Una fanciulla misera
all’onde tremule
ansia giacea del Reno
a spenta sponda,
e in ciel la sera cerula
coprìa co’ un zefiro
la gemma del suo seno,
la chioma bionda.
Mesta mirò l’estatiche
del rivo l’àlighe,
e si sedea in su’un scoglio,
e all’orizzonte
i guardi volse a’ nugoli
che serpeggiavano
intorno al bosco spoglio
e a un tetro monte,
e all’acque fredde e in murmure
i piedi candidi
scalzi posava, e in mano
tenea una cetra,
e la sfiorava - in attimi -
di cieco spasimo,
e l’eco andò lontano,
e in furia all’etra.
Vestìa di perle morbide,
di lapislazzuli,
e braccial d’ametista
e di conchiglia,
e i pepli si scendevano
scomposti e limpidi
di sotto a’ spalle, e trista
polve alle ciglia,
e l’onda oscura e gelida
e inesorabile
a lei inondava i lembi
a’ gambe e al ventre,
e la
Luna che pallida
s’ergea tra’ lividi
del ciel notturno i nembi,
e queta - e mentre
coprìa ‘la di solletico
l’arpa de’i gemiti -
scorgea la pelle ignuda,
e l’anca etesia,
e i fianchi in folli brividi
e l’inquietudine
che al petto andava cruda,
la Sorte cesia.
Così nel vespro ‘l vergine
seno e pio e giovine
gemeva appen coperto
d’un lembo d’acque,
e gran di sabbie seriche
tenea all’amabile
senso d’un core aperto
che mai si tacque,
e quivi or svelti gli aliti
del spiro in turbini
andavano irrequieti
siccòme ‘l mesto
lagnar dell’arpa flebile -
vento ineffabile -
intorno a’ bei pineti
e al ciel funesto;
e si gonfiava l’animo
di sensi orribili,
ed ella in ansia Notte
si lamentava
e col cantar i fulmini
e l’orbe grandini
al rivo e a’ boschi e a’ grotte
ne richiamava,
e ne godea or terribile
tra’i tòni e i murmuri
della crudel tempesta
che si fremeva
a’ monti e a’ pini e a’ salici
e a’ tetri frassini,
e non più cupa e mesta
or sorrideva.
Allor la dama al tremulo
zefiro funebre
alle Norne inneggiava
e al reo Valalla,
e gli spettri da’i tumuli
e l’ombre tragiche
lieta resuscitava,
e scialba e gialla
l’arpa dorata a un fulmine
ergea e alle formide
posse dell’empia Stiria
e pur del Reno,
e in su’ lei lampeggiavano
gli Elementi orridi,
e d’un’alma Valchiria
un vil baleno,
e l’onde allor s’ergevano
e seppellivano
le ripe e i calli e gli orni,
e le betulle,
e i venti lamentavano
con voci stridule
di battaglieri corni
e di fanciulle,
e l’eco spaventàvasi
nel folle turbine,
falciò la
Furia i funghi,
e i spenti fiori,
e lamentava l’etere
in tristi palpiti
al suol de’i Nibelunghi
e in rei bagliori,
e presso i campi funebri
ormai i cadaveri
nell’acque fûr ossami
e polvi antiche,
e spettri ne portavano
Valchirie ignobili
qual mietitor fogliami
e bionde spiche;
e pur la donna in fascino
dell’onde al baratro
più volte ne discese,
e sopravvisse,
ed ella stava fradicia,
allegra, energica,
e l’arpa e braccia tese
ai cieli affisse.
Cantò d’una crisalide,
d’un’amadriäde
che un dì n’amò un umano,
un nobiluomo,
e che tradita sèppesi
e che inquiètavasi
e ‘l cor del drudo vano
mutò in atòmo,
e della Vita al limite,
d’un rivo al valico
eterno udì or dolore
e pianto infame,
e sempre ‘la gemevasi
poiché inspiegabile
non poté aver l’Amore
com’altre dame,
e d’ora e innanzi e misera
odiava gli uomini,
donna del Fiume,
e visse miserabile,
e mesta e timida,
ignorata e meschina
in fin dal Nume;
e intanto l’acqua ergèvasi,
i ciel grondavano,
la Notte rosseggiava
d’ansie saëtte,
ed ella lamentevole
ancor gemèvane,
e ancora ne inquietava
anche le vette.
Ma d’un tratto in sul rapido
scoglio balzavasi,
e svelta ‘l peplo sciolse,
e ignuda n’era,
e al suo - dinnanzi al fascino -
l’acque quietàvansi,
e un balzo al Reno volse
e all’onda in cera,
e nuotando in tra l’àlighe
ne scorse i nugoli
tosto placarsi, e intanto
al labbro fiero
men atroce lagnàvasi -
anzi, più flebile -
in fiore un dolce canto
al vespro nero,
e all’onde fresche e tremule
e quete e limpide
e in un bagno di Luna
andò a’ fondali,
e ripeteva andandoci
in lieti spiriti
e in mezzo a Notte bruna -
placate l’ali -
che vendicata omai
ella fu… ella medesma
la mesta Lorelei!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Domenica IV Gennaio AD MMXV