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mercoledì 3 giugno 2015

1815 - Ode all'Estate fiamminga

Foreste oscure s’ergono,
dove l’estate splende,
e il bosco lieto apprende
dei fiori il sospirar,
e i ruscelletti scorrono,
flebili e dolci e freschi,
e i fiorellìn dei peschi
son prossimi a mutar.

I passerotti cantano
pei nembi le canzoni
di tenere passioni,
è il tempo dell’Amor;
e fresca cresce l’edera
sui rami dei carpini,
e quieti i cardellini
cinguettano tuttor.

Il vento soffia tiepido
sulle felici foglie,
dimentica le doglie
del gelo che ormai fu,
e i platani solletica,
le cerule betulle,
e i crin delle fanciulle
sfarfallano ancor più.

I frutti s’anneriscono
dell’acido sambuco,
il nettare del fuco
diventa intenso miel,
e le campagne brillano
di grano in spighe bionde,
le nubi vagabonde
s’alternano nel ciel.

I colli intorno s’ergono,
e miti sono i monti,
l’abbeverate fonti
rispecchiano del Sol
i caldi stral, i fulmini
che cullano le rade,
le giovani contrade,
dei semi il nero suol.

I contadini sudano,
raccolgono il frumento,
dall’alba al vespro a stento,
e scalzi n’hanno i piè;
e i loro carri scorrono
per i gentil sentieri,
per i crescenti peri,
e premono il pavé.

I Tempi estivi giungono,
è giunto il caldo giugno,
afferra nel suo pugno
questa Natura intièr,
e a sera i nembi altercano,
minàccian la Tempesta,
ma qui ben più funesta
la mano è del guerrier. 

Son due i Titàn, si sfidano
nel corso del Destino,
calpestano il Divino
che irato si tuonò.
Le Furie apprender bramano,
voglion mutar la Storia,
si vestono di Gloria,
ma l’Erebo ‘l chiamò.

Ecco! I Demòni giungono,
qui è lo Sterminatore.
Pietà di lui, Signore,
chè ignora quel che fa;
e queste schiere orribili
vogliono la battaglia,
vèston la ferrea maglia
che il Fato insano dà;

e qui a versar s’apprestano
i martiri il lor sangue,
e il giovane si langue,
e nel pugnar ne muor.
Giugno mendace e ipocrita!
Senti suonar la tromba,
odi scavar la tomba,
sei un fiore di dolor!

Si dice: «Sarà l’ultima
guerra tra l’uom esausto».
Ahi, quale detto infausto
che invita allo sperar.
Sono trascorsi i secoli,
e questo mìser uomo,
centesimo d’atòmo
si vuole assassinar.

Le stragi non s’imparano,
di Pace è stirpe indegna
quella che umana regna,
dominio del Destin.
E Tu scendesti i nugoli,
soffristi pel peccato,
e Tu accettasti il Fato
d’un schiavo e d’un meschìn!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì III Giugno AD MMXV

domenica 4 gennaio 2015

La Fanciulla del Reno

Una fanciulla misera
all’onde tremule
ansia giacea del Reno
a spenta sponda,
e in ciel la sera cerula
coprìa co’ un zefiro
la gemma del suo seno,
la chioma bionda.

Mesta mirò l’estatiche
del rivo l’àlighe,
e si sedea in su’un scoglio,
e all’orizzonte
i guardi volse a’ nugoli
che serpeggiavano
intorno al bosco spoglio
e a un tetro monte,

e all’acque fredde e in murmure
i piedi candidi
scalzi posava, e in mano
tenea una cetra,
e la sfiorava - in attimi -
di cieco spasimo,
e l’eco andò lontano,
e in furia all’etra.

Vestìa di perle morbide,
di lapislazzuli,
e braccial d’ametista
e di conchiglia,
e i pepli si scendevano  
scomposti e limpidi
di sotto a’ spalle, e trista
polve alle ciglia,

e l’onda oscura e gelida
e inesorabile
a lei inondava i lembi
a’ gambe e al ventre,
e la Luna che pallida
s’ergea tra’ lividi
del ciel notturno i nembi,
e queta - e mentre

coprìa ‘la di solletico
l’arpa de’i gemiti -
scorgea la pelle ignuda,
e l’anca etesia,
e i fianchi in folli brividi
e l’inquietudine
che al petto andava cruda,
la Sorte cesia.

Così nel vespro ‘l vergine
seno e pio e giovine
gemeva appen coperto
d’un lembo d’acque,
e gran di sabbie seriche
tenea all’amabile
senso d’un core aperto
che mai si tacque,

e quivi or svelti gli aliti
del spiro in turbini
andavano irrequieti
siccòme ‘l mesto
lagnar dell’arpa flebile -
vento ineffabile -
intorno a’ bei pineti
e al ciel funesto;

e si gonfiava l’animo
di sensi orribili,
ed ella in ansia Notte
si lamentava
e col cantar i fulmini
e l’orbe grandini
al rivo e a’ boschi e a’ grotte
ne richiamava,

e ne godea or terribile   
tra’i tòni e i murmuri
della crudel tempesta
che si fremeva
a’ monti e a’ pini e a’ salici
e a’ tetri frassini,
e non più cupa e mesta
or sorrideva.

Allor la dama al tremulo
zefiro funebre
alle Norne inneggiava
e al reo Valalla,
e gli spettri da’i tumuli
e l’ombre tragiche
lieta resuscitava,
e scialba e gialla

l’arpa dorata a un fulmine
ergea e alle formide
posse dell’empia Stiria
e pur del Reno,
e in su’ lei lampeggiavano
gli Elementi orridi,
e d’un’alma Valchiria
un vil baleno,

e l’onde allor s’ergevano
e seppellivano
le ripe e i calli e gli orni,
e le betulle,
e i venti lamentavano
con voci stridule
di battaglieri corni
e di fanciulle,

e l’eco spaventàvasi
nel folle turbine,
falciò la Furia i funghi,
e i spenti fiori,
e lamentava l’etere
in tristi palpiti
al suol de’i Nibelunghi
e in rei bagliori,

e presso i campi funebri
ormai i cadaveri
nell’acque fûr ossami
e polvi antiche,
e spettri ne portavano
Valchirie ignobili
qual mietitor fogliami
e bionde spiche;

e pur la donna in fascino
dell’onde al baratro
più volte ne discese,
e sopravvisse,
ed ella stava fradicia,
allegra, energica,
e l’arpa e braccia tese
ai cieli affisse.

Cantò d’una crisalide,
d’un’amadriäde
che un dì n’amò un umano,
un nobiluomo,
e che tradita sèppesi
e che inquiètavasi
e ‘l cor del drudo vano
mutò in atòmo,

e della Vita al limite,
d’un rivo al valico
eterno udì or dolore
e pianto infame,
e sempre ‘la gemevasi
poiché inspiegabile
non poté aver l’Amore
com’altre dame,

e d’ora e innanzi e misera
odiava gli uomini,
ed ella fu Lurlina[1],
donna del Fiume,
e visse miserabile,
e mesta e timida,
ignorata e meschina
in fin dal Nume;

e intanto l’acqua ergèvasi,
i ciel grondavano,
la Notte rosseggiava
d’ansie saëtte,
ed ella lamentevole
ancor gemèvane,
e ancora ne inquietava
anche le vette.

Ma d’un tratto in sul rapido
scoglio balzavasi,
e svelta ‘l peplo sciolse,
e ignuda n’era,
e al suo - dinnanzi al fascino -
l’acque quietàvansi,
e un balzo al Reno volse
e all’onda in cera,

e nuotando in tra l’àlighe
ne scorse i nugoli
tosto placarsi, e intanto
al labbro fiero
men atroce lagnàvasi -
anzi, più flebile -
in fiore un dolce canto
al vespro nero,

e all’onde fresche e tremule
e quete e limpide
e in un bagno di Luna
andò a’ fondali,
e ripeteva andandoci
in lieti spiriti
e in mezzo a Notte bruna -
placate l’ali -

che vendicata omai
ella fu… ella medesma
la mesta Lorelei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Domenica IV Gennaio AD MMXV




[1]  Altro nome con il quale si può indicare la leggendaria Lorelei o un’altra ninfa la cui storia è simile a quella della celebre sirena del Reno.

giovedì 11 dicembre 2014

La Ballata d'un Viandante vagante nell'Inquietudine (Parte V)

Parte V - Le Gesta del Viandante: La Partenza

Avendo ben ascoltato e inteso codeste suppliche novelle che, tra l’altro gli davano l’opportunità di stornar ancor di poco l’inchiesta principale e per questo di non discorrere immantinente delle sue sventure d’Amore, il giovine viandante si palesò alquanto disposto ad accontentare i suoi imprudenti avventori e, sorseggiato appena un altro bicchiere, si cinse a narrare le sue gesta di cappa e spada. Questi, del resto, erano que’ tempi in cui bastava accennar qualcosa degli Osmani oppure dei selvaggi Tatari per attirare l’attenzione di tutti gli uomini e di tutte le donne, sia nelle corti, sia nei poveri e miserabili villaggi. Ma non si pensi affatto che il nostro giovinotto l’abbia fatto per così dire apposta, semplicemente per parlar d’altro; anzi, giunto a questo punto, il nostro lettore deve sapere che quello che egli s’accingeva a narrare era assolutamente veritiero e che, in prova di questo, son tuttora molte l’istorie a noi pervenute che dipingono i medesmi affreschi. Purtuttavia, per dovere di originalità e per dar un risalto maggiore alle vicende sentimentali, s’è deciso essere meglio sorvolare su alcune parti di queste avventure e di proporre soltanto ciò che puote divenir interessante anche agli occhi d’un contemporaneo.
In ogni caso si lascino perdere codeste avvertenze e si continui la narrazione dei fatti, pe’ quali il viandante andava sempre e sempiternamente fiero. Questi, infatti, dinnanzi all’infame e curiosa plebaglia, iniziò a narrare di come fosse stato scelto a capitaneggiar la scolta d’un opulente mercatante vinegiano, e come di un giorno di primavera, si fosse trovato co’ un drappello in vista dell’istessa Vinegia; e così placidamente narrava:

«D’in su’ un calle vedemmo ‘l mare e ‘l lido,
e le torri e i canal, e i moli ondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Le torri di lontan stavano, e informe
un muro di riparo or si scorgeva,
e dell’aspre balestre s’ersêr l’orme
d’un guerrier che d’intorno difendeva;
e nel mare del cielo or s’immergeva
di lume e di mattin e lieto e carco
l’eterno campanile di San Marco
che in sotto ne facea i mercati ombrosi.

Così discendevamo, e un rivo infìdo
varcammo e i boschi antichi e rei e frondosi,
e intorno si spargeva un fresco grido
de’i scogli inumiditi e de’i marosi.

Più propinqui eravamo e più le porte
si scernevano altère e i merli in ronda,
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda.

Fu allor che ne mostrai i suggelli e i bolli
a lor che ci fermâr, le sentinelle,
e poscia un sol istante co’ rampolli
libero n’ebbi ‘l varco a’ caravelle,
e messer passeggianti oppur in selle
vêr le piazze n’andâr e vêr i ponti,
ed eran mercatanti, e paggi e conti,
la possanza e ‘l fulgor di questa sponda.

In ansia aspettavam la nostra Sorte,
e d’arme n’avevamo - e in fin la fionda! -
e le pietre marine eran assorte
nel murmure soäve d’ogni ansia onda»;

e allegro ne narrava, or quando d’uno
de’i fradici avventor gli chiese: «E dite -
perdonatemi, oh giovin - ma ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite….

Deh, come e quante son le Vinegiane
che in sul mare si stanno? E belle, almeno?»,
e ‘l prode n’accettò di dir le vane
beltà che ne scorgeva in un baleno:
«Molte son, e le folli - ignudo ‘l seno -
cinguettano gemmate or come augei,
e carchi di diamanti i lor capei
ondeggiano beäti al vento mite;

e le madame a un neo e corvino e bruno
discorrono felici di lor Vite.
Ben perdono, oh avventor, se qui ciascuno
saper ne vuole e tosto or verba ardite;

e se gradite ancor, l’ignuditade
d’argento si splendea di cortigiana.
Ma d’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana,

chè non per donne e ardor n’avea un drappello,
anzi, per ricercar un tal Gualtiero,
e questi ci attendeva in su’ un vascello -
un mercatante ricco e veglio e fiero;
e al bel lido andavamo e in su’ un sentiero
di merce che giaceva or camminammo,
e scorgemmo un Giudeo che in fin al grammo
i danàr valutò con pesa arcana,

e a’ fresche e marine e pie contrade
sempre più lambivamo e l’onda insana.
Sì! D’altro ho da narrar in libertade
pria che di bella dama e vinegiana».  

Così ne narrava il misero viandante, e i bevitori, e i giuocatori e l’oste e l’ostessa allegramente l’ascoltavano, e tanto parve loro interessante ciò che udivano che alfine smisero perfin d’interrogare e di profferir accenti di stupore e di meraviglia. Frattanto il rimembrar del giovine aveva come una voce, un non so che e di melliflua dolcezza e di nobile e maestosa baldanza; e i suoi detti paravano allora simili a quei che nei tempi che correvano si potevano ammirare nelle corti, allorquando il prode rampollo, tornato dalle guerresche imprese, si metteva a raccontare gli eroi, i perigli scampati, i certami e le ricchezze dei vinti e dei vincitori. Forse, del resto, in queste ricordanze il viandante si sentiva ormai pressappoco a suo agio e non aveva più in core quegli stati di ansia e di preoccupazione che precedentemente si manifestarono; anzi, al domandar delle Venigiane, pria di rispondere così come s’è riportato, aveva perfino accennato a un sorriso, benché arrossisse lievemente alle gote. E ora, sempre più mite e più rilassato, narrava di come poscia aver percorsi alcune vie e alcuni sentieri il mercatante Gualtiero fosse stato trovato presso il suo vascello e tra l’altre cose, propriamente nell’istante in cui ei osservava con attenzione i mozzi che mettevano al riparo le merci nella stiva; e per quel poco che si fosse potuto vedere, forse c’era ben di tutto, dall’arme alle polveri, dalle vesti alle stoffe, dai vini a’ liquori. Per questo il giovine raccontava:

«Allor Gualtier ci vide e in tra le merci
d’incontro ci venìa, e in sur d’un cappello
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello;

e l’arme ne mirava e l’alabarde
e mi chiese s’io fossi ‘l capitano,
e io ‘l consentiva, e le truppe gagliarde
fieramente mostrai co’ destra mano,
e ‘l mio sembrò dassen drappel romano
‘ve i guerrieri di gloria or stavan lurchi
e n’attendevan pugne contra i Turchi,
ed ei ormai c’invitò gaudiosi a berci.

Frattanto i mozzi e i servi e sozzi e lerci
ponevano i valor in sul battello;
in tinte scintillavan freschi e guerci
i piumaggi festosi d’un augello.

Così - aspettando in ansia - un idromele
che ‘l mercatante offriva ne bevemmo,
ed esso n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Il vascello pareva un galeöne,
e intorno e in guardia stavan le trireme,
e ‘l vessìl lampeggiava del Leöne
che tanto i Turchi empiva d’ansie teme,
e d’opulenza v’era or molta speme,
e a remigar se n’ebbe in Tatarìa[1] -
‘ve un Can[2] dell’oro ameno ancor s’indìa -
e giuri al mercatante e onor ne demmo.

D’un tratto si spiegâr le scialbe vele
e bere ancor un sorso ne volemmo;
e ‘l liquor n’addolciva or pure ‘l fiele
dell’ardire sul qual fieri sedemmo.

Alfin ne giunse l’ora, e in cheta flemma
co’ Gualtier sul vascello n’andavamo,
e carica la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo;

e immantinente in guardia al ligneo ponte
salimmo, e in sull’onde i molli rai
del Sole io contemplava e l’orizzonte
che lieto si sorgea d’in sul Catai[3],
né io né questi compar facemmo lai
chè ben lieti stavamo - ‘l so dassenno -
e poscia un sol e mesto e picciol cenno,
tolta l’àncora all’onda, or salpavamo.

Né meno ci venìa lo stratagemma,
e ben pugnare in arme sapevamo,
sicché carca la stiva e d’oro e gemma
da quel mattin e innanzi salvavamo.

Gualtiero ne tracciò una rotta, e a’ greci
lidi dapprima ‘l vascello si volse,
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Mi rimembro che l’onda or n’era calma
e che i lidi si scorsêr dolci e lieti,
del sicomòro la candida palma
e del Padàn[4] altèro i freschi greti,
e noi salutavamo i calli or cheti
e ben oltre ‘l commercio c’era certo
il bottìn che serbava ‘l mar aperto
chè ormai la terraferma si dissolse;

e già si cucinavan tondi ceci
che un servo dalla stiva or ne raccolse;
e vista di Vinegia ancor ne feci
finché poscia mezz’ora ‘l mar mel tolse.

Sibben in patrio mare, or niun naviglio
a guerra in contra ‘l nostro si moveva.
Ma n’aspettate un poco: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or ci attendeva!»;

e gli avventor attenti n’ascoltavano,
ed eran gaudi di codeste istorie,
e a tacer e a sentir ben seguitavano,
udir sperando tanto di vittorie,
e del liquor in fin le spire ustorie
si mancavano al detto or del viandante
che seguitò a narrar del mercatante
e dell’insidia insana che fremeva,

e a ognun attento n’era in fino ‘l ciglio
e di ciascun l’orecchio or n’intendeva:
«Ma n’aspettiamo, è certo: oh qual periglio
nell’Ellade che muore or v’attendeva!».




[1]  Nome di un vesto territorio, spesso confuso con l’Orda d’Oro. Qui, per Tatarìa, si intende principalmente il khanato di Crimea.
[2]  Cioè, il Khan.
[3]  Nome arcaico con cui si identificava la Cina, e in generale, l’Estremo Oriente.
[4]  Il Padano è il fiume Po’.

giovedì 27 novembre 2014

Corona di Sonetti epici - Sangue e Tormento

Sen rugge la furia d’un’empia tempesta,
e splende la Luna nel cielo notturna,
e fiero un certame in sul Reno si desta,
e ‘l sangue e gli umori raccoglie nell’urna,

e trista e selvaggia e meschina e funesta
sen sta una ghirlanda che è taciturna,
col vischio è intrecciata, terribile e mesta,
n’aspetta funerea la tomba dïurna;

e un bruto guerriero n’innalza la scure,
del lasso rivale colpisce la gola,
ne chiama alla pugna dall’orride alture

un corno furioso che uccide una viola,
e ‘l calle s’inebria di scarne sventure,
colui che si salva fia un’anima sola…

e va la carola
del bardo ch’ai morti nostalgico inneggia,
e un nembo di Morte gemendo lampeggia.

D’Odino la gloria si veste di spade,
di Dönner rosseggia l’infausto martello,
i fiumi e i torrenti, l’ombrose contrade
ne tengono fulvo di lapidi ‘l vello,

e i granuli biondi dell’aride biade
si sanguinan acri, ne strilla l’augello
di queste tragende, e un indomito invade
un’avida terra, un eroico drappello,

e vanno le spade le lòriche a urtare,
l’usbergo si scioglie alle scuri sì ardite,
di cruore sen scorrono l’acque d’un mare,

qual fiori mietuti, si spengon le Vite,
e l’ultimo prode desidera orbare
di spiro e di speme le schiere smarrite;

e muor l’aspra lite:
di sangue e di teschi son colme le grotte,
dell’arse capanne scintilla la Notte.

Sen riedono invitti, di pelli vestiti,
ne tengon i prodi le formide spoglie,
intorno ai lor fochi n’ascoltano i miti,
un bardo divino trionfale li accoglie,

e i cani irrequieti, e i figliuoli assopiti
salutano sozzi d’umori e di doglie,
ne bevono fieri i vinelli un dì orditi,
d’un salce e d’un vischio ne mangian le foglie,

e spremono lagrime ai nobili estinti,
ne mondan le lame dal collo squartato,
ne irridono allegri gl’immobili vinti

che in pugna subirono l’ultimo Fato,
e veggon la Luna da’i steli discinti
de’i fiori notturni, lo stral indorato;

e sta inargentato
un bosco ch’è freddo di pruni e betulle,
e vittime e nòttole n’hanno le culle.

Frattanto gli spettri combattono ancora,
le lance spettrali trafiggono ‘l vento,
e prima che giunga novella l’aurora,
pel campo de’i morti s’irrora un lamento,

e fere la spada, la scure s’accora,
s’infuria e si gela l’aëreo elemento,
e cade ‘l guerriero e fatal lo divora
degl’Inferi ‘l Divo ch’è re di tormento.

Si lagna la salma che spira irrequieta,
l’estremo sospiro nel vento svanisce,
coll’arme sen vola alla funebre meta

del sonno perenne che ovunque colpisce;
e i spettri l’accolgono, non hanno più pièta,
e d’avida Morte d’eterno perisce…

e ‘l cor suo ruggisce,
e mira gemente pe’i nugoli in suso,
e sogna al sepolcro uno stuolo confuso.

Allora s’espande ‘l lamento d’un corno,
la Notte lampeggia ferale e iraconda,
i nugoli tònano e l’eco d’intorno
calpesta - di lagne - di sangue quest’onda,

e viene una donna, di vischio n’ha adorno
il polso guerresco e la chioma ch’è bionda,
ne tiene alla destra, fulminea qual giorno,
la lancia feroce, crudel, furibonda;

e sella un destriero che s’erge alle stelle,
d’usbergo n’ha ‘l seno, n’ha l’elmo ai capelli,
la seguono tosto l’eguali sorelle

che spargon terrore perfino ai ruscelli,
e sono fanciulle e terribili e belle,
e giovini e bionde dai negri mantelli…

e sembran augelli,
e mòvono ratte ai defunti guerrieri,
le ciglia fian dolci, ma i guardi son fieri.

I monti innevati rispondono ai canti
che queste Valchirie ne fan cogli scudi,
ed esse sorridono ai gemiti e ai pianti
de’i giovini prodi che morti son crudi,

e vanno in tra’i nembi de’i biechi adamanti,
ne veston le lòriche, gli elmi son rudi,
e corrono triste, proseguono avanti,
i fianchi n’han lugubri, i piedi son nudi,

e cantano nenie del vento in sul fischio,
percorrono i tòni del Nume adirato,
ne bevono intrugli di rorido vischio,

ne scagliano lampi di cener dorato,
e balzano insane, non cale mai ‘l rischio,
son posse dell’Infero cupo e infocato;

e ‘l spir esalato
de’i morti ne prendono come trofei,
e lodi di guerra ne fanno agli Dei.

Allor i cadaveri s’alzan spettrali,
ne sembrano nebbie che forme han umane,
e i corni s’impazzano e sono ferali,
e copron le vette - perfin più lontane -

e l’ansie Valchirie gli accolgon fatali,
e sono pietose e cherubiche e vane,
ne gridano ultrici le lodi gioviali
che della vittoria son verba sì arcane.

Ma sta una Valchiria che piagne in segreto,
che l’alto Vallhalla in mister maledice,
il cor di tal femmina giace irrequieto

chè geme all’amato, un trafitto infelice;
e colle sorelle svanisce e all’inquieto
lagnarsi del prode una prece ne dice,

e più non le lice
un’orrida Vita ch’è priva d’Amore,
ai piè del destriero, v’è un mar di dolore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XXVII Maggio AD MMXIV, Revisionata in Giorno Giovedì XXVII Novembre AD MMXIV