia…
per far conoscere a Dio un sacrificio
sublime e mesto, temerario e improbo,
un olocausto che sen va ben oltre
le vittime di Hánnibal, di Carlo:
a te rinunzïare, o gioventù,
ricordo di un dì di follia che fu.
E non provai nemmeno a rifermarti,
a richiamarti indietro, udii vergogna…
come fermar la roccia che è già immobile,
ma che sotto i miei piedi frana e grida?
O cima! e tacqui, tanto urlar sarìa
pur stato vano, scalar, farti mia,
ergermi al di là dei Cesari invitti,
e il Destin per cui nacqui ebbe il suo corso,
donde io stillo pur sempre un mio rimorso.
E fu il meriggio. E poi giunse la Notte.
Ricordo! I lumi del tramonto alpino
illuminavano i tuoi occhi di fiore,
il tuo crine di petali leggiadri,
il volto tuo scolpito da Natura
perfettamente, e il tacente roseto
di altre montagne fatte come rose,
dove l’unico fosti, un fior rimasto
tra l’argento di brine, e l’oro e il fasto
dei cristalli di neve e i ghiacci eterni,
e il labbro e l’occhio mio stavano inermi.
Vêr te guardavo, a’ una baïta antica,
dove il beffardo Córso ebbe il ricetto
per la Notte in cui fu a varcare l’Alpe
immane del San Bernardo, e dormì
ivi su’ un letto di paglia e di fango,
eloquente Anticristo nascituro
nell’etere montano ardito e oscuro.
Ma a che bisogna éssere Titani
e più malvagi se si vuol sfidar
il Destin tutt’intero, e le barriere
che questo Fato oppure Iddio ne pone?
A che ghermir con la possa, ora un nome,
ora la gloria, qua pianto e là Amore?
Ricchezza e allori? A che vano è il desio?....
Dimmi, o mia vetta, mio Sole, perché
chi osa, conquista e chi è umìle si acquieta
riconoscendo polvere i suoi Sogni,
null’altro che menzogna le chimere,
nient’altro che ombre i sensi delle sere?....
E nel tramonto piangeva il mio cuore,
segretamente, avvolto in questa cura,
sopra tue vette e la possente altura,
con te d’accanto, dovunque, al mio fianco,
soffïando come arpa di Óssiän
sugli spiriti di ogni invitta schiera,
cima di questa valle… dolce valle,
dove sognavo, mirarti là, all’arco
de’ i trïonfi di un Cesare, e là, al buio,
sotto l’immensa volta, posar mio
volto verso una tua pietra a’ tutt’ore,
e per un solo áttimo di ardore,
rapirti un soffio… un soffio a te soltanto
che il Sogno non può dir, nemmeno il canto,
un soffio del tuo vento prepotente;
e da lì contemplare quel Crepuscolo
che era selvaggio e anche incontaminato
con le sue rosee tinte tra le faüci
di tue montagne, vederlo in un quieto
abbraccio. E il Sogno fu. E venne la Notte.
Perché, o Dio, mai non posso ambir, sognare,
essere giovane, e felice e lieto,
e scalare la vetta che ammirai
oltre ogni umano senso dell’onore
e di ogni orgoglio; e dir «Ti prendo, oh vetta!»,
far vero il frutto del sonno irrequieto,
oltre ogni solitario istante mio?
Perché… perché mai, dimmelo, oh tu, Dio!....
Perché Tu ti diverti a porre a’ miei
passi da sempre impossibili monti,
per cui nemmen la Fede mi è d’aiuto
dov’io scalandoli altro non vo’, niente,
che raggiungere il tuo vasto infinito
e sublimarmi nel Sublime alpino?....
E taci… come hai taciuto allorché
Hannibal ne varcava l’Alpe in guerra,
e Carlo cinse la corona ambita,
e il folle volle il mondo nelle mani.
E taci… sempre, eternamente muto,
e so che esisti e che regni sul Fato.
Ma non capisco più questo silenzio
che per dolore mi par fatto assenzio.
E tu, mia vetta, non saprai mai… mai
qual furïosa battaglia ho nel cuor,
tra impavidi rimorsi e pianti osceni,
i Titani si sfidano tra’ Spiriti
di quest’Anima mia che sogna e spera,
mentre soggiunge sì svelta la sera.
E tutto fu sepolto dalla Notte…
mia gioventù, non resta che la Notte.
Ma è un regno troppo oscuro
per essere compreso.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Jacques-Louis David, Il Primo Console Napoleone varca le Alpi al Gran San Bernardo, Neo-Classicismo francese, 1801



In Dì di Giovedì XXIX, rivista in Dì di Venerdì XXX del Mese di Dicembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

mercoledì 14 gennaio 2015

La Battaglia di Patay, ovvero L'ultima Confessione d'un Cavaliere

Pe’ campi di maggese, e a’ boschi e a’ pietre
e pegl’ansi ruscelli e l’erbe fresche,
e all’orizzonte, e all’incognito e all’etre
in tenzon seguitavan le guerresche
schiere, e all’empio certame e in maglie tetre
n’andavano i messeri, e alle donnesche
chiome alle furie del vento ostinato
di Giovanna volgevan, più che al Fato,

e in tra’i cardi e i covòn e i fiori primi
d’opposte direzion venìa l’affronto,
e i prodi e i paggi, e i destrieri e i sublimi
balestrier or n’andâr, e in sul confronto
coll’inimico in furie e presso gl’imi
cespi pugnâr or in fino al tramonto,
e intorno si coprìa la trista terra
d’urla e di sangue, di strazio e di guerra;

e così si celava in rea boscaglia
l’Anglo che a pugna or funereo moveva,
e presso le betulle e l’alba paglia
de’i rival le masnade omai cingeva,
e quest’insana e meschina plebaglia
crudelmente le schiere trafiggeva,
e al vessillo del rege e folle e avaro
qual folgore n’andava ‘l fiero acciaro,

e in cielo si lagnava ‘l truce dardo,
e un urlo s’irrorava a un spoglio faggio,
quivi che un prode scontava l’azzardo
della brama del lauro e del coraggio,
e un balestrier gagliardo e pur testardo
d’umori ne colmava ‘l campo in maggio,
e la possa struggea la vil campagna
or de’i Plantagenesta e di Bretagna.

Fûr lupi al spalto d’un misero ostello,
terribili le belve, ora i Normanni,
e omai s’insanguinava un pio ruscello,
e in fin de’i nembi tersi i scialbi vanni,
e l’Anglia ne spargea un immenso avello
su cui i suoi figli sedettero in scranni,
e ‘l prode un antro n’ebbe in sull’usbergo,
ma ‘l vile nel sepolcro ‘l freddo albergo;

e all’aër che soffrìa or gli ansiosi squilli
delle diane n’andavan cupi e irati,
e lungi se ne stavan di vessilli
colme le tende de’i duci infuriati,
e anco i Franchi or volgendo in truci trilli
bramarono cangiar gli avversi Fati,
e volsero a mirar la lor Pulzella
come un mendìco all’alba in su’ una stella;

ed ella allor co’ prodi e in triste posse
l’albo destrier spronava, e in man le lame
trepidamente andava e si commosse
pur nel versar del sangue in sul certame,
e al ciel ergendo or l’acciaro le fosse
febbrilmente schiudea al perduto ossame,
e ‘l brando che immergea ne seguitava
a punire ‘l rival che sgomentava.

Ma due messer iniqui e in su’i destrieri
contra costei n’andâr e i brandi in mano -
come fean i valenti cavalieri -
ergevano nel nome or del sovrano,
ed eran crudi e spietati e sì altèri
che opporsi forse sarìa stato vano.
Eppure la fanciulla li esaudiva,
e anch’ella brando in mano or li assaliva:

l’un a destra e a mancina, ed ella in mezzo,
e d’ambo i fianchi ‘l colpo or si vibrava,
e questi la miravan co’ disprezzo
mentr’ella fieramente ‘l disfidava,
e ‘l vento a lei e a’ capei or compiva un vezzo
come un segno divin che s’agitava,
e allorché questa calava ‘l cimiero,
già presso e tetro stava un cavaliero

sicché ‘la in freddo acciaro ‘l trafiggeva
nemmanco col cozzar dell’arme antìche,
e sguainato un pugnal, mentr’ei gemeva,
schivando ‘l colpo dell’altro, e alle spiche
ora ‘l disarcionava e ne immergeva
la lama nelle carni, e l’inemiche
n’ebber sgomento - e tanto! - l’orbe schiere
che si retrocedettero or men fiere.

Allor la dama in furia or l’arme ascose,
e aizzando i suoi guerrieri, si ritrasse,
e a mirar la tenzone a’ fulve rose
mestamente si volse, e all’erbe basse,
e le preghiere diceva armoniose
come se in core si mortificasse,
e quivi e in tra’ l’ortiche udì un bisbiglio
d’un uomo che moriva in gran periglio,

e in sul lontan brandir dell’ansie e oscene
spade, e a’ lagne guerresche e all’urla affrante
questo singulto or s’alzava e le pene
di guerra denunziava - ed eran tante! -
e un labbro ‘l sospirava, e nelle vene
l’umore si scorrea or più che spasmante;
e Giovanna si volse in direzione
sua, qual fanciulla al trillar di canzone,

e mentre s’infuriava ‘l campo ancora,
e ‘l certame gemea di Morte impura,
e intanto che cadea in sur d’una viora
un giovine guerrier, e l’armatura
al pugnal si dolea qual mai finora,
e mentre in lagne or n’andò la Natura,
e frattanto che ‘l cielo s’oscurava
presso ‘l sangue e le piaghe e l’ansia bava,

e intanto che fremeva a San Dionigi
un cavalier de’i Franchi e a San Martino,
e al balenar de’i torvi acciar e grigi,
e al disfidar insano del Destino,
e mentre ne celavan l’orbe effigi
i guerrieri al cimier, or presso un pino
ella scorgea un balestrier morituro
dell’Anglia ricoperto in manto oscuro.

Giacea tra l’erbe folte e in spasmi atroci,
e l’occhio si pascea di santa meta,
e co’ debili e indarne e vane voci
del Cielo supplicava or l’alta pièta,
e in duol dassen se ne stava feroci,
e insanguinata n’era in fin la seta
che all’usbergo s’alzava nobiliare
co’ uno stemma lontan d’immenso mare,

e al fianco si morìa un bruno destriero,
e ‘l core ei si cullava or colla destra
‘ve tra ‘l ferro guerresco e truce e nero
piagato stava ‘l motto: «Majestas Vestra»,
e privo ‘l volto al soffrir del cimiero,
a mancina brandìa fatal balestra,
e in tremiti n’attese e co’ un singulto
gli Inferi ambiti al peccar che fu inulto,

e ‘l scarno volto in ansia or stava e in pianto,
e in lagrime scorrea l’occhio funereo,
e sempiternamente e ansioso e affranto
or i nuvoli ambiva e ‘l Ciel etereo,
e lento sen venìa sempre d’accanto
l’orrido regno d’un verme cinereo,
e pel peccar temea or l’aspra condanna
sicché la pièta n’ebbe in fin Giovanna;

e costei, infatti, e svelta e a lui diresse
e abbandonava ‘l gentil palafreno,
e allor discesa a’ terra e in ciglia oppresse
a confortarlo andava, e a’ Nembi almeno
sincero e puro e sacro omai l’eresse
che in pregar s’inchinò al piagato seno,
e questi le sclamava: «I’ fui Guglielmo;
e cotanto peccai di spada e d’elmo!»,

e a’ stenti s’involava ‘l detto in duolo,
e al labbro ne sgorgava ‘l tristo cruore,
e in cielo de’i rondon mirava ‘l volo,
e all’orecchio n’andò ‘l guerresco ardore,
ed ella si prostrava al negro suolo,
e santa n’invocava ‘l sommo Amore,
sicché co’ membra inchinate e sì prone
dolcemente esaudì una Confessione.

Così dal volto sciolse ‘l ner cimiero,
e ‘l guardo ne mostrava or femminile,
e al morente n’apparve omai foriero
di requie ‘l Ciel ambito, e pur da vile
la pièta del Divin n’udìa, e ‘l mistero
d’un eterno e mellifluo e dolce aprile,
e la Pulzella or tranquillo ammirava
e i suoi peccati oscen ne confessava.

Disse di guerre, e di stragi e di doglie,
come una Furia, la Francia percosse,
volse agli ostelli che strusse e alle soglie,
e sire fu d’inganni e di sommosse,
disse di Vite falciate qual foglie,
e tràttosi in vergogna or si commosse,
e sempre ne tremava all’Immortale
poiché gli anni passò da criminale,

e alla dama negòssi un cavaliero,
e le man le prendea, e ne lagrimava,
fu sol un crudo e fatal masnadiero
che ovunque e in nom del rege assassinava,
e al colpo estremo si seppe sì altèro
che di paüra insana or ne tremava,
e seguitando disse d’altre gesta
che la Morte rendevan più funesta:

corse a’ villaggi de’i Franchi e chiedeva
donne e danari, e bestiame e scudieri,
e quivi le capanne or spesso ardeva
a’ vivi in fin scagliando gli aspri ceri,
e al vespro e in sul tramonto si sedeva
dove una fiamma sen stava e a’ sentieri,
oppure si pascea d’un bel banchetto
tra’i vini e ‘l sangue e l’odi, e ‘l vil diletto,

e or che a un braccio fatal giacea lambito,
i crimini ei ne pianse e chiese vènia,
ma non come ‘l fa un crudel bandito
che a gabbare l’Eterno or pur s’ingegna,
e la dama ei implorava or più smarrito,
ed ella ne sclamò una mesta nenia,
e perduta nel Ciel e udendo un tòno
ben certa n’era di dargli ‘l perdono.

Ma d’un tratto ‘l cavalier si fece cupo,
e mesto si gridava in lamentanza,
e della Morte attesa in sul dirupo
sempre più ne piagnea, e siccòme avanza
l’ora temuta, or qual grido d’un lupo
spirante ei n’accennava una romanza,
e alla dama narrò dell’Inghilterra
che abbandonava un dì per far la guerra,

e così la Pulzella l’ascoltava,
e nel core or lo stava compatendo,
e anch’ella - la guerriera! - ‘l lagrimava
come Achille in sul piè del rege, e ardendo
di candida virtute ‘l consolava
esorcizzando a lui l’Inferno orrendo,
e come una nutrice ‘l prese al volto
e al seno lo posava e in vezzi e molto,

e la destra ansimante a’ suoi capei
in carezze volgea di caritate,
e come un figlio ‘l prese e in grazia, ed ei
febbrile ne lodò le chiome aurate,
e dolcemente s’erse ai Ciel costei
colle ciglia al Signore or consacrate,
e più non era ‘l duce che or credete
ma in femminil vestito un santo prete.

Allor ‘la ne cingea un picciol pugnale,
e in modo ‘l prese che fece una Croce,
e docile ‘l mostrava al spir fatale
di lui che svelto andava al verme atroce,
ed ei con questo volse all’Immortale
l’arida possa dell’ultima voce,
e mentre ‘l mirava, e in fin lassù,
mestamente inneggiò a Cristo Gesù,

e col guardo smarrito e sempre affisso
alla dama or temprò un recordo ameno,
e a costei lo diceva e al crocifisso
sibben dicendo stesse: «Oh quanto peno!»,
e sempre e più in sull’orlo dell’abisso
alla Patria rivolse ‘l cor sereno,
e in rimembranze scorse ‘l caro ostello
che poco visse col padre e ‘l fratello.

Così ben si giovò del suo paëse,
e del grano maturo in sull’Estate,
e della sua famiglia - e fu gallese -
e pur di Canterbury ‘l sommo Vate[1],
e de’i campi e de’i boschi e di maggese,
e delle fitte selve un dì adombrate,
e degli stemmi antichi e dell’effigi
e dell’acque ridenti in sul Tamigi,

e dolce rammentava i gran tornei,
e le cacce a’ cinghiali e a’ cervi e a’ tordi,
e de’i certami altèri i buon trofei,
e del liuto i cortesi e molli accordi,
e pur tra questi ‘l guardo di colei
che gli fu sposa e cui i sensi fûr sordi,
e abbandonato un giorno ‘l queto tetto,
e la donna, e le serve e un pargoletto,

e quivi che in immenso e reo dolère
morituro giacea, in quest’ansio detto
tremendo mormorava ‘l dispiacere,
e pallido n’andava omai d’aspetto,
e fioco n’ansimava le preghiere
com’uom che già sen va d’Iddio al cospetto,
e ancora rammentò la gioventude
‘ve quasi gli mancò ogni gran virtude,

e in pianto rimembrava una riviera,
e all’orizzonte etesio i scoti monti,
e di Dover la scialba e pia scogliera,
e del Galles le ripe, e i boschi e i fonti,
e l’Inghilterra in fior di Primavera,
e i bei e cavallereschi e gaudi affronti,
e sconfinata e gentil la campagna
che l’anglo fiume biancheggia e che bagna,

e del torneo gioviale l’alte iscuse,
e del Nord le perenni e fredde nevi,
e l’iscozzesi e sacre cornamuse,
e i rustici palagi e l’albe pievi,
e ‘l nunzio della guerra che l’illuse,
e de’i vascelli i legni e torvi e grevi,
e immobili le spume or d’empio mare
che non potea tuttora e più ammirare,

e a rammentar piagnea della Tempesta,
e della tremolante e pia marina,
e i peccar ripeteva e l’egre gesta,
e la Furia che ‘l mosse ognor meschina,
e tetro rimembrò ‘l Plantagenesta
dell’Anglia eterna Notte e non mattina;
e Giovanna che quivi ‘l compativa
dolce e maternamente or l’accudiva.

Alfine ‘l sire or disse: «A me l’acciaro
sicché quest’alta Croce or n’abbia al petto»,
e la fanciulla ‘l diede, e al cor e amaro
ei sel mise sereno e pien d’affetto,
ed ella a terra pose or questo caro
che al pugnal or volgea ‘l dolente aspetto,
e poscia un guardo solo ei ne spirava
col sangue al labbro aperto e colla bava.

Allor Giovanna or disse: «Vi perdono»
e segnandosi, in pianto or stette e molto,
e all’occhio suo n’apparve un fior d’un tòno,
e ‘l Paradiso apparve al mesto volto,
e all’orecchio n’udì un festoso sòno
che dir parea a costei: «L’abbiam accolto!»,
e intanto l’Anglo altèro ne fuggiva,
e pietoso ‘l Francese or nol seguiva.

Così la santa dama al suo Divino
l’impresa ne compìa, e pure in misfatto
santificata pose e al gran Delfino
un serto che gentil concluse ‘l patto.
Ma l’Inferno segnava a lei ‘l Destino
nel vendicar se istesso; e allor d’un tratto
Satana a’ Franchi or ne diè ‘l tradimento,
e a lei una Curia infame un patimento.

Ma d’eterno momento
Giovanna in Ciel si pasce e al suo Signore
d’eterno e puro e vero e santo Amore!

In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XII, Martedì XIII, Mercoledì XIV Gennaio AD MMXIV





[1]  Cioè Geoffrey Chaucer.