Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Prosa. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Prosa. Mostra tutti i post

giovedì 25 marzo 2021

I Frammenti di Giuda. Prosa sacra di Finzione filosofica

I. Mi sono svegliato di soprassalto. Ho sgranato gli occhi, ho afferrato il vento e l’ho buttato a terra.. minaccioso, come un leone. L’ho minacciato di pugni e calci.

“Cosa vuoi? Che sogni mi hai portato?” ho iniziato a urlare. Poi mi sono fermato… Ho guardato intorno.

Gli altri dormivano, per fortuna!... Eppure sembrava tutto vero. Poco fa.. essi.. erano in piedi, con le loro reti.. i loro remi, con la barca.

Tornavo dal deserto… Correvo. Chi mi inseguiva?...

“Vi prego, fatemi venire con voi!” gridando imploravo agitato tanto quanto lo sono adesso. Mi ricordo: avevo fame.. molta fame.

“No, via.. vattene, maledetto!” mi gridavano. Salirono sulla barca, iniziarono a remare e mi lasciarono solo e affamato presso la riva.

“Assassini!” gridavo “Assassini!”. Volli inseguirli. Tentai entrare nel mare.. correndo.. selvaggio. “Assassini!” gridavo ancora. Poi il mare si fece profondo e per non annegare tornai indietro.

Stanco.. affamato.. addolorato caddi ginocchioni sulla sabbia. Mi copersi gli occhi con le mani e piansi tanto.

Fu allora che mi uscì una voce dal cuore: “Non sarai il loro remo, sarai il vento che li trascina”.

 

II. Una volta ho pensato che se il Messia fosse venuto da me, mi avrebbe domandato di fare qualcosa per Lui.

Forse è la fame, forse è il deserto.. forse è questa vita vagabonda che non mi dà mai una meta, ma oggi ho provato a rispondergli.

Oggi il Messia mi è arrivato davanti in un sogno, mi ha fatto la domanda e poi mi ha baciato.

Ho risolto. Lo so. Se il Messia venisse da me, lo farei uccidere. Sì.. perché a cosa servono i baci, gli oli profumati, le palme.. i salmi? Credo io forse che non saprei adorarlo come gli altri? Oh no, saprei fare anche questo. Non mi stanco di stare in ginocchio tutto il giorno. Ma il Messia deve morire. Voglio che tutti vedano il suo Amore.. voglio che tutti osservino fino a che punto arriva quest’Amore.. voglio che tutti lo vedano sofferente e dire “Mi ami, ti amo!”. L’Amore è una cosa folle, lo sai, caro cuore?

Un uomo soffre, si lamenta, espia colpe non sue e spira, mille altri vivono. Una vittima perde sangue, milioni di vittime si rialzano e si amano. Si baciano le ferite le une con le altre.

Ma io stesso, per primo, avrò il coraggio di amarlo così tanto?...

 

III. A me non importa quello che fanno gli altri. Oggi giravo per le vie di Gerusalemme. Sentivo ovunque i passi di guerra delle caligae straniere. Come amare costoro?...

Vieni.. abbracciami, uomo di ferro.. fammi sentire sul cuore la menzogna degli Dei che hai ricamati sul petto!.. perché tu sei un vile, lo sai? e devi coprirti questo petto con una corazza!... Amiamoci! Non lo sapevi? tu mi hai distrutto la Patria! Mi hai beffeggiato Dio!... Sogni di far volare delle aquile sopra il mio Tempio! Ma amiamoci! Forse sei tu che hai divelto Amore con la forza dalle braccia della donna che amavo qualche tempo fa. Ebbene, vieni con me.. vieni! Andiamo a bere vino e miele alzando le lodi a Cesare e, se non sei contento, toglimi la tunica, schiaffeggiami.. ammazzami.. perché, Romano, devi sapere che ti amo.. che ci amiamo. E molto.

Ma davvero ha avuto il coraggio di dire di porgere a costoro l’altra guancia e di amarli?

 

IV. Ho provato a seguirlo.. davvero! In questi ultimi anni non sono stato male dentro il mio piccolo cuore d’uomo. Non ero più un bandito, ma un onest’uomo. Potevo farmi vedere in faccia. Ma non reggo più. Lui sì, dice cose sensate, ma gli altri non lo capiscono.. lo fraintendono.. lo fanno diventare uno spaventapasseri.. un mago. Perché non se ne libera?...

Ultimamente è inquieto. Mi prende da parte, mi guarda con il suo volto stillante dolcezza di miele. Mi bacia in fronte. Sa che lo amo. Ma poi continua a dirmi “Fa’ quello che devi fare”. Cosa devo fare?... Mi ha forse letto nel cuore? Forse ha intravisto l’Amore che gli tengo nascosto?...

Così oggi l’ho lasciato solo, in preghiera.. perché prega tanto. Sono andato in giro per Gerusalemme.

Perché mi commuovo sempre quando vedo un neonato?... Gli sono andato vicino, lui appoggiato il visetto sulla spalla della madre mi guardava e mi sorrideva. L’ho accarezzato alle mani.. e l’ho salutato.. dolcemente, come se fosse figlio mio. Poi ho pianto.

Ho fatto tanta strada mentre piangevo.

Caifa.. Anna.. sono tutti disgustosi, della peggior stirpe d’uomini, tanto che a veder loro abbraccerei davvero un Romano. Mi hanno guardato, da cima a piedi, come se fossi un verme.

Sapevo che nella loro mente si dicevano “Ecco uno dei suoi!” e mi sorridevano, intanto, con uno sguardo da bestie feroci.

Tutto è cambiato quando ho detto cosa volevo fare. Ci sono uomini che hanno un prezzo e che valgono.. e che per averli tra le mani si è disposti a rinunciare a un po’ di oro. E quell’oro.. sì.. lo voglio dare al bambino che ho visto.. oppure ai miei compagni, sempre in agguato contro i Romani. Ah sì, allora lì è tutto è davvero cambiato, che non finivano più di complimentarsi!

Oggi ho compiuto il mio dovere.. ho consumato il mio Amore per lui: morirà e tutti sapranno che è Dio.

 

V. Vergogna, Giuda! Vergogna!... Ti sei lasciato bagnare i piedi dall’Amore che hai tradito.. ti sei fatto lacerare dai rimorsi.. hai dubitato. E poi? Hai osato prendere quel pane, bere quel vino. Non sei un essere disgustoso e spregevole?...

Ora dovrei amare me stesso.. dovrei abbracciarmi. Sono diventato il mio nemico. Non capisco più nulla. Ho amato o no?... Che cosa ho fatto?...

Ho deciso. Sono pazzo, ormai. Due devono morire, due devono essere sacrificati: chi ama e chi è amato.. chi ama e chi non riesce ad amare.. chi ama e chi dubita.. chi crede e chi nega. Ma riuscirò a trovare l’assassino giusto per me?...

Infatti, mi è chiaro come il sole che un sacrificio solo non basta. Qualche spirito nobile o qualche demòne ha preso dimora in me e costui dev’essere sacrificato, dev’essere ucciso insieme a Lui.. insieme a me.

Che cosa ho fatto?... Ho amato? O voglio solo liberarmi degli stranieri? Tornerò a essere un sicario?... Perché ora amo più i Romani che me stesso?...

Ma non posso fuggire. Adesso è impossibile. Ho già mangiato da quel pane, ho già bevuto da quel calice.. e ora si compia il mio fato.

 

VI. “Lo amo.. fermi.. lo amo!... Ti amo”… ecco cosa volevo dire con quel bacio. Ho avuto il coraggio di ricambiare i baci del Signore.. perché egli ormai è il Signore, mi è chiaro.. è palese a tutti.. tranne che a loro. Ma non so come sia andata a finire. Non ho voluto assistere, ero preso dal dubbio, dal rimorso, dalla vergogna.

Ho visto la mia Anima fuggire nuda dal mio corpo e nascondersi perché le ho detto che è nuda. Ho sentito dire che l’hanno vista in molti.

 

VII. Mi dicevo “Giuda, sta’ calmo! Può essere che tu abbia frainteso il tuo dovere, che tu abbia travisato l’Amore che hai per Lui.. può essere che tu sia stato abbagliato da una stella malefica!”. Così pensando ero ormai convinto che gli avrebbero dato delle frustate.. e basta.

Morte.. e morte per crocifissione!... Gesù, io non volevo questo!

Vorrei tornare da quei bruti e pagare la sua liberazione con il danaro che mi hanno dato. Ma so che mi hanno pagato meno del suo valore. So per certo che ormai mi hanno dato poco per non permettermi di non farlo crocifiggere.

Ora non mi resta che gettare sdegnato l’oro maledetto ai piedi di Caifa… Non mi rimane altro da fare che sacrificarmi anch’io.

Spanderanno Amore presso la sua Croce, bestemmieranno maledizioni al mio ramo.

Quadro di Nikolaj Nikolaevič Ge (1831-1894), Coscienza: Giuda, Tardo-Romanticismo, Simbolismo russo, 1891.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Giovedì XXV Marzo AD MMXXI.

giovedì 24 settembre 2015

A una Rosa selvatica di Montagna

E mai ti rimirerò, dunque, o mia melliflua rosa rossa dell’estate e…
e mai più i tuoi incandescenti petali, e la tua, e la mia - e la nostra montagna - alta e irridente,
là, dove tra le selve delle vipere del tristo Fato ti mirai per la prima volta; e…
e mai gli occhi dei rosseggianti tuoi e giovanili e dolci stami, e…
e ne mai più e ancora intenderò novellamente quei tuoi profumi di miele,
che discendono dal tuo più gemmato crine, capelli di fiore, e…
e né mai le ambrate e addolcite tue guance fatte di una pòrpora sanguigna,
e sdrucite nella rimembranza or mentre le mattutine rugiade di adamanti ordite e composte,
discendono dal fresco e ottenebrato cielo e dall’ultimo argento di Luna piena. E…
e così dovrò forse anch’io assaporare l’incommensurabile e sempiterna tua assenza,
e la sua fuggevole impronta che si proietta ombra nel Nulla osceno che mi rimane:
questo vacuo e futile mare di sensi inappagati e storditi che tu mi abbandonasti,
dopo le impetuose folgori che su di me scatenarono le tue indomate Tempeste. Eh! No! Mai più ti ammirerò taciturno, e silenzioso e insofferente, e…
e incapace di gridare un Sentimento più dolce d’un favo di miele,
e mai più potrò rimirarti a rosseggiare d’accanto ai miei segreti sogni dettati dalle mie più secrete cure, e…
e solamente nei nuovi sogni che si susseguono come onde d’un Oceano selvatico,
tu mi apparirai, e sempre più giovane, e sempre bella, immortale e…
e eternata dall’invisibile plasmarti dei pennelli dell’occhio mio, l’amante dei fiori tuoi compagni,
immortalata in un affresco notturno che rimarrà una Vita inanimata,
e che sarà una quieta abnegazione della tua Morte.
Eppur non mi soddisfa, o rosa, quest’incauto sognare, né il ricordo della tua ombra che muore e…
e che si infrange sui più irrequieti e commossi scogli del Tempo e delle sue Furie,
l’Erinni dell’Ecate che il Tutto universale seppelliscono nella tomba, e…
un sognàr che non è che una debole nebbia autunnale,
ora lambita da un labbro che con il calòr del suo sospiro la allontana fendendola come un cuore trafitto e…
e che non può che essere che uno spettro di Nulla.
No! Mai più ti rivedrò, o fiorellino, e…
ed è per questo che sarà il canto che oserò lamentare:
e una nenia mortuäria e sconfinata e infinita, e una ghirlanda per il tuo ignoto sepolcro di montagna, e…
e non dovrò far altro che piangere e deplorare il nostro ormai separato Destino!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXIV Settembre AD MMXV

giovedì 11 dicembre 2014

La Ballata d'un Viandante vagante nell'Inquietudine (Parte V)

Parte V - Le Gesta del Viandante: La Partenza

Avendo ben ascoltato e inteso codeste suppliche novelle che, tra l’altro gli davano l’opportunità di stornar ancor di poco l’inchiesta principale e per questo di non discorrere immantinente delle sue sventure d’Amore, il giovine viandante si palesò alquanto disposto ad accontentare i suoi imprudenti avventori e, sorseggiato appena un altro bicchiere, si cinse a narrare le sue gesta di cappa e spada. Questi, del resto, erano que’ tempi in cui bastava accennar qualcosa degli Osmani oppure dei selvaggi Tatari per attirare l’attenzione di tutti gli uomini e di tutte le donne, sia nelle corti, sia nei poveri e miserabili villaggi. Ma non si pensi affatto che il nostro giovinotto l’abbia fatto per così dire apposta, semplicemente per parlar d’altro; anzi, giunto a questo punto, il nostro lettore deve sapere che quello che egli s’accingeva a narrare era assolutamente veritiero e che, in prova di questo, son tuttora molte l’istorie a noi pervenute che dipingono i medesmi affreschi. Purtuttavia, per dovere di originalità e per dar un risalto maggiore alle vicende sentimentali, s’è deciso essere meglio sorvolare su alcune parti di queste avventure e di proporre soltanto ciò che puote divenir interessante anche agli occhi d’un contemporaneo.
In ogni caso si lascino perdere codeste avvertenze e si continui la narrazione dei fatti, pe’ quali il viandante andava sempre e sempiternamente fiero. Questi, infatti, dinnanzi all’infame e curiosa plebaglia, iniziò a narrare di come fosse stato scelto a capitaneggiar la scolta d’un opulente mercatante vinegiano, e come di un giorno di primavera, si fosse trovato co’ un drappello in vista dell’istessa Vinegia; e così placidamente narrava:

«D’in su’ un calle vedemmo ‘l mare e ‘l lido,
e le torri e i canal, e i moli ondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Le torri di lontan stavano, e informe
un muro di riparo or si scorgeva,
e dell’aspre balestre s’ersêr l’orme
d’un guerrier che d’intorno difendeva;
e nel mare del cielo or s’immergeva
di lume e di mattin e lieto e carco
l’eterno campanile di San Marco
che in sotto ne facea i mercati ombrosi.

Così discendevamo, e un rivo infìdo
varcammo e i boschi antichi e rei e frondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Più propinqui eravamo e più le porte
si scernevano altère e i merli in ronda,
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda.

Fu allor che ne mostrai i suggelli e i bolli
a lor che ci fermâr, le sentinelle,
e poscia un sol istante co’ rampolli
libero n’ebbi ‘l varco a’ caravelle,
e messer passeggianti oppur in selle
vêr le piazze n’andâr e vêr i ponti,
ed eran mercatanti, e paggi e conti,
la possanza e ‘l fulgor di questa sponda.

In ansia aspettavam la nostra Sorte,
e d’arme n’avevamo - e in fin la fionda! -
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda»;

e allegro ne narrava, or quando d’uno
de’i fradici avventor gli chiese: «E dite -
perdonatemi, oh giovin - ma ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite….

Deh, come e quante son le Vinegiane
che in sul mare si stanno? E belle, almeno?»,
e ‘l prode n’accettò di dir le vane
beltà che ne scorgeva in un baleno:
«Molte son, e le folli - ignudo ‘l seno -
cinguettano gemmate or come augei,
e carchi di diamanti i lor capei
ondeggiano beäti al vento mite;

e le madame a un neo e corvino e bruno
discorrono felici di lor Vite.
Ben perdono, oh avventor, se qui ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite;

e se gradite ancor, l’ignuditade
d’argento si splendea di cortigiana.
Ma d’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana,

chè non per donne e ardor n’avea un drappello,
anzi, per ricercar un tal Gualtiero,
e questi ci attendeva in su’ un vascello -
un mercatante ricco e veglio e fiero;
e al bel lido andavamo e in su’ un sentiero
di merce che giaceva or camminammo,
e scorgemmo un Giudeo che in fin al grammo
i danàr valutò con pesa arcana,

e a’ fresche e marine e pie contrade
sempre più lambivamo e l’onda insana.
Sì! D’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana».  

Così ne narrava il misero viandante, e i bevitori, e i giuocatori e l’oste e l’ostessa allegramente l’ascoltavano, e tanto parve loro interessante ciò che udivano che alfine smisero perfin d’interrogare e di profferir accenti di stupore e di meraviglia. Frattanto il rimembrar del giovine aveva come una voce, un non so che e di melliflua dolcezza e di nobile e maestosa baldanza; e i suoi detti paravano allora simili a quei che nei tempi che correvano si potevano ammirare nelle corti, allorquando il prode rampollo, tornato dalle guerresche imprese, si metteva a raccontare gli eroi, i perigli scampati, i certami e le ricchezze dei vinti e dei vincitori. Forse, del resto, in queste ricordanze il viandante si sentiva ormai pressappoco a suo agio e non aveva più in core quegli stati di ansia e di preoccupazione che precedentemente si manifestarono; anzi, al domandar delle Venigiane, pria di rispondere così come s’è riportato, aveva perfino accennato a un sorriso, benché arrossisse lievemente alle gote. E ora, sempre più mite e più rilassato, narrava di come poscia aver percorsi alcune vie e alcuni sentieri il mercatante Gualtiero fosse stato trovato presso il suo vascello e tra l’altre cose, propriamente nell’istante in cui ei osservava con attenzione i mozzi che mettevano al riparo le merci nella stiva; e per quel poco che si fosse potuto vedere, forse c’era ben di tutto, dall’arme alle polveri, dalle vesti alle stoffe, dai vini a’ liquori. Per questo il giovine raccontava:

«Allor Gualtier ci vide e in tra le merci
d’incontro ci venìa, e in sur d’un cappello
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello;

e l’arme ne mirava e l’alabarde
e mi chiese s’io fossi ‘l capitano,
e io ‘l consentiva, e le truppe gagliarde
fieramente mostrai co’ destra mano,
e ‘l mio sembrò dassen drappel romano
‘ve i guerrieri di gloria or stavan lurchi
e n’attendevan pugne contra i Turchi,
ed ei ormai c’invitò gaudiosi a berci.

Frattanto i mozzi e i servi e sozzi e lerci
ponevano i valor in sul battello;
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello.

Così - aspettando in ansia - un idromele
che ‘l mercatante offriva ne bevemmo,
ed esso n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Il vascello pareva un galeöne,
e intorno e in guardia stavan le trireme,
e ‘l vessìl lampeggiava del Leöne
che tanto i Turchi empiva d’ansie teme,
e d’opulenza v’era or molta speme,
e a remigar se n’ebbe in Tatarìa[1] -
‘ve un Can[2] dell’oro ameno ancor s’indìa -
e giuri al mercatante e onor ne demmo.

D’un tratto si spiegâr le scialbe vele
e bere ancor un sorso ne volemmo;
e ‘l liquor n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Alfin ne giunse l’ora, e in cheta flemma
co’ Gualtier sul vascello n’andavamo,
e carica la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo;

e immantinente in guardia al ligneo ponte
salimmo, e in sull’onde i molli rai
del Sole io contemplava e l’orizzonte
che lieto si sorgea d’in sul Catai[3],
né io né questi compar facemmo lai
chè ben lieti stavamo - ‘l so dassenno -
e poscia un sol e mesto e picciol cenno,
tolta l’àncora all’onda, or salpavamo.

Né meno ci venìa lo stratagemma,
e ben pugnare in arme sapevamo,
sicché carca la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo.

Gualtiero ne tracciò una rotta, e a’ greci
lidi dapprima ‘l vascello si volse,
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Mi rimembro che l’onda or n’era calma
e che i lidi si scorsêr dolci e lieti,
del sicomòro la candida palma
e del Padàn[4] altèro i freschi greti,
e noi salutavamo i calli or cheti
e ben oltre ‘l commercio c’era certo
il bottìn che serbava ‘l mar aperto
chè ormai la terraferma si dissolse;

e già si cucinavan tondi ceci
che un servo dalla stiva or ne raccolse;
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Sibben in patrio mare, or niun naviglio
a guerra in contra ‘l nostro si moveva.
Ma n’aspettate un poco: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or ci attendeva!»;

e gli avventor attenti n’ascoltavano,
ed eran gaudi di codeste istorie,
e a tacer e a sentir ben seguitavano,
udir sperando tanto di vittorie,
e del liquor in fin le spire ustorie
si mancavano al detto or del viandante
che seguitò a narrar del mercatante
e dell’insidia insana che fremeva,

e a ognun attento n’era in fino ‘l ciglio
e di ciascun l’orecchio or n’intendeva:
«Ma n’aspettiamo, è certo: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or v’attendeva!».




[1]  Nome di un vesto territorio, spesso confuso con l’Orda d’Oro. Qui, per Tatarìa, si intende principalmente il khanato di Crimea.
[2]  Cioè, il Khan.
[3]  Nome arcaico con cui si identificava la Cina, e in generale, l’Estremo Oriente.
[4]  Il Padano è il fiume Po’.