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mercoledì 7 gennaio 2015

Ricordanze invernali all'Orizzonte alpestre

All’ombre dell’aurora e all’orbe brume,
e all’etere che cupo si lamenta,
e alle nenie d’un gallo e veglio e implume,
e alla pallida brina a un fior di menta,
e a’ boschi e a’ cardi ‘ve làgnasi un fiume
e a questi scialbi ciel che ‘l Sole attenta
febbrilmente ne volgo ‘l guardo avvinto
e a un nembo che si sta d’argento tinto,

e spaziändo ‘l vento all’orizzonte
co’ un nostalgico cor sempre discerno
gelide e in neve le vette d’un monte
che sublime si splende in ghiaccio eterno,
e intorno ne contemplo or nubi appronte
a versar altre nevi, e quasi a ischerno
della bufera intendo un’egra lagna
che un rimembrar m’ispira di montagna.

Così al ciel che mellifluo e queto albeggia,
e a’ valichi lontani e al giovin giorno,
or mentre l’astro in tra’i nembi rosseggia
e in tra’i spogli arboscel d’un trèmul orno,
d’un trapassato dì or in su’ Craveggia
nella mente ‘l recordo in gaudio adorno
pallidamente e in core mi sovviene
come un brivido insan che m’è alle vene,

e per questo ammirando ‘l ciel lontano,
e sospirando alle candide cime,
e al fragile sentier torvo e montano
e all’incognite rocce e vaghe e all’ime
valli, e all’albe foreste e a un clivo arcano,
e singhiozzando alla pietra sublime
su cui d’estate e al suol del Nibelungo
timidamente cresce ‘l muschio e ‘l fungo,

e lagrime spremendo all’occhio - e tanto -
più dell’acque del rivo all’Alpe cara,
e all’elvetico calle e molle e affranto
che ‘l Sol serenamente ne rischiara,
a rimembrar m’accingo in questo canto
la beltà della roccia e ignuda e avara,
poiché meco quest’Alpi n’ebber pièta
che alfin sacro ne sono ‘l lor Poëta.

Allor nell’alba fresca e come in sogno
or nostalgicamente e in rimembranza
mi si presentan liete di Vocogno
le vette che ammirai d’in su’ una stanza,
e ‘l monte che silente: «Mi vergogno!»
timidamente disse a’ mia romanza,
e in sospir ne rimembro in su’ una via
l’alte pievi montane e un’osteria,

e le felci rupestri, e i prati scialbi,
e delle nevi or l’argento e soäve,
e i gelidi sentier e pe’i prunalbi
del verno che soffiâr quest’aure ignave,
e pelle stalle i fieni e tersi e falbi,
e le fauci perenni or d’empie cave,
e quel che più non veggo e non affronto
tra le cime e le balze, alpin tramonto, 

e pe’i boschi e i dirupi e in spoglia pelle
le roveri e i cipressi e i bagolàri,
e le querce montane e oscure e snelle
e de’i pioppi dormienti i reliquari,
e a valle ‘l cardo in fior, le roverelle
e a’ ciottoli e a’ sentier i bei viäri,
e le lagrime ignude in chiome a’ salci
e ‘l superstite campo all’empie falci,

e i spasmodici spettri a’ cimiteri,
e le betulle d’immobili foglie,
e l’aquile tra’i nembi e gli sparvieri
che la vittima al vespro omai n’accoglie,
e i vestiboli smorti e i monasteri,
e gli ostel antichi che giacciònsi in doglie,
e gelide a soffiar in tra’ le pietre
tempestose e funeste e cupe l’etre.

Ma ancor che queste selve e questo vento
e al mattutin mirar degli albi monti
su cui scendon le nevi in torneamento
in formidi e furiosi e biechi affronti,
un recordo si volge in Sentimento
agli innevati marmi e a’ nivei ponti
‘ve ghiacciati mirai i gentil ruscelli
e di quest’acque i vetri e frali e belli,

e alle gemme dell’ansia e terrea strada,
e de’i ghiacci al terribile adamante,
e all’argentata e innevata contrada
che tuttora mi pingo a me davante,
e all’arida e montana e fredda rada
‘ve un ceppo si lamenta tremolante,
e d’òpale de’i pini or n’ho membranza,
dell’ebano d’un lupo or che s’avanza,

e mestamente scorgo la montagna
che rorida m’ispira una canzone,
e ‘l putrido rubìn d’una castagna,
e l’esule sentiero del Sempione,
e un queto rivo che un calle ne bagna
e che ferocemente al ghiaccio oppone
la furia di quest’acque e terse e ombrose
che cadon dalle vette in ciel montuose,

e irrequieto rimembro un casolare
che rustico e di pietre n’era fatto,
e l’ara etesia e santa e tutelare
d’un borgo abbandonato eppur intatto,
e dell’egra bufera all’incalzare
la possa arcana or che s’ebbe d’un tratto,
e in cima a un monte e in negro e tetro vello
le torri d’un consunto e spento ostello.

Allor a queste pietre or nuovamente
un incubo ne schiudo al cor che ‘l serra
e che sempre m’inebria questa mente
al membrar d’un’antica e insana guerra
che un dì e in sul ghiaccio e pallido e insolente
a insanguinar si mosse or questa terra,
e per questa rupestre e rea riviera
in sogno ne discerno infame schiera,

allorquando alle selve e all’ore tarde
e a’ tremuli bastioni i cavalieri
avvolti in bruni velli e in triste barde
e all’indoli guerresche i gran cimieri,
n’andavan cogli acciari e l’alabarde
di quest’ostel a strugger i messeri,
e in mezzo a’ ferrei e a’ nivei e argentei fiocchi
pe’i sentier trascinâr i rei trabocchi,

e al vèspero al cantar d’un vano grillo
e al piè della fortezza e al foco infame
allorquando s’alzò un fatal vessillo
che i prodi n’involò al cieco certame,
e pe’i monti innevati andava un squillo
che pur intimoriva un pio fogliame,
e all’orizzonte in Notte urlava l’eco,
e ‘l braccio del messer pugnava bieco;

e la pugna s’ergeva in grida e in foco,
e di giovin baroni or fu un massacro
e i duci ridacchiavan quale in giuoco
all’evocar de’i Ciel del Nume sacro,
e poiché si versò di sangue or poco
la strage proseguiva e tosto e all’acro
merlo del ner ostello a istranie schiere
i dardi ne scagliava un balestriere,

e così e in fin di Notte e in su’i sentieri
tra ‘l cozzar delle spade e degli usberghi
cadevano pugnando i gran guerrieri
a’ rival rivolgendo incauti gerghi,
e all’alba dell’ostello i falconieri
col sire trapassâr ne’ vani alberghi
che tra le fiamme e la magiòn violata
bruciavano funerei e in Morte irata,

e al sorgere del Sole e a’ boschi oscuri
i vincitor sen stavan co’i trofei,
e una pira s’ergeva a’ volti impuri
de’i cadaveri in sangue e altèri, e pei
sentier degli ansi calli e a piè securi
un cavalier pregava in gloria Dei,
e del borgo sen stava un sol cancello
al canto del funereo e cupo augello.

Ma d’un sìmil sognar non m’accontento,
nemmanco rimembrando ‘l loco alpino
‘ve passando i’ sentìa eterno ‘l tormento
d’uno spettro guerresco e serotino,
e ignaro i’ calpestava ‘l paramento
d’un balestrier sepolto a’ piè d’un pino
e l’altre e fosche e terribili fosse
tra gli sterpi feroci e terree l’osse,

e quivi ne sognai gli uman sciacalli
che degli estinti vollêr l’arme e opìmi,
e tra le nevi or di scialbi cristalli
gli elmi e gli affranti usberghi e torvi e infìmi
e che al terzo cantar de’i freddi galli
svanîr tra gli orizzonti in ciel sublimi;
e intanto i monti scorgo e veggo ancora,
e un villaggio dell’Alpe or m’innamora.

Così ne ricontemplo i clivi e l’erte,
e i vegli cacciatori or passeggeri,
e ‘l corno che le cerve a’ caccia avverte,
e i spogli e freschi pruni e i mirti e i peri,
e le valli d’intorno e in sotto aperte
e i grigi nembi e in neve lusinghieri,
e ‘l camoscio che ‘l ghiaccio alfin incontra
e al ruscello d’un piano l’ansia lontra,

e l’alci d’oro che al muro impagliate
un giorno n’ammirai e pella locanda,
e all’Alpi le cascate un dì ghiacciate
e da un timido fonte l’acqua blanda,
e l’agili e festose passeggiate
pel mercurio del ghiaccio e pella landa,
e ‘l sapor vespertino e a fiamma spenta
del cervo e della morbida polenta;

e ancora ne rimembro: all’ora nona
un crepuscolo torvo allor veniva,
e fiocamente in ciel l’alba Latòna
d’iri spettrali le nubi assaliva,
e del Sole la luce or n’era prona
e qui velocemente affievoliva,
e quest’orba e melliflua e casta Luna
di spirti ne tergea la Notte bruna,

e alle tenebre un monte pur lontano
de’i valichi l’impronta n’era mesta,
e l’ombra assomigliava a un reo Titano,
e la vetta sen stava or più funesta,
e ‘l guardo si brillava e fioco e arcano
siccòme un lampo al furor di Tempesta,
e a mirarlo i’ passava ‘l vespro insonne
a sognar le Valchirie, etesie donne.

Tuttor, del resto, e al recordo impetuoso
queste cime mi parlan d’alte saghe,
quando ‘l canto funereo e doloroso
d’un bardo si balzava a queste vaghe
rocce, e cantava ‘l certame mostruoso,
e i scaldi le foreste delle maghe,
e sol i Numi varcavan i monti
di sangue abbeverando l’egre fonti,

e quando alle montagne ‘l salce cupo
le ghirlande intrecciava all’ossa e a’ prodi,
e coll’eco tremenda in su’un dirupo
le funebri volâr, funeste l’odi,
e pelle selve giacevasi ‘l lupo
di vittime ‘l signore e d’orbe frodi,
e quando in tra’ le nubi l’empie Norne
sibilavan di Morte e strazi adorne,

e allorquando lo spettro all’erte antiche
perfino strangolava e l’uomo e ‘l germe,
e come un mietitore all’ansie spiche
la Vita prosciugava al folle e inerme
prode guerrier che alle schiere inemiche
spirando si mutava in stolto verme,
e brindavan contenti i gran sovrani
degli invitti e seren, crudel Germani;

e come allor sognai, ne sogno ancora
le germaniche nenie al fior del vischio,
e al labbro che del sangue n’assapora
del vento eterno or l’orribile fischio,
e in affràlite brume e in Notte mora
e d’una pugna insana al truce rischio
tinte di cruore e d’oro e poscia d’ambre
ne veggo l’egre lame un dì sicambre.

Ma ancora ne recordo or d’altre nevi,
e ‘l sentier del gentil pattinatore,
e le discese valli, e l’albe pievi,
e ‘l vento al festeggiar conciliatore,
e i ghiacci in tra’i torrenti e ombrosi e grevi,
e un appassito e ghiacciato e bel fiore,
e alle selve e dappresso i maëstrali
la selvatica caccia a’ vil cinghiali,

e i falchi sibilanti e i negri tordi,
e ‘l cinguettante e ferin pettirosso,
e gli stornelli al gelo e a’ miei recordi
l’orizzonte montano al ciel commosso,
e i nembi alpini e freddi e tetri e sordi
che temprâr ghiacci e insani e fieri addosso,
e tai membranze e in quest’alba ne veggo
e a cantarle alle nubi allor mi seggo.

Ma or nostalgicamente al ciglio un pianto
di proseguir ancor mi proïbisce,
sicché qui si tramonta questo canto
che al cor mi si lamenta e mi ferisce,
e ‘l montano ruscel che ammiro intanto
forse contento e pio mi compatisce,
e alle cime in memoria e qui cantate
sempre ne son, dassenno, ‘l sacro Vate.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Gennaio AD MMXV  

giovedì 11 dicembre 2014

La Ballata d'un Viandante vagante nell'Inquietudine (Parte V)

Parte V - Le Gesta del Viandante: La Partenza

Avendo ben ascoltato e inteso codeste suppliche novelle che, tra l’altro gli davano l’opportunità di stornar ancor di poco l’inchiesta principale e per questo di non discorrere immantinente delle sue sventure d’Amore, il giovine viandante si palesò alquanto disposto ad accontentare i suoi imprudenti avventori e, sorseggiato appena un altro bicchiere, si cinse a narrare le sue gesta di cappa e spada. Questi, del resto, erano que’ tempi in cui bastava accennar qualcosa degli Osmani oppure dei selvaggi Tatari per attirare l’attenzione di tutti gli uomini e di tutte le donne, sia nelle corti, sia nei poveri e miserabili villaggi. Ma non si pensi affatto che il nostro giovinotto l’abbia fatto per così dire apposta, semplicemente per parlar d’altro; anzi, giunto a questo punto, il nostro lettore deve sapere che quello che egli s’accingeva a narrare era assolutamente veritiero e che, in prova di questo, son tuttora molte l’istorie a noi pervenute che dipingono i medesmi affreschi. Purtuttavia, per dovere di originalità e per dar un risalto maggiore alle vicende sentimentali, s’è deciso essere meglio sorvolare su alcune parti di queste avventure e di proporre soltanto ciò che puote divenir interessante anche agli occhi d’un contemporaneo.
In ogni caso si lascino perdere codeste avvertenze e si continui la narrazione dei fatti, pe’ quali il viandante andava sempre e sempiternamente fiero. Questi, infatti, dinnanzi all’infame e curiosa plebaglia, iniziò a narrare di come fosse stato scelto a capitaneggiar la scolta d’un opulente mercatante vinegiano, e come di un giorno di primavera, si fosse trovato co’ un drappello in vista dell’istessa Vinegia; e così placidamente narrava:

«D’in su’ un calle vedemmo ‘l mare e ‘l lido,
e le torri e i canal, e i moli ondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Le torri di lontan stavano, e informe
un muro di riparo or si scorgeva,
e dell’aspre balestre s’ersêr l’orme
d’un guerrier che d’intorno difendeva;
e nel mare del cielo or s’immergeva
di lume e di mattin e lieto e carco
l’eterno campanile di San Marco
che in sotto ne facea i mercati ombrosi.

Così discendevamo, e un rivo infìdo
varcammo e i boschi antichi e rei e frondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Più propinqui eravamo e più le porte
si scernevano altère e i merli in ronda,
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda.

Fu allor che ne mostrai i suggelli e i bolli
a lor che ci fermâr, le sentinelle,
e poscia un sol istante co’ rampolli
libero n’ebbi ‘l varco a’ caravelle,
e messer passeggianti oppur in selle
vêr le piazze n’andâr e vêr i ponti,
ed eran mercatanti, e paggi e conti,
la possanza e ‘l fulgor di questa sponda.

In ansia aspettavam la nostra Sorte,
e d’arme n’avevamo - e in fin la fionda! -
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda»;

e allegro ne narrava, or quando d’uno
de’i fradici avventor gli chiese: «E dite -
perdonatemi, oh giovin - ma ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite….

Deh, come e quante son le Vinegiane
che in sul mare si stanno? E belle, almeno?»,
e ‘l prode n’accettò di dir le vane
beltà che ne scorgeva in un baleno:
«Molte son, e le folli - ignudo ‘l seno -
cinguettano gemmate or come augei,
e carchi di diamanti i lor capei
ondeggiano beäti al vento mite;

e le madame a un neo e corvino e bruno
discorrono felici di lor Vite.
Ben perdono, oh avventor, se qui ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite;

e se gradite ancor, l’ignuditade
d’argento si splendea di cortigiana.
Ma d’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana,

chè non per donne e ardor n’avea un drappello,
anzi, per ricercar un tal Gualtiero,
e questi ci attendeva in su’ un vascello -
un mercatante ricco e veglio e fiero;
e al bel lido andavamo e in su’ un sentiero
di merce che giaceva or camminammo,
e scorgemmo un Giudeo che in fin al grammo
i danàr valutò con pesa arcana,

e a’ fresche e marine e pie contrade
sempre più lambivamo e l’onda insana.
Sì! D’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana».  

Così ne narrava il misero viandante, e i bevitori, e i giuocatori e l’oste e l’ostessa allegramente l’ascoltavano, e tanto parve loro interessante ciò che udivano che alfine smisero perfin d’interrogare e di profferir accenti di stupore e di meraviglia. Frattanto il rimembrar del giovine aveva come una voce, un non so che e di melliflua dolcezza e di nobile e maestosa baldanza; e i suoi detti paravano allora simili a quei che nei tempi che correvano si potevano ammirare nelle corti, allorquando il prode rampollo, tornato dalle guerresche imprese, si metteva a raccontare gli eroi, i perigli scampati, i certami e le ricchezze dei vinti e dei vincitori. Forse, del resto, in queste ricordanze il viandante si sentiva ormai pressappoco a suo agio e non aveva più in core quegli stati di ansia e di preoccupazione che precedentemente si manifestarono; anzi, al domandar delle Venigiane, pria di rispondere così come s’è riportato, aveva perfino accennato a un sorriso, benché arrossisse lievemente alle gote. E ora, sempre più mite e più rilassato, narrava di come poscia aver percorsi alcune vie e alcuni sentieri il mercatante Gualtiero fosse stato trovato presso il suo vascello e tra l’altre cose, propriamente nell’istante in cui ei osservava con attenzione i mozzi che mettevano al riparo le merci nella stiva; e per quel poco che si fosse potuto vedere, forse c’era ben di tutto, dall’arme alle polveri, dalle vesti alle stoffe, dai vini a’ liquori. Per questo il giovine raccontava:

«Allor Gualtier ci vide e in tra le merci
d’incontro ci venìa, e in sur d’un cappello
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello;

e l’arme ne mirava e l’alabarde
e mi chiese s’io fossi ‘l capitano,
e io ‘l consentiva, e le truppe gagliarde
fieramente mostrai co’ destra mano,
e ‘l mio sembrò dassen drappel romano
‘ve i guerrieri di gloria or stavan lurchi
e n’attendevan pugne contra i Turchi,
ed ei ormai c’invitò gaudiosi a berci.

Frattanto i mozzi e i servi e sozzi e lerci
ponevano i valor in sul battello;
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello.

Così - aspettando in ansia - un idromele
che ‘l mercatante offriva ne bevemmo,
ed esso n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Il vascello pareva un galeöne,
e intorno e in guardia stavan le trireme,
e ‘l vessìl lampeggiava del Leöne
che tanto i Turchi empiva d’ansie teme,
e d’opulenza v’era or molta speme,
e a remigar se n’ebbe in Tatarìa[1] -
‘ve un Can[2] dell’oro ameno ancor s’indìa -
e giuri al mercatante e onor ne demmo.

D’un tratto si spiegâr le scialbe vele
e bere ancor un sorso ne volemmo;
e ‘l liquor n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Alfin ne giunse l’ora, e in cheta flemma
co’ Gualtier sul vascello n’andavamo,
e carica la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo;

e immantinente in guardia al ligneo ponte
salimmo, e in sull’onde i molli rai
del Sole io contemplava e l’orizzonte
che lieto si sorgea d’in sul Catai[3],
né io né questi compar facemmo lai
chè ben lieti stavamo - ‘l so dassenno -
e poscia un sol e mesto e picciol cenno,
tolta l’àncora all’onda, or salpavamo.

Né meno ci venìa lo stratagemma,
e ben pugnare in arme sapevamo,
sicché carca la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo.

Gualtiero ne tracciò una rotta, e a’ greci
lidi dapprima ‘l vascello si volse,
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Mi rimembro che l’onda or n’era calma
e che i lidi si scorsêr dolci e lieti,
del sicomòro la candida palma
e del Padàn[4] altèro i freschi greti,
e noi salutavamo i calli or cheti
e ben oltre ‘l commercio c’era certo
il bottìn che serbava ‘l mar aperto
chè ormai la terraferma si dissolse;

e già si cucinavan tondi ceci
che un servo dalla stiva or ne raccolse;
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Sibben in patrio mare, or niun naviglio
a guerra in contra ‘l nostro si moveva.
Ma n’aspettate un poco: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or ci attendeva!»;

e gli avventor attenti n’ascoltavano,
ed eran gaudi di codeste istorie,
e a tacer e a sentir ben seguitavano,
udir sperando tanto di vittorie,
e del liquor in fin le spire ustorie
si mancavano al detto or del viandante
che seguitò a narrar del mercatante
e dell’insidia insana che fremeva,

e a ognun attento n’era in fino ‘l ciglio
e di ciascun l’orecchio or n’intendeva:
«Ma n’aspettiamo, è certo: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or v’attendeva!».




[1]  Nome di un vesto territorio, spesso confuso con l’Orda d’Oro. Qui, per Tatarìa, si intende principalmente il khanato di Crimea.
[2]  Cioè, il Khan.
[3]  Nome arcaico con cui si identificava la Cina, e in generale, l’Estremo Oriente.
[4]  Il Padano è il fiume Po’.

mercoledì 26 novembre 2014

Poemetto romantico - Il Martirio di Santa Giovanna d'Arco

Era Notte, e tacea lo sguardo in pianto
di questa dama, giovin prigioniera,
e nell’oscur del suo giaciglio affranto
inginocchiata stava e colla fiera
catena a’ polsi e a’ piedi, e un mesto canto
al Ciel strillava e bianca come cera,
e d’in su’ un finestrel splendea la Luna
in sulle pietre della cella bruna.

Come candida bruma questo strale
scendea gentile e lieto a’ sassi grezzi
del pavimento e del muro ferale
‘ve degli ossami giacevano i lezzi,
e questo raggio n’era pio e immortale
nell’orror cupo, un fior di molli vezzi;
e fuor strillava oscena una civetta,
cantando a’ scarni Inferni e alla vendetta.

Or tra questo cantar e questo insulto
la scialba Luna in Notte n’era alterna,
e nel suo cupo manto e nell’occulto
d’intorno ‘l nembo gemea una viverna,
e col foco represso in reo singulto
pendea dall’alto - in cella - una lanterna;
e sotto ‘l volto di questo bel lume
una fanciulla stava a orar il Nume.

Ella vestìa di bianche lane e avvinta
e prona giacque a dir preci al Divino,
le man congiunte al petto e alla discinta
spalla n’ebbe, dannata a reo Destino,
e la pupilla avea di Morte pinta,
onde finìa precoce ‘l suo cammino;
e al sòn mellifluo e dolce or d’una lira
celeste attese ‘l foco della pira.

Cupo e muto l’avel di questa pietra
di Notte orrenda e folle la copriva,  
e come un strale che indarno penètra
l’orba e candida Luna la feriva
chè dessa stava terribile all’etra
come un ossame, di tomba una riva;
e la fanciulla fu la pia Giovanna
e n’attendeva l’estrema condanna.

Dicea ‘l suo labbro in spasmo le preghiere
de’i morti inermi e pur dell’agonia,
e all’occhio suo n’apparvero le sfere
e i Ciel, le stelle e del Divin la via,
ed ella che fatal fu un cavaliere
piangea supina alla vergin Maria,
e lenta e santa e casta un pio rosario
urlava muta a un tristo reliquario.

Allor sognava i campi ‘ve piccina
iva a solcar la terra e ‘l biondo fieno,
il cardo e ‘l mirto, e la rosa e la spina
e del ginepro l’amato veleno,
e fuvvi un giorno antico ‘ve divina
or chiamava la Sorte ‘l suo bel seno,
ed ella n’ebbe una sacra visione,
la Francia e ‘l rege, i Cieli e la Passione.

Ansio ‘l ciglio di questo sogno beava,
e delle spade atroci e degli ostelli,
e in tra le nebbie notturne ammirava
in sul vagheggio le pugne e i duëlli,
e de’i trabocchi i sassi ne scrutava
come in cielo ‘l volar de’i negri augelli;
e poscia scorse l’infame Borgogna,
e ‘l tradimento, e la prigion, la gogna.

Sognò pregando in spasmi i fieri assalti,
e l’alte torri e i ponti e i cavalieri,
e gl’Inglesi crudel che dagli spalti
scagliavan dardi di Morte forieri,
e delle pugne i formidi ribalti,
e mai compiuti, i saccheggi sì altèri,
e ‘l dardo insan che la colpì in sul core
‘ve la salvò d’Iddio l’eterno Amore.

Ora tremava, e senza sonno giacque,
e smorta e bianca e inquieta in sulla cella
posava ‘l spento guardo, e poscia tacque
come spettro fugace, e a quella sella
che usò cotanto ripensar le piacque,
e nella Sorte orribile e rubella
pregando prona le nuvole e Iddio
alla sua terra dicea estremo addio.

Ma nel frattempo, in vicin monastero,
cantâr i frati oscuri ‘l Miserere,
e spettri orrendi e rei d’un cimitero
sclamavan cupi l’istesse preghiere,
e tristo andava e all’ombra d’un gran cero
contra la dama santa l’Avversiere,
e come un spettro ora la provocava,
e pel suo nome dolce la chiamava.

Era come un fatal chiaror di brume
in sul mador di questa Luna bianca,
e qual nottola n’ebbe l’ala implume
e la bocca feroce e trista e stanca,
e ne irrideva iniquo ‘l santo Nume
come ‘l ghigno di belva che n’abbranca,
e alla pulzella ‘l guardo torvo affisse
e sibilando poscia - e istrione - disse.

«Giovanna, ascolta!» sclamava ‘l Demonio:
«A me t’inchina e salva avrai la Vita:
come una fresca brezza in sullo Iönio
poss’io placar la fiamma e far sopita!».
Ma ella rispose: «Vattene, e ‘l tuo conio
alla mia Sorte mi lasci smarrita!»,
e allor l’infame urlando ne svaniva,
e col suo grido la donna colpiva;

e costei ne spasmava, e a’ questi gridi
a terra cadde e ansiosa, e Iddio pregava,
e sol poiché n’avea gli acciar infìdi
la sacra Croce al petto non segnava,
e ‘l reo Demòn d’in su’ suoi terrei lidi
crudo e bieco e ferino ancor n’urlava,
e intanto ‘l coro de’i Domenicani
cantava i salmi da’i chiostri lontani.

Più la fanciulla giacea in sua paüra,
e come larva n’era e si gemeva,
e del villaggio suo tornò la cura
e delle ripe amiche che perdeva,
e invan la tomba in mezzo alla Natura
a’ Santi, a’ Nembi e a’ Ciel tosto chiedeva,
e un stral di Notte le baciò la bionda
chioma pallente, e casta e pudibonda.

Stesa al suol ne pregava, e sue catene
vincer bramava sibben fosse vano,
e n’era assorta e strutta dalle pene
che le serbava degli Angli ‘l sovrano,
e malediva dell’Anglia l’arene
e di Borgogna ‘l duca e ‘l capitano,
e rimirava l’ansie e ree battaglie,
corti i capei e ricolmo ‘l sen di maglie.

Tonò ‘l cannon funereo e al baluärdo
correan i prodi e altèri in su’i Normanni,
e smorti questi fuggìan ed Edoardo
contra la dama ne tramava danni,
e in tra le feste ‘ve sonava ‘l bardo
ei ne commise terribili inganni:
corse fiera la dama alla Borgogna,
e qui tradita fu e n’ebbe vergogna.

Or la pulzella in codesti pensieri
ne passava la Notte estrema e negra,
e vani i freddi sogni e i cavalieri
erano sempre e la tenzone allegra,
e ancor del Male i gridi atroci e fieri
tornâr funesti all’alma sua ottusa, egra;
e questa volta in sembianza di donna
l’empio Demòn le provocò la gonna.

Come bella e melliflua e pia fanciulla
apparve un spettro nobile vestito,
al velo un fior di docile betulla
e al labbro e schietto e dolce un detto ardito,
e su’ un’impronta di pallido Nulla
or n’aleggiava per magico rito,
e palesando a Giovanna un reo letto
sclamò gentil aggrottando l’aspetto:

«Quivi si dorme ‘l rege Carlo, e imene
invan n’attende da sterile sposa.
Spezzar saprei le tue crudel catene
se fossi tu del re la dolce rosa.
Ore di lusso, e molli e pie e serene
n’avrà colei che con costui si posa;
tu saresti felice e più divina,
di Francia spada santa, e poi regina!».

Ma la pulzella ‘l guardo al spettro volse,
e gridava severa un gran scongiuro,
e questa larva in petto allor lo colse
come un dardo scagliato d’alto muro,
e tosto e in beffe nell’aër s’avvolse
come nebbia fatal nel cielo oscuro,
e Giovanna lodava ‘l santo Amore
che ‘l mondo regge e i Ciel, Cristo Signore,

e sempre bianca in volto udiva ‘l coro
che d’in sul chiostro andava e salmodiante,
e pel letto ferin e cupo e moro
della prigione ne stava tremante,
e rosso come un foco e come l’oro
il labbro suo piagneva ed era orante,
e la Notte spremeva orrendo gelo,
le ragne bianche al muro, e l’occhio al Cielo.

Scorse nel sogno l’antica capanna
e sicuro e fulgente ‘l focolare
‘ve un prete un dì chiamòlla - e pia - Giovanna
e della Patria amena ‘l sacro altare,
e i fior de’i boschi amici e l’orba canna
del malto e l’orzo, e ‘l Tempio tutelare,
e in mezzo a’ fanghi ‘l dorato frumento,
tra le spiche un passaggio e ‘l quieto vento,

e vide ‘l gregge stanco e i suoi pastori,
e i rigàgnoli freschi e i bei prunalbi
onde allegri e sereni i lor cantori
cantavan odi a questi armenti scialbi,
e sotto ‘l nembo, del Sole gli ardori
posavan dolci in su’i pii campi falbi;
ed ella poscia orava assorta e ancora,
ed era presso ‘l venir dell’aurora.

Cantava ‘l gallo ‘l fiore antelucano,
e più tremava ansiosa la pulzella,
e poscia un’ora da Domenicano
Satana ‘l crudo ancor tentò la bella.
Ei, infatti, schiuse ‘l porton - chiave in mano -
e mentre in ciel splendeva la sua stella
volle ingannar la mesta in confessione
presso l’istante della sua Passione.

Or dassenno ei pareva un uom di Fede,
‘l manto negro e lungo e ‘l capo raso,
la Croce in man e ‘l sandalo in sul piede,
e in lui nulla sembrava fosse invaso;
ma non si puote ingannar mai chi crede
quando si vien dall’infernale baso,
chè questi adesso n’ebbe l’ardimento
da chieder Morte oppure ‘l pentimento…

e, infatti, ‘l bieco e ‘l reo benediceva
e la Scrittura tenea in man negletta,
e alla fanciulla preghier ne diceva
con voce orrenda, e bruta e maledetta,
ed ella udiva e perplessa taceva
e ‘l fraticel l’era un’ombra sospetta,
ed ei sclamava: «Se ti fai pentita
confessa tosto, e salva avrai la Vita!».

Ma Giovanna ne tacque e nulla disse,
e a lui davante ‘l Ciel pregava - e solo! -
e poscia al Mostro ‘l guardo santo affisse
e riconobbe ‘l sovrano del suolo,
e dianzi a lei che poco alfine visse
questi irridendo ne spiccava ‘l volo.
Allora un raggio di Sole n’entrava
e la pulzella di Luce abbracciava.

Ella stava tuttor inginocchiata
e coll’occhio scrutava ‘l ciel schiarito,
e parea assorta e quieta ed estasiata,
e molle l’era ‘l lembo del vestito,
la chioma bionda e bella all’ombra guata
del spettro istrione appen spento e smarrito;
e santi e belli e casti stavan gli occhi
del campanil al sonar di rei tocchi.

Sognava i dolci fior del suo villaggio,
e l’ampie pievi e la chiesetta antica
‘ve un dì chiamata fu a tanto coraggio
mentre giacea in sul grembo d’una spica,
e l’aër lieto che nel pìcciol maggio
andava a’ campi d’una rada aprìca,
e questa imago al finir della via
le parve allegra e sana e pia elegia.

Or della cella l’antro si dischiuse,
e sgherri d’arme n’entravan furenti,
presêr la dama pelle chiome sfuse,
l’alzâr e questa ne avanzava a stenti,
e l’orrende catene e brute e ottuse
n’eran cagion d’orribili tormenti,
e dell’Anglia funesta ‘l segno amaro
di costor sen giacea in sul torvo acciaro;

e la donna tra’ braccia avvinta e stretta
tremava tanto e le sfere implorava,
e tra quest’oste terribile e gretta
al suo supplizio di foco n’andava,
e di quest’Angli n’era la vendetta
che dalla Chiesa pur trista tonava,
ed ella giunse alfine in sulla piazza
tra un stuol d’armati e di picca e dell’azza.

Salì la pira e la legâr a un legno -
le man congiunte e pie e dietro l’ischiena -
al collo un laccio e un ferro e un drappo indegno
e ‘l boja infame a preparar la pena,
e or venìa un sacerdote, e ‘l santo segno
posò alla fronte smorta e sanza lena;
e mentre un bruto n’alzava la fiamma,
ella pregava al padre e alla sua mamma.

Divampava l’incendio, e gli aspri fumi
velâr la dama di nebbiosi spasmi,
e i legni in foco e di pruni e d’agrumi
divènner fiamme d’infernal fantasmi,
e della pira in sull’alba i rei lumi
n’andâr furiosi co’i loro miäsmi,
e la fanciulla bruciando pregava
e ‘l nom di Cristo soffrente gridava;

e la folla sen stava a queste verba
or spaventata, e or lieta e divertita,
e i tronchi, e i ceppi e i legni e ‘l fieno d’erba
cangiâr in foco, e uccidevan la Vita,
e poscia un’ora in sulla pira acerba
la pulzella non fu chè incenerita.
Morì l’incendio; e tra’l cener d’orrore
un osso in sangue e un non bruciato core.

Ma all’alma santa s’aprìa ‘l Paradiso,
e lieta n’era e immemor de’i martìri,
bianca vestita come un fiordaliso
co’i piedi in sulle tinte - e pur! - dell’iri,
e ne stava lo sguardo al Ciel conquiso,
eterno e fresco stral di bei respiri.
Ave, oh Pulzella di Francia! Oh Signore,
Re della Terra, e Messagger d’Amore!

Ave! Ave! Ave!


In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  



Venerdì XXX Maggio AD MMXIV

Massimiliano Zaino di Lavezzaro