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lunedì 22 luglio 2019

Sommer Sehnsucht

I. M'assalsero le fredde rimembranze, il mio verno, e d'altre
nevi l'assillo fatale, nel mar di mio Luglio, i miei Sogni,

le vecchie chimere. Né tu, o Estate, sei paga ancora
del mendace tuo sguardo che ai miei occhi qui sempre converti;

e la tua sera vien cruda, nel Tramonto d'oro confuso...
viene a dirmi che poco più di un mese sol ci separa

alle timide foglie pallenti nel cuor di Settembre.

II. M'hanno sepolta nel mare la cetra dorata di Saffo,
né le natanti Ninfe per lei hanno rispetto; ma odiano

che dagli omerici liti lamentino i miseri Aedi
questa Vita sì breve che non brinda niente se non

le inebrïanti mirre, le coppe fatal della Morte.
Perciò io ti dico, o Faone: che quando vien sera ed è Notte,

e tu sogni ghermir la candida pelle di Luna,
e gli arcani dell'Egeo svelar dalle lor sì tenui ombre,

e brami di palpiti furibondi Amor da lei, tua Anima
e Dea, avrai come premio l'eterna illusione dell'Ade...

nel Regno delle nebbie, pur tu vorrai essere l'ultimo
degli schiavi. 

III. I miei occhi guardano fuori le foglie assolate d'un noce,
e ricordan di sinistre congreghe di Sabbath malvagi.

Ma ora che è giorno e la Luna non v'è, questi rami e le ruvide
cortecce e quell'acerbo sapor di erba amara a combattere

l'illusa Fantasia sen vanno onde l'albero, un po'
vecchio e contorto e triste, non è altro che un tronco piantato

su una ripa, in attesa di darmi dei frutti in Autunno.
Ma quando le foglie diventeran gialle e morenti,

io assaggiando le noci, vedrò la mestizia dei spenti
tempi d'Estate, e udrò nel cuore un singulto furioso...

forse l'urlo feroce di una strega che urla il mio nome.

Konstantin Makovsky, La Gioiosa Arcadia, Neo-Classicismo e Pre-Romanticismo russo, Secolo XIX.

Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Lunedì XXII del Mese di Luglio AD MMXIX.

martedì 10 ottobre 2017

All'Ore dei Sogni

Se or più qui insonne io sarò, o Notte, inquieto
sì tanta calma avrò rapita, e spenta
la mia sognante possa che s’avventa
sul cuor mio. E dico: «Sogno! Vade retro!».

Pur tornerò sì al quotidiano metro
per cui la Vita ahi! m’è inumana e lenta,
che torvo e oscuro Fato mi spaventa
più della nascita il germe in un feto;

dond’io mi preparo al fàr di sera,
la qual so che sovvièn per darmi invano
questi Sogni melliflui e questa Luna.

Sì che ivi io non avrò che tetra cera,
le tenebre; e mi prende or pe’ una mano
questa che è in ciel mia estatica culla.

Erik Bodom, Minnensteiner, Romanticismo norvegese, Secolo XIX


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Martedì X del Mese di Ottobre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Fede AD MMXVII.


domenica 4 gennaio 2015

La Fanciulla del Reno

Una fanciulla misera
all’onde tremule
ansia giacea del Reno
a spenta sponda,
e in ciel la sera cerula
coprìa co’ un zefiro
la gemma del suo seno,
la chioma bionda.

Mesta mirò l’estatiche
del rivo l’àlighe,
e si sedea in su’un scoglio,
e all’orizzonte
i guardi volse a’ nugoli
che serpeggiavano
intorno al bosco spoglio
e a un tetro monte,

e all’acque fredde e in murmure
i piedi candidi
scalzi posava, e in mano
tenea una cetra,
e la sfiorava - in attimi -
di cieco spasimo,
e l’eco andò lontano,
e in furia all’etra.

Vestìa di perle morbide,
di lapislazzuli,
e braccial d’ametista
e di conchiglia,
e i pepli si scendevano  
scomposti e limpidi
di sotto a’ spalle, e trista
polve alle ciglia,

e l’onda oscura e gelida
e inesorabile
a lei inondava i lembi
a’ gambe e al ventre,
e la Luna che pallida
s’ergea tra’ lividi
del ciel notturno i nembi,
e queta - e mentre

coprìa ‘la di solletico
l’arpa de’i gemiti -
scorgea la pelle ignuda,
e l’anca etesia,
e i fianchi in folli brividi
e l’inquietudine
che al petto andava cruda,
la Sorte cesia.

Così nel vespro ‘l vergine
seno e pio e giovine
gemeva appen coperto
d’un lembo d’acque,
e gran di sabbie seriche
tenea all’amabile
senso d’un core aperto
che mai si tacque,

e quivi or svelti gli aliti
del spiro in turbini
andavano irrequieti
siccòme ‘l mesto
lagnar dell’arpa flebile -
vento ineffabile -
intorno a’ bei pineti
e al ciel funesto;

e si gonfiava l’animo
di sensi orribili,
ed ella in ansia Notte
si lamentava
e col cantar i fulmini
e l’orbe grandini
al rivo e a’ boschi e a’ grotte
ne richiamava,

e ne godea or terribile   
tra’i tòni e i murmuri
della crudel tempesta
che si fremeva
a’ monti e a’ pini e a’ salici
e a’ tetri frassini,
e non più cupa e mesta
or sorrideva.

Allor la dama al tremulo
zefiro funebre
alle Norne inneggiava
e al reo Valalla,
e gli spettri da’i tumuli
e l’ombre tragiche
lieta resuscitava,
e scialba e gialla

l’arpa dorata a un fulmine
ergea e alle formide
posse dell’empia Stiria
e pur del Reno,
e in su’ lei lampeggiavano
gli Elementi orridi,
e d’un’alma Valchiria
un vil baleno,

e l’onde allor s’ergevano
e seppellivano
le ripe e i calli e gli orni,
e le betulle,
e i venti lamentavano
con voci stridule
di battaglieri corni
e di fanciulle,

e l’eco spaventàvasi
nel folle turbine,
falciò la Furia i funghi,
e i spenti fiori,
e lamentava l’etere
in tristi palpiti
al suol de’i Nibelunghi
e in rei bagliori,

e presso i campi funebri
ormai i cadaveri
nell’acque fûr ossami
e polvi antiche,
e spettri ne portavano
Valchirie ignobili
qual mietitor fogliami
e bionde spiche;

e pur la donna in fascino
dell’onde al baratro
più volte ne discese,
e sopravvisse,
ed ella stava fradicia,
allegra, energica,
e l’arpa e braccia tese
ai cieli affisse.

Cantò d’una crisalide,
d’un’amadriäde
che un dì n’amò un umano,
un nobiluomo,
e che tradita sèppesi
e che inquiètavasi
e ‘l cor del drudo vano
mutò in atòmo,

e della Vita al limite,
d’un rivo al valico
eterno udì or dolore
e pianto infame,
e sempre ‘la gemevasi
poiché inspiegabile
non poté aver l’Amore
com’altre dame,

e d’ora e innanzi e misera
odiava gli uomini,
ed ella fu Lurlina[1],
donna del Fiume,
e visse miserabile,
e mesta e timida,
ignorata e meschina
in fin dal Nume;

e intanto l’acqua ergèvasi,
i ciel grondavano,
la Notte rosseggiava
d’ansie saëtte,
ed ella lamentevole
ancor gemèvane,
e ancora ne inquietava
anche le vette.

Ma d’un tratto in sul rapido
scoglio balzavasi,
e svelta ‘l peplo sciolse,
e ignuda n’era,
e al suo - dinnanzi al fascino -
l’acque quietàvansi,
e un balzo al Reno volse
e all’onda in cera,

e nuotando in tra l’àlighe
ne scorse i nugoli
tosto placarsi, e intanto
al labbro fiero
men atroce lagnàvasi -
anzi, più flebile -
in fiore un dolce canto
al vespro nero,

e all’onde fresche e tremule
e quete e limpide
e in un bagno di Luna
andò a’ fondali,
e ripeteva andandoci
in lieti spiriti
e in mezzo a Notte bruna -
placate l’ali -

che vendicata omai
ella fu… ella medesma
la mesta Lorelei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Domenica IV Gennaio AD MMXV




[1]  Altro nome con il quale si può indicare la leggendaria Lorelei o un’altra ninfa la cui storia è simile a quella della celebre sirena del Reno.