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giovedì 29 gennaio 2015

I Sonetti in Elegia allo Spirito

Impressioni d’una Chiesa in Lontananza

Pel cielo che meriggia e all’orizzonte
ove al verno s’oscura or l’aër cieco,
e a piè d’un innevato e falbo monte
che de’i ghiacci n’irrora - e sempre - un’eco

scialba di marmi di flebile fonte,
come brina tra’ fieni e al guardo bieco,
la neve si biancheggia e presso un ponte
d’una roccia di chiesa ov’io ne preco.

Così e in tra’ l’aure negre ‘l campanile
di gotiche campane or s’erge, e in alto
l’etere bacia, la chioma sottile

del gemito del ghiaccio, e parmi un spalto;
e ‘l bronzo si lamenta, e m’è gentile
questa lagna di prece, eterno assalto.

Ma alla maggese e al malto
del campo che ‘l circonda e in sasso fero
le lapidi si stanno: è un cimitero.

Una Pieve di Campagna

Mesta di pietre e solinga e d’antiche
vie di campagna l’altar tutelare
una pieve ne scorgo e all’aure aprìche
albeggiando si sta qual scoglio in mare;

e d’intorno le brine in sulle spiche
alluminano ‘l viso e l’alte e care
sante sembianze e celesti e l’amiche
della Vergin le guance, e ‘l s’han d’amare.

Or così ne contemplo un lumicino,
fiamma ghiacciata nel foco del vento,
e al braccio che si pinge ‘l Pargolino,

e ‘l trapunto velame, e ‘l ciglio, e a stento
quest’effigi ne copre un tetro pino,
e nel core mi vien un Sentimento,

senso di pio sgomento;
e alle nevi d’un attimo invernale
sento che piagne dal Ciel l’Immortale.

Immagini d’un Viandante e d’un Monastero in un Istante di Notte

La Luna si tormenta e ‘l ciel s’oscura,
e l’ossame degli astri or fioco splende,
e quei che vagolando a una radura -
un misero viandante - ‘l giorno attende.

Ma al tremulo sentier di forma impura
scorge che un Mostro quest’etere fende,
e tosto gli sovviene un’ansia cura,
e dal vespro ‘l timore ansioso apprende.

Allor dinnante ammira un monastero,
e la pietra si cade, e abbandonato
l’altare si consuma e truce e altèro

nel strale della Luna or contristato,
e le volte e ‘l rosone e ‘l sasso nero
arcano qui ne inghiotte un folle Fato;

ed ei terrorizzato
scorre in tra l’ansie e in tra’i pianti la sera,
or quasi meditando e in pia preghiera.

La Furia d’un Temporale invernale

Nivea si geme la folgore a un colle,
e la brina rosseggia e in lampi e in pioggia,
trista ne gronda la neve e s’estolle
la riviera fatal d’un’orba roggia,

e ‘l vento che sospira in furia or folle
cieco si grida e in su’i ghiacci s’appoggia,
e le folgori son di nevi ampolle,
bieca Tempesta or nel verno s’alloggia.

Un cielo che innevato a’ geli or tòna
allor nella bufera e in lamentanza
l’agile ghiaccio in tra’i fiocchi ne sòna

una cupa canzon; e in tracotanza
ghiaccia a un ruscel la saëtta che prona
febbrilmente e crudel e ria s’avanza.

Mai scorsa tal baldanza!
Nel verno ne s’accende un Temporale,
forse un miraggio, fors’ira ancestrale!

Un Funerale in un Meriggio invernale

In tra’i spettri e le brume e i ghiacci e i fiori
un corteo lentamente or s’incammina,
e in pianti di salmodie e di dolori
la bara si lamenta, e ne destina

all’ultimo soggiorno e a’ mesti cori
l’orbo cenere e l’ossa, e alla ferina
tomba si pasce di terre e d’umori,
vermi feroci pungenti qual spina.

Allor sta ‘l mesto prete, e l’aspersorio
l’ossame che si gela or ne deterge,
e ‘l crisantemo piagne e sta ostensorio

della Morte lo spettro; e ovunque asperge
l’orrido lutto del gemito ustorio,
e una pala ‘l defunto al suolo immerge.

Così la neve terge
di marmo ‘l funerale, e ‘l pio Mistero:
or perpetua la Luce, oppure ‘l nero.

Un Eremo di Montagna

Alla roccia sen giace un antro eletto,
e in pietra ‘l campanile un monte assiste,
e docilmente ‘l segue, e va al cospetto
delle tremule vette e scialbe e triste,

e di nevi si splende, e ‘l santo aspetto
alle posse in bufera ancor resiste,
e ‘l bronzo si percòte al vento schietto
delle nuvole in ciel, festose arpiste;

e un cippo religioso al fianco or s’alza,
veglia la pietra del muro si cade,
e da questo de’ sassi in sulla balza

si cadono soffrenti a’ valli e a’ rade,
e l’alito divino omai l’incalza,
l’Ermo l’ebbrezza del Padre n’invade,

e di mietute biade
le tegole ne sono e in paglie in fiore,
e d’ebano l’altare del Signore.

Le Torri dell’Eresiärca

Niveo ne sparge le Furie all’ostello
e i terribili sali ‘l vento, e carca
di lichèn la magion si lagna e ‘l vello
dell’edera crudel, e un patriärca

nel sepolcro si giace, e un dì rubello
predicando ne fu un eresiärca,
e oramai in tra le mura e in tristo avello
al Cielo che ne offese qui s’inarca.

Gridan le torri de’i Catari folli,
negra la pietra le fiamme riflette,
e in ermo ne rimangon gli orbi colli,

e aspri i valichi, e l’erte e l’atre vette,
e quivi non vi son guerrier, rampolli
chè l’ostello al Signor un dì cadette.

Le torri son saëtte,
e un giorno le distrusse in triste schiere
col volere del Nume ‘l reo Tempiere.    

La Via d’un Crociato

D’ansie si pasce del Nume ‘l guerriero,
e in pianto ne lamenta un reo Destino,
e soffrente sen va pell’ermo intiero,
debil disfida un messer saracino,

e delle carovane ‘l caldo sentiero
or incognitamente segue, e in fino
all’inimico ostello in passo fiero
prode si porta col segno divino.

Pugna feroce le scolte infedeli,
miete l’acciaro l’affanno e ‘l sospiro,
dice che ‘l brama Colui che ne’ Cieli

forse ha deciso la Gloria o ‘l Martiro;
ma d’un tratto ‘l circonda - al volto i veli -
degli Osmani la schiera, e con un tiro

d’un dardo e d’un raggiro,
ei prigion ne diventa, e vive a stento,
e ne teme ‘l penar, l’impalamento.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì XXVIII, Giovedì XXIX Gennaio AD MMXV
 

mercoledì 14 gennaio 2015

La Battaglia di Patay, ovvero L'ultima Confessione d'un Cavaliere

Pe’ campi di maggese, e a’ boschi e a’ pietre
e pegl’ansi ruscelli e l’erbe fresche,
e all’orizzonte, e all’incognito e all’etre
in tenzon seguitavan le guerresche
schiere, e all’empio certame e in maglie tetre
n’andavano i messeri, e alle donnesche
chiome alle furie del vento ostinato
di Giovanna volgevan, più che al Fato,

e in tra’i cardi e i covòn e i fiori primi
d’opposte direzion venìa l’affronto,
e i prodi e i paggi, e i destrieri e i sublimi
balestrier or n’andâr, e in sul confronto
coll’inimico in furie e presso gl’imi
cespi pugnâr or in fino al tramonto,
e intorno si coprìa la trista terra
d’urla e di sangue, di strazio e di guerra;

e così si celava in rea boscaglia
l’Anglo che a pugna or funereo moveva,
e presso le betulle e l’alba paglia
de’i rival le masnade omai cingeva,
e quest’insana e meschina plebaglia
crudelmente le schiere trafiggeva,
e al vessillo del rege e folle e avaro
qual folgore n’andava ‘l fiero acciaro,

e in cielo si lagnava ‘l truce dardo,
e un urlo s’irrorava a un spoglio faggio,
quivi che un prode scontava l’azzardo
della brama del lauro e del coraggio,
e un balestrier gagliardo e pur testardo
d’umori ne colmava ‘l campo in maggio,
e la possa struggea la vil campagna
or de’i Plantagenesta e di Bretagna.

Fûr lupi al spalto d’un misero ostello,
terribili le belve, ora i Normanni,
e omai s’insanguinava un pio ruscello,
e in fin de’i nembi tersi i scialbi vanni,
e l’Anglia ne spargea un immenso avello
su cui i suoi figli sedettero in scranni,
e ‘l prode un antro n’ebbe in sull’usbergo,
ma ‘l vile nel sepolcro ‘l freddo albergo;

e all’aër che soffrìa or gli ansiosi squilli
delle diane n’andavan cupi e irati,
e lungi se ne stavan di vessilli
colme le tende de’i duci infuriati,
e anco i Franchi or volgendo in truci trilli
bramarono cangiar gli avversi Fati,
e volsero a mirar la lor Pulzella
come un mendìco all’alba in su’ una stella;

ed ella allor co’ prodi e in triste posse
l’albo destrier spronava, e in man le lame
trepidamente andava e si commosse
pur nel versar del sangue in sul certame,
e al ciel ergendo or l’acciaro le fosse
febbrilmente schiudea al perduto ossame,
e ‘l brando che immergea ne seguitava
a punire ‘l rival che sgomentava.

Ma due messer iniqui e in su’i destrieri
contra costei n’andâr e i brandi in mano -
come fean i valenti cavalieri -
ergevano nel nome or del sovrano,
ed eran crudi e spietati e sì altèri
che opporsi forse sarìa stato vano.
Eppure la fanciulla li esaudiva,
e anch’ella brando in mano or li assaliva:

l’un a destra e a mancina, ed ella in mezzo,
e d’ambo i fianchi ‘l colpo or si vibrava,
e questi la miravan co’ disprezzo
mentr’ella fieramente ‘l disfidava,
e ‘l vento a lei e a’ capei or compiva un vezzo
come un segno divin che s’agitava,
e allorché questa calava ‘l cimiero,
già presso e tetro stava un cavaliero

sicché ‘la in freddo acciaro ‘l trafiggeva
nemmanco col cozzar dell’arme antìche,
e sguainato un pugnal, mentr’ei gemeva,
schivando ‘l colpo dell’altro, e alle spiche
ora ‘l disarcionava e ne immergeva
la lama nelle carni, e l’inemiche
n’ebber sgomento - e tanto! - l’orbe schiere
che si retrocedettero or men fiere.

Allor la dama in furia or l’arme ascose,
e aizzando i suoi guerrieri, si ritrasse,
e a mirar la tenzone a’ fulve rose
mestamente si volse, e all’erbe basse,
e le preghiere diceva armoniose
come se in core si mortificasse,
e quivi e in tra’ l’ortiche udì un bisbiglio
d’un uomo che moriva in gran periglio,

e in sul lontan brandir dell’ansie e oscene
spade, e a’ lagne guerresche e all’urla affrante
questo singulto or s’alzava e le pene
di guerra denunziava - ed eran tante! -
e un labbro ‘l sospirava, e nelle vene
l’umore si scorrea or più che spasmante;
e Giovanna si volse in direzione
sua, qual fanciulla al trillar di canzone,

e mentre s’infuriava ‘l campo ancora,
e ‘l certame gemea di Morte impura,
e intanto che cadea in sur d’una viora
un giovine guerrier, e l’armatura
al pugnal si dolea qual mai finora,
e mentre in lagne or n’andò la Natura,
e frattanto che ‘l cielo s’oscurava
presso ‘l sangue e le piaghe e l’ansia bava,

e intanto che fremeva a San Dionigi
un cavalier de’i Franchi e a San Martino,
e al balenar de’i torvi acciar e grigi,
e al disfidar insano del Destino,
e mentre ne celavan l’orbe effigi
i guerrieri al cimier, or presso un pino
ella scorgea un balestrier morituro
dell’Anglia ricoperto in manto oscuro.

Giacea tra l’erbe folte e in spasmi atroci,
e l’occhio si pascea di santa meta,
e co’ debili e indarne e vane voci
del Cielo supplicava or l’alta pièta,
e in duol dassen se ne stava feroci,
e insanguinata n’era in fin la seta
che all’usbergo s’alzava nobiliare
co’ uno stemma lontan d’immenso mare,

e al fianco si morìa un bruno destriero,
e ‘l core ei si cullava or colla destra
‘ve tra ‘l ferro guerresco e truce e nero
piagato stava ‘l motto: «Majestas Vestra»,
e privo ‘l volto al soffrir del cimiero,
a mancina brandìa fatal balestra,
e in tremiti n’attese e co’ un singulto
gli Inferi ambiti al peccar che fu inulto,

e ‘l scarno volto in ansia or stava e in pianto,
e in lagrime scorrea l’occhio funereo,
e sempiternamente e ansioso e affranto
or i nuvoli ambiva e ‘l Ciel etereo,
e lento sen venìa sempre d’accanto
l’orrido regno d’un verme cinereo,
e pel peccar temea or l’aspra condanna
sicché la pièta n’ebbe in fin Giovanna;

e costei, infatti, e svelta e a lui diresse
e abbandonava ‘l gentil palafreno,
e allor discesa a’ terra e in ciglia oppresse
a confortarlo andava, e a’ Nembi almeno
sincero e puro e sacro omai l’eresse
che in pregar s’inchinò al piagato seno,
e questi le sclamava: «I’ fui Guglielmo;
e cotanto peccai di spada e d’elmo!»,

e a’ stenti s’involava ‘l detto in duolo,
e al labbro ne sgorgava ‘l tristo cruore,
e in cielo de’i rondon mirava ‘l volo,
e all’orecchio n’andò ‘l guerresco ardore,
ed ella si prostrava al negro suolo,
e santa n’invocava ‘l sommo Amore,
sicché co’ membra inchinate e sì prone
dolcemente esaudì una Confessione.

Così dal volto sciolse ‘l ner cimiero,
e ‘l guardo ne mostrava or femminile,
e al morente n’apparve omai foriero
di requie ‘l Ciel ambito, e pur da vile
la pièta del Divin n’udìa, e ‘l mistero
d’un eterno e mellifluo e dolce aprile,
e la Pulzella or tranquillo ammirava
e i suoi peccati oscen ne confessava.

Disse di guerre, e di stragi e di doglie,
come una Furia, la Francia percosse,
volse agli ostelli che strusse e alle soglie,
e sire fu d’inganni e di sommosse,
disse di Vite falciate qual foglie,
e tràttosi in vergogna or si commosse,
e sempre ne tremava all’Immortale
poiché gli anni passò da criminale,

e alla dama negòssi un cavaliero,
e le man le prendea, e ne lagrimava,
fu sol un crudo e fatal masnadiero
che ovunque e in nom del rege assassinava,
e al colpo estremo si seppe sì altèro
che di paüra insana or ne tremava,
e seguitando disse d’altre gesta
che la Morte rendevan più funesta:

corse a’ villaggi de’i Franchi e chiedeva
donne e danari, e bestiame e scudieri,
e quivi le capanne or spesso ardeva
a’ vivi in fin scagliando gli aspri ceri,
e al vespro e in sul tramonto si sedeva
dove una fiamma sen stava e a’ sentieri,
oppure si pascea d’un bel banchetto
tra’i vini e ‘l sangue e l’odi, e ‘l vil diletto,

e or che a un braccio fatal giacea lambito,
i crimini ei ne pianse e chiese vènia,
ma non come ‘l fa un crudel bandito
che a gabbare l’Eterno or pur s’ingegna,
e la dama ei implorava or più smarrito,
ed ella ne sclamò una mesta nenia,
e perduta nel Ciel e udendo un tòno
ben certa n’era di dargli ‘l perdono.

Ma d’un tratto ‘l cavalier si fece cupo,
e mesto si gridava in lamentanza,
e della Morte attesa in sul dirupo
sempre più ne piagnea, e siccòme avanza
l’ora temuta, or qual grido d’un lupo
spirante ei n’accennava una romanza,
e alla dama narrò dell’Inghilterra
che abbandonava un dì per far la guerra,

e così la Pulzella l’ascoltava,
e nel core or lo stava compatendo,
e anch’ella - la guerriera! - ‘l lagrimava
come Achille in sul piè del rege, e ardendo
di candida virtute ‘l consolava
esorcizzando a lui l’Inferno orrendo,
e come una nutrice ‘l prese al volto
e al seno lo posava e in vezzi e molto,

e la destra ansimante a’ suoi capei
in carezze volgea di caritate,
e come un figlio ‘l prese e in grazia, ed ei
febbrile ne lodò le chiome aurate,
e dolcemente s’erse ai Ciel costei
colle ciglia al Signore or consacrate,
e più non era ‘l duce che or credete
ma in femminil vestito un santo prete.

Allor ‘la ne cingea un picciol pugnale,
e in modo ‘l prese che fece una Croce,
e docile ‘l mostrava al spir fatale
di lui che svelto andava al verme atroce,
ed ei con questo volse all’Immortale
l’arida possa dell’ultima voce,
e mentre ‘l mirava, e in fin lassù,
mestamente inneggiò a Cristo Gesù,

e col guardo smarrito e sempre affisso
alla dama or temprò un recordo ameno,
e a costei lo diceva e al crocifisso
sibben dicendo stesse: «Oh quanto peno!»,
e sempre e più in sull’orlo dell’abisso
alla Patria rivolse ‘l cor sereno,
e in rimembranze scorse ‘l caro ostello
che poco visse col padre e ‘l fratello.

Così ben si giovò del suo paëse,
e del grano maturo in sull’Estate,
e della sua famiglia - e fu gallese -
e pur di Canterbury ‘l sommo Vate[1],
e de’i campi e de’i boschi e di maggese,
e delle fitte selve un dì adombrate,
e degli stemmi antichi e dell’effigi
e dell’acque ridenti in sul Tamigi,

e dolce rammentava i gran tornei,
e le cacce a’ cinghiali e a’ cervi e a’ tordi,
e de’i certami altèri i buon trofei,
e del liuto i cortesi e molli accordi,
e pur tra questi ‘l guardo di colei
che gli fu sposa e cui i sensi fûr sordi,
e abbandonato un giorno ‘l queto tetto,
e la donna, e le serve e un pargoletto,

e quivi che in immenso e reo dolère
morituro giacea, in quest’ansio detto
tremendo mormorava ‘l dispiacere,
e pallido n’andava omai d’aspetto,
e fioco n’ansimava le preghiere
com’uom che già sen va d’Iddio al cospetto,
e ancora rammentò la gioventude
‘ve quasi gli mancò ogni gran virtude,

e in pianto rimembrava una riviera,
e all’orizzonte etesio i scoti monti,
e di Dover la scialba e pia scogliera,
e del Galles le ripe, e i boschi e i fonti,
e l’Inghilterra in fior di Primavera,
e i bei e cavallereschi e gaudi affronti,
e sconfinata e gentil la campagna
che l’anglo fiume biancheggia e che bagna,

e del torneo gioviale l’alte iscuse,
e del Nord le perenni e fredde nevi,
e l’iscozzesi e sacre cornamuse,
e i rustici palagi e l’albe pievi,
e ‘l nunzio della guerra che l’illuse,
e de’i vascelli i legni e torvi e grevi,
e immobili le spume or d’empio mare
che non potea tuttora e più ammirare,

e a rammentar piagnea della Tempesta,
e della tremolante e pia marina,
e i peccar ripeteva e l’egre gesta,
e la Furia che ‘l mosse ognor meschina,
e tetro rimembrò ‘l Plantagenesta
dell’Anglia eterna Notte e non mattina;
e Giovanna che quivi ‘l compativa
dolce e maternamente or l’accudiva.

Alfine ‘l sire or disse: «A me l’acciaro
sicché quest’alta Croce or n’abbia al petto»,
e la fanciulla ‘l diede, e al cor e amaro
ei sel mise sereno e pien d’affetto,
ed ella a terra pose or questo caro
che al pugnal or volgea ‘l dolente aspetto,
e poscia un guardo solo ei ne spirava
col sangue al labbro aperto e colla bava.

Allor Giovanna or disse: «Vi perdono»
e segnandosi, in pianto or stette e molto,
e all’occhio suo n’apparve un fior d’un tòno,
e ‘l Paradiso apparve al mesto volto,
e all’orecchio n’udì un festoso sòno
che dir parea a costei: «L’abbiam accolto!»,
e intanto l’Anglo altèro ne fuggiva,
e pietoso ‘l Francese or nol seguiva.

Così la santa dama al suo Divino
l’impresa ne compìa, e pure in misfatto
santificata pose e al gran Delfino
un serto che gentil concluse ‘l patto.
Ma l’Inferno segnava a lei ‘l Destino
nel vendicar se istesso; e allor d’un tratto
Satana a’ Franchi or ne diè ‘l tradimento,
e a lei una Curia infame un patimento.

Ma d’eterno momento
Giovanna in Ciel si pasce e al suo Signore
d’eterno e puro e vero e santo Amore!

In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XII, Martedì XIII, Mercoledì XIV Gennaio AD MMXIV





[1]  Cioè Geoffrey Chaucer.

mercoledì 7 gennaio 2015

Ricordanze invernali all'Orizzonte alpestre

All’ombre dell’aurora e all’orbe brume,
e all’etere che cupo si lamenta,
e alle nenie d’un gallo e veglio e implume,
e alla pallida brina a un fior di menta,
e a’ boschi e a’ cardi ‘ve làgnasi un fiume
e a questi scialbi ciel che ‘l Sole attenta
febbrilmente ne volgo ‘l guardo avvinto
e a un nembo che si sta d’argento tinto,

e spaziändo ‘l vento all’orizzonte
co’ un nostalgico cor sempre discerno
gelide e in neve le vette d’un monte
che sublime si splende in ghiaccio eterno,
e intorno ne contemplo or nubi appronte
a versar altre nevi, e quasi a ischerno
della bufera intendo un’egra lagna
che un rimembrar m’ispira di montagna.

Così al ciel che mellifluo e queto albeggia,
e a’ valichi lontani e al giovin giorno,
or mentre l’astro in tra’i nembi rosseggia
e in tra’i spogli arboscel d’un trèmul orno,
d’un trapassato dì or in su’ Craveggia
nella mente ‘l recordo in gaudio adorno
pallidamente e in core mi sovviene
come un brivido insan che m’è alle vene,

e per questo ammirando ‘l ciel lontano,
e sospirando alle candide cime,
e al fragile sentier torvo e montano
e all’incognite rocce e vaghe e all’ime
valli, e all’albe foreste e a un clivo arcano,
e singhiozzando alla pietra sublime
su cui d’estate e al suol del Nibelungo
timidamente cresce ‘l muschio e ‘l fungo,

e lagrime spremendo all’occhio - e tanto -
più dell’acque del rivo all’Alpe cara,
e all’elvetico calle e molle e affranto
che ‘l Sol serenamente ne rischiara,
a rimembrar m’accingo in questo canto
la beltà della roccia e ignuda e avara,
poiché meco quest’Alpi n’ebber pièta
che alfin sacro ne sono ‘l lor Poëta.

Allor nell’alba fresca e come in sogno
or nostalgicamente e in rimembranza
mi si presentan liete di Vocogno
le vette che ammirai d’in su’ una stanza,
e ‘l monte che silente: «Mi vergogno!»
timidamente disse a’ mia romanza,
e in sospir ne rimembro in su’ una via
l’alte pievi montane e un’osteria,

e le felci rupestri, e i prati scialbi,
e delle nevi or l’argento e soäve,
e i gelidi sentier e pe’i prunalbi
del verno che soffiâr quest’aure ignave,
e pelle stalle i fieni e tersi e falbi,
e le fauci perenni or d’empie cave,
e quel che più non veggo e non affronto
tra le cime e le balze, alpin tramonto, 

e pe’i boschi e i dirupi e in spoglia pelle
le roveri e i cipressi e i bagolàri,
e le querce montane e oscure e snelle
e de’i pioppi dormienti i reliquari,
e a valle ‘l cardo in fior, le roverelle
e a’ ciottoli e a’ sentier i bei viäri,
e le lagrime ignude in chiome a’ salci
e ‘l superstite campo all’empie falci,

e i spasmodici spettri a’ cimiteri,
e le betulle d’immobili foglie,
e l’aquile tra’i nembi e gli sparvieri
che la vittima al vespro omai n’accoglie,
e i vestiboli smorti e i monasteri,
e gli ostel antichi che giacciònsi in doglie,
e gelide a soffiar in tra’ le pietre
tempestose e funeste e cupe l’etre.

Ma ancor che queste selve e questo vento
e al mattutin mirar degli albi monti
su cui scendon le nevi in torneamento
in formidi e furiosi e biechi affronti,
un recordo si volge in Sentimento
agli innevati marmi e a’ nivei ponti
‘ve ghiacciati mirai i gentil ruscelli
e di quest’acque i vetri e frali e belli,

e alle gemme dell’ansia e terrea strada,
e de’i ghiacci al terribile adamante,
e all’argentata e innevata contrada
che tuttora mi pingo a me davante,
e all’arida e montana e fredda rada
‘ve un ceppo si lamenta tremolante,
e d’òpale de’i pini or n’ho membranza,
dell’ebano d’un lupo or che s’avanza,

e mestamente scorgo la montagna
che rorida m’ispira una canzone,
e ‘l putrido rubìn d’una castagna,
e l’esule sentiero del Sempione,
e un queto rivo che un calle ne bagna
e che ferocemente al ghiaccio oppone
la furia di quest’acque e terse e ombrose
che cadon dalle vette in ciel montuose,

e irrequieto rimembro un casolare
che rustico e di pietre n’era fatto,
e l’ara etesia e santa e tutelare
d’un borgo abbandonato eppur intatto,
e dell’egra bufera all’incalzare
la possa arcana or che s’ebbe d’un tratto,
e in cima a un monte e in negro e tetro vello
le torri d’un consunto e spento ostello.

Allor a queste pietre or nuovamente
un incubo ne schiudo al cor che ‘l serra
e che sempre m’inebria questa mente
al membrar d’un’antica e insana guerra
che un dì e in sul ghiaccio e pallido e insolente
a insanguinar si mosse or questa terra,
e per questa rupestre e rea riviera
in sogno ne discerno infame schiera,

allorquando alle selve e all’ore tarde
e a’ tremuli bastioni i cavalieri
avvolti in bruni velli e in triste barde
e all’indoli guerresche i gran cimieri,
n’andavan cogli acciari e l’alabarde
di quest’ostel a strugger i messeri,
e in mezzo a’ ferrei e a’ nivei e argentei fiocchi
pe’i sentier trascinâr i rei trabocchi,

e al vèspero al cantar d’un vano grillo
e al piè della fortezza e al foco infame
allorquando s’alzò un fatal vessillo
che i prodi n’involò al cieco certame,
e pe’i monti innevati andava un squillo
che pur intimoriva un pio fogliame,
e all’orizzonte in Notte urlava l’eco,
e ‘l braccio del messer pugnava bieco;

e la pugna s’ergeva in grida e in foco,
e di giovin baroni or fu un massacro
e i duci ridacchiavan quale in giuoco
all’evocar de’i Ciel del Nume sacro,
e poiché si versò di sangue or poco
la strage proseguiva e tosto e all’acro
merlo del ner ostello a istranie schiere
i dardi ne scagliava un balestriere,

e così e in fin di Notte e in su’i sentieri
tra ‘l cozzar delle spade e degli usberghi
cadevano pugnando i gran guerrieri
a’ rival rivolgendo incauti gerghi,
e all’alba dell’ostello i falconieri
col sire trapassâr ne’ vani alberghi
che tra le fiamme e la magiòn violata
bruciavano funerei e in Morte irata,

e al sorgere del Sole e a’ boschi oscuri
i vincitor sen stavan co’i trofei,
e una pira s’ergeva a’ volti impuri
de’i cadaveri in sangue e altèri, e pei
sentier degli ansi calli e a piè securi
un cavalier pregava in gloria Dei,
e del borgo sen stava un sol cancello
al canto del funereo e cupo augello.

Ma d’un sìmil sognar non m’accontento,
nemmanco rimembrando ‘l loco alpino
‘ve passando i’ sentìa eterno ‘l tormento
d’uno spettro guerresco e serotino,
e ignaro i’ calpestava ‘l paramento
d’un balestrier sepolto a’ piè d’un pino
e l’altre e fosche e terribili fosse
tra gli sterpi feroci e terree l’osse,

e quivi ne sognai gli uman sciacalli
che degli estinti vollêr l’arme e opìmi,
e tra le nevi or di scialbi cristalli
gli elmi e gli affranti usberghi e torvi e infìmi
e che al terzo cantar de’i freddi galli
svanîr tra gli orizzonti in ciel sublimi;
e intanto i monti scorgo e veggo ancora,
e un villaggio dell’Alpe or m’innamora.

Così ne ricontemplo i clivi e l’erte,
e i vegli cacciatori or passeggeri,
e ‘l corno che le cerve a’ caccia avverte,
e i spogli e freschi pruni e i mirti e i peri,
e le valli d’intorno e in sotto aperte
e i grigi nembi e in neve lusinghieri,
e ‘l camoscio che ‘l ghiaccio alfin incontra
e al ruscello d’un piano l’ansia lontra,

e l’alci d’oro che al muro impagliate
un giorno n’ammirai e pella locanda,
e all’Alpi le cascate un dì ghiacciate
e da un timido fonte l’acqua blanda,
e l’agili e festose passeggiate
pel mercurio del ghiaccio e pella landa,
e ‘l sapor vespertino e a fiamma spenta
del cervo e della morbida polenta;

e ancora ne rimembro: all’ora nona
un crepuscolo torvo allor veniva,
e fiocamente in ciel l’alba Latòna
d’iri spettrali le nubi assaliva,
e del Sole la luce or n’era prona
e qui velocemente affievoliva,
e quest’orba e melliflua e casta Luna
di spirti ne tergea la Notte bruna,

e alle tenebre un monte pur lontano
de’i valichi l’impronta n’era mesta,
e l’ombra assomigliava a un reo Titano,
e la vetta sen stava or più funesta,
e ‘l guardo si brillava e fioco e arcano
siccòme un lampo al furor di Tempesta,
e a mirarlo i’ passava ‘l vespro insonne
a sognar le Valchirie, etesie donne.

Tuttor, del resto, e al recordo impetuoso
queste cime mi parlan d’alte saghe,
quando ‘l canto funereo e doloroso
d’un bardo si balzava a queste vaghe
rocce, e cantava ‘l certame mostruoso,
e i scaldi le foreste delle maghe,
e sol i Numi varcavan i monti
di sangue abbeverando l’egre fonti,

e quando alle montagne ‘l salce cupo
le ghirlande intrecciava all’ossa e a’ prodi,
e coll’eco tremenda in su’un dirupo
le funebri volâr, funeste l’odi,
e pelle selve giacevasi ‘l lupo
di vittime ‘l signore e d’orbe frodi,
e quando in tra’ le nubi l’empie Norne
sibilavan di Morte e strazi adorne,

e allorquando lo spettro all’erte antiche
perfino strangolava e l’uomo e ‘l germe,
e come un mietitore all’ansie spiche
la Vita prosciugava al folle e inerme
prode guerrier che alle schiere inemiche
spirando si mutava in stolto verme,
e brindavan contenti i gran sovrani
degli invitti e seren, crudel Germani;

e come allor sognai, ne sogno ancora
le germaniche nenie al fior del vischio,
e al labbro che del sangue n’assapora
del vento eterno or l’orribile fischio,
e in affràlite brume e in Notte mora
e d’una pugna insana al truce rischio
tinte di cruore e d’oro e poscia d’ambre
ne veggo l’egre lame un dì sicambre.

Ma ancora ne recordo or d’altre nevi,
e ‘l sentier del gentil pattinatore,
e le discese valli, e l’albe pievi,
e ‘l vento al festeggiar conciliatore,
e i ghiacci in tra’i torrenti e ombrosi e grevi,
e un appassito e ghiacciato e bel fiore,
e alle selve e dappresso i maëstrali
la selvatica caccia a’ vil cinghiali,

e i falchi sibilanti e i negri tordi,
e ‘l cinguettante e ferin pettirosso,
e gli stornelli al gelo e a’ miei recordi
l’orizzonte montano al ciel commosso,
e i nembi alpini e freddi e tetri e sordi
che temprâr ghiacci e insani e fieri addosso,
e tai membranze e in quest’alba ne veggo
e a cantarle alle nubi allor mi seggo.

Ma or nostalgicamente al ciglio un pianto
di proseguir ancor mi proïbisce,
sicché qui si tramonta questo canto
che al cor mi si lamenta e mi ferisce,
e ‘l montano ruscel che ammiro intanto
forse contento e pio mi compatisce,
e alle cime in memoria e qui cantate
sempre ne son, dassenno, ‘l sacro Vate.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Gennaio AD MMXV