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mercoledì 7 gennaio 2015

Ricordanze invernali all'Orizzonte alpestre

All’ombre dell’aurora e all’orbe brume,
e all’etere che cupo si lamenta,
e alle nenie d’un gallo e veglio e implume,
e alla pallida brina a un fior di menta,
e a’ boschi e a’ cardi ‘ve làgnasi un fiume
e a questi scialbi ciel che ‘l Sole attenta
febbrilmente ne volgo ‘l guardo avvinto
e a un nembo che si sta d’argento tinto,

e spaziändo ‘l vento all’orizzonte
co’ un nostalgico cor sempre discerno
gelide e in neve le vette d’un monte
che sublime si splende in ghiaccio eterno,
e intorno ne contemplo or nubi appronte
a versar altre nevi, e quasi a ischerno
della bufera intendo un’egra lagna
che un rimembrar m’ispira di montagna.

Così al ciel che mellifluo e queto albeggia,
e a’ valichi lontani e al giovin giorno,
or mentre l’astro in tra’i nembi rosseggia
e in tra’i spogli arboscel d’un trèmul orno,
d’un trapassato dì or in su’ Craveggia
nella mente ‘l recordo in gaudio adorno
pallidamente e in core mi sovviene
come un brivido insan che m’è alle vene,

e per questo ammirando ‘l ciel lontano,
e sospirando alle candide cime,
e al fragile sentier torvo e montano
e all’incognite rocce e vaghe e all’ime
valli, e all’albe foreste e a un clivo arcano,
e singhiozzando alla pietra sublime
su cui d’estate e al suol del Nibelungo
timidamente cresce ‘l muschio e ‘l fungo,

e lagrime spremendo all’occhio - e tanto -
più dell’acque del rivo all’Alpe cara,
e all’elvetico calle e molle e affranto
che ‘l Sol serenamente ne rischiara,
a rimembrar m’accingo in questo canto
la beltà della roccia e ignuda e avara,
poiché meco quest’Alpi n’ebber pièta
che alfin sacro ne sono ‘l lor Poëta.

Allor nell’alba fresca e come in sogno
or nostalgicamente e in rimembranza
mi si presentan liete di Vocogno
le vette che ammirai d’in su’ una stanza,
e ‘l monte che silente: «Mi vergogno!»
timidamente disse a’ mia romanza,
e in sospir ne rimembro in su’ una via
l’alte pievi montane e un’osteria,

e le felci rupestri, e i prati scialbi,
e delle nevi or l’argento e soäve,
e i gelidi sentier e pe’i prunalbi
del verno che soffiâr quest’aure ignave,
e pelle stalle i fieni e tersi e falbi,
e le fauci perenni or d’empie cave,
e quel che più non veggo e non affronto
tra le cime e le balze, alpin tramonto, 

e pe’i boschi e i dirupi e in spoglia pelle
le roveri e i cipressi e i bagolàri,
e le querce montane e oscure e snelle
e de’i pioppi dormienti i reliquari,
e a valle ‘l cardo in fior, le roverelle
e a’ ciottoli e a’ sentier i bei viäri,
e le lagrime ignude in chiome a’ salci
e ‘l superstite campo all’empie falci,

e i spasmodici spettri a’ cimiteri,
e le betulle d’immobili foglie,
e l’aquile tra’i nembi e gli sparvieri
che la vittima al vespro omai n’accoglie,
e i vestiboli smorti e i monasteri,
e gli ostel antichi che giacciònsi in doglie,
e gelide a soffiar in tra’ le pietre
tempestose e funeste e cupe l’etre.

Ma ancor che queste selve e questo vento
e al mattutin mirar degli albi monti
su cui scendon le nevi in torneamento
in formidi e furiosi e biechi affronti,
un recordo si volge in Sentimento
agli innevati marmi e a’ nivei ponti
‘ve ghiacciati mirai i gentil ruscelli
e di quest’acque i vetri e frali e belli,

e alle gemme dell’ansia e terrea strada,
e de’i ghiacci al terribile adamante,
e all’argentata e innevata contrada
che tuttora mi pingo a me davante,
e all’arida e montana e fredda rada
‘ve un ceppo si lamenta tremolante,
e d’òpale de’i pini or n’ho membranza,
dell’ebano d’un lupo or che s’avanza,

e mestamente scorgo la montagna
che rorida m’ispira una canzone,
e ‘l putrido rubìn d’una castagna,
e l’esule sentiero del Sempione,
e un queto rivo che un calle ne bagna
e che ferocemente al ghiaccio oppone
la furia di quest’acque e terse e ombrose
che cadon dalle vette in ciel montuose,

e irrequieto rimembro un casolare
che rustico e di pietre n’era fatto,
e l’ara etesia e santa e tutelare
d’un borgo abbandonato eppur intatto,
e dell’egra bufera all’incalzare
la possa arcana or che s’ebbe d’un tratto,
e in cima a un monte e in negro e tetro vello
le torri d’un consunto e spento ostello.

Allor a queste pietre or nuovamente
un incubo ne schiudo al cor che ‘l serra
e che sempre m’inebria questa mente
al membrar d’un’antica e insana guerra
che un dì e in sul ghiaccio e pallido e insolente
a insanguinar si mosse or questa terra,
e per questa rupestre e rea riviera
in sogno ne discerno infame schiera,

allorquando alle selve e all’ore tarde
e a’ tremuli bastioni i cavalieri
avvolti in bruni velli e in triste barde
e all’indoli guerresche i gran cimieri,
n’andavan cogli acciari e l’alabarde
di quest’ostel a strugger i messeri,
e in mezzo a’ ferrei e a’ nivei e argentei fiocchi
pe’i sentier trascinâr i rei trabocchi,

e al vèspero al cantar d’un vano grillo
e al piè della fortezza e al foco infame
allorquando s’alzò un fatal vessillo
che i prodi n’involò al cieco certame,
e pe’i monti innevati andava un squillo
che pur intimoriva un pio fogliame,
e all’orizzonte in Notte urlava l’eco,
e ‘l braccio del messer pugnava bieco;

e la pugna s’ergeva in grida e in foco,
e di giovin baroni or fu un massacro
e i duci ridacchiavan quale in giuoco
all’evocar de’i Ciel del Nume sacro,
e poiché si versò di sangue or poco
la strage proseguiva e tosto e all’acro
merlo del ner ostello a istranie schiere
i dardi ne scagliava un balestriere,

e così e in fin di Notte e in su’i sentieri
tra ‘l cozzar delle spade e degli usberghi
cadevano pugnando i gran guerrieri
a’ rival rivolgendo incauti gerghi,
e all’alba dell’ostello i falconieri
col sire trapassâr ne’ vani alberghi
che tra le fiamme e la magiòn violata
bruciavano funerei e in Morte irata,

e al sorgere del Sole e a’ boschi oscuri
i vincitor sen stavan co’i trofei,
e una pira s’ergeva a’ volti impuri
de’i cadaveri in sangue e altèri, e pei
sentier degli ansi calli e a piè securi
un cavalier pregava in gloria Dei,
e del borgo sen stava un sol cancello
al canto del funereo e cupo augello.

Ma d’un sìmil sognar non m’accontento,
nemmanco rimembrando ‘l loco alpino
‘ve passando i’ sentìa eterno ‘l tormento
d’uno spettro guerresco e serotino,
e ignaro i’ calpestava ‘l paramento
d’un balestrier sepolto a’ piè d’un pino
e l’altre e fosche e terribili fosse
tra gli sterpi feroci e terree l’osse,

e quivi ne sognai gli uman sciacalli
che degli estinti vollêr l’arme e opìmi,
e tra le nevi or di scialbi cristalli
gli elmi e gli affranti usberghi e torvi e infìmi
e che al terzo cantar de’i freddi galli
svanîr tra gli orizzonti in ciel sublimi;
e intanto i monti scorgo e veggo ancora,
e un villaggio dell’Alpe or m’innamora.

Così ne ricontemplo i clivi e l’erte,
e i vegli cacciatori or passeggeri,
e ‘l corno che le cerve a’ caccia avverte,
e i spogli e freschi pruni e i mirti e i peri,
e le valli d’intorno e in sotto aperte
e i grigi nembi e in neve lusinghieri,
e ‘l camoscio che ‘l ghiaccio alfin incontra
e al ruscello d’un piano l’ansia lontra,

e l’alci d’oro che al muro impagliate
un giorno n’ammirai e pella locanda,
e all’Alpi le cascate un dì ghiacciate
e da un timido fonte l’acqua blanda,
e l’agili e festose passeggiate
pel mercurio del ghiaccio e pella landa,
e ‘l sapor vespertino e a fiamma spenta
del cervo e della morbida polenta;

e ancora ne rimembro: all’ora nona
un crepuscolo torvo allor veniva,
e fiocamente in ciel l’alba Latòna
d’iri spettrali le nubi assaliva,
e del Sole la luce or n’era prona
e qui velocemente affievoliva,
e quest’orba e melliflua e casta Luna
di spirti ne tergea la Notte bruna,

e alle tenebre un monte pur lontano
de’i valichi l’impronta n’era mesta,
e l’ombra assomigliava a un reo Titano,
e la vetta sen stava or più funesta,
e ‘l guardo si brillava e fioco e arcano
siccòme un lampo al furor di Tempesta,
e a mirarlo i’ passava ‘l vespro insonne
a sognar le Valchirie, etesie donne.

Tuttor, del resto, e al recordo impetuoso
queste cime mi parlan d’alte saghe,
quando ‘l canto funereo e doloroso
d’un bardo si balzava a queste vaghe
rocce, e cantava ‘l certame mostruoso,
e i scaldi le foreste delle maghe,
e sol i Numi varcavan i monti
di sangue abbeverando l’egre fonti,

e quando alle montagne ‘l salce cupo
le ghirlande intrecciava all’ossa e a’ prodi,
e coll’eco tremenda in su’un dirupo
le funebri volâr, funeste l’odi,
e pelle selve giacevasi ‘l lupo
di vittime ‘l signore e d’orbe frodi,
e quando in tra’ le nubi l’empie Norne
sibilavan di Morte e strazi adorne,

e allorquando lo spettro all’erte antiche
perfino strangolava e l’uomo e ‘l germe,
e come un mietitore all’ansie spiche
la Vita prosciugava al folle e inerme
prode guerrier che alle schiere inemiche
spirando si mutava in stolto verme,
e brindavan contenti i gran sovrani
degli invitti e seren, crudel Germani;

e come allor sognai, ne sogno ancora
le germaniche nenie al fior del vischio,
e al labbro che del sangue n’assapora
del vento eterno or l’orribile fischio,
e in affràlite brume e in Notte mora
e d’una pugna insana al truce rischio
tinte di cruore e d’oro e poscia d’ambre
ne veggo l’egre lame un dì sicambre.

Ma ancora ne recordo or d’altre nevi,
e ‘l sentier del gentil pattinatore,
e le discese valli, e l’albe pievi,
e ‘l vento al festeggiar conciliatore,
e i ghiacci in tra’i torrenti e ombrosi e grevi,
e un appassito e ghiacciato e bel fiore,
e alle selve e dappresso i maëstrali
la selvatica caccia a’ vil cinghiali,

e i falchi sibilanti e i negri tordi,
e ‘l cinguettante e ferin pettirosso,
e gli stornelli al gelo e a’ miei recordi
l’orizzonte montano al ciel commosso,
e i nembi alpini e freddi e tetri e sordi
che temprâr ghiacci e insani e fieri addosso,
e tai membranze e in quest’alba ne veggo
e a cantarle alle nubi allor mi seggo.

Ma or nostalgicamente al ciglio un pianto
di proseguir ancor mi proïbisce,
sicché qui si tramonta questo canto
che al cor mi si lamenta e mi ferisce,
e ‘l montano ruscel che ammiro intanto
forse contento e pio mi compatisce,
e alle cime in memoria e qui cantate
sempre ne son, dassenno, ‘l sacro Vate.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Gennaio AD MMXV  

domenica 4 gennaio 2015

La Fanciulla del Reno

Una fanciulla misera
all’onde tremule
ansia giacea del Reno
a spenta sponda,
e in ciel la sera cerula
coprìa co’ un zefiro
la gemma del suo seno,
la chioma bionda.

Mesta mirò l’estatiche
del rivo l’àlighe,
e si sedea in su’un scoglio,
e all’orizzonte
i guardi volse a’ nugoli
che serpeggiavano
intorno al bosco spoglio
e a un tetro monte,

e all’acque fredde e in murmure
i piedi candidi
scalzi posava, e in mano
tenea una cetra,
e la sfiorava - in attimi -
di cieco spasimo,
e l’eco andò lontano,
e in furia all’etra.

Vestìa di perle morbide,
di lapislazzuli,
e braccial d’ametista
e di conchiglia,
e i pepli si scendevano  
scomposti e limpidi
di sotto a’ spalle, e trista
polve alle ciglia,

e l’onda oscura e gelida
e inesorabile
a lei inondava i lembi
a’ gambe e al ventre,
e la Luna che pallida
s’ergea tra’ lividi
del ciel notturno i nembi,
e queta - e mentre

coprìa ‘la di solletico
l’arpa de’i gemiti -
scorgea la pelle ignuda,
e l’anca etesia,
e i fianchi in folli brividi
e l’inquietudine
che al petto andava cruda,
la Sorte cesia.

Così nel vespro ‘l vergine
seno e pio e giovine
gemeva appen coperto
d’un lembo d’acque,
e gran di sabbie seriche
tenea all’amabile
senso d’un core aperto
che mai si tacque,

e quivi or svelti gli aliti
del spiro in turbini
andavano irrequieti
siccòme ‘l mesto
lagnar dell’arpa flebile -
vento ineffabile -
intorno a’ bei pineti
e al ciel funesto;

e si gonfiava l’animo
di sensi orribili,
ed ella in ansia Notte
si lamentava
e col cantar i fulmini
e l’orbe grandini
al rivo e a’ boschi e a’ grotte
ne richiamava,

e ne godea or terribile   
tra’i tòni e i murmuri
della crudel tempesta
che si fremeva
a’ monti e a’ pini e a’ salici
e a’ tetri frassini,
e non più cupa e mesta
or sorrideva.

Allor la dama al tremulo
zefiro funebre
alle Norne inneggiava
e al reo Valalla,
e gli spettri da’i tumuli
e l’ombre tragiche
lieta resuscitava,
e scialba e gialla

l’arpa dorata a un fulmine
ergea e alle formide
posse dell’empia Stiria
e pur del Reno,
e in su’ lei lampeggiavano
gli Elementi orridi,
e d’un’alma Valchiria
un vil baleno,

e l’onde allor s’ergevano
e seppellivano
le ripe e i calli e gli orni,
e le betulle,
e i venti lamentavano
con voci stridule
di battaglieri corni
e di fanciulle,

e l’eco spaventàvasi
nel folle turbine,
falciò la Furia i funghi,
e i spenti fiori,
e lamentava l’etere
in tristi palpiti
al suol de’i Nibelunghi
e in rei bagliori,

e presso i campi funebri
ormai i cadaveri
nell’acque fûr ossami
e polvi antiche,
e spettri ne portavano
Valchirie ignobili
qual mietitor fogliami
e bionde spiche;

e pur la donna in fascino
dell’onde al baratro
più volte ne discese,
e sopravvisse,
ed ella stava fradicia,
allegra, energica,
e l’arpa e braccia tese
ai cieli affisse.

Cantò d’una crisalide,
d’un’amadriäde
che un dì n’amò un umano,
un nobiluomo,
e che tradita sèppesi
e che inquiètavasi
e ‘l cor del drudo vano
mutò in atòmo,

e della Vita al limite,
d’un rivo al valico
eterno udì or dolore
e pianto infame,
e sempre ‘la gemevasi
poiché inspiegabile
non poté aver l’Amore
com’altre dame,

e d’ora e innanzi e misera
odiava gli uomini,
ed ella fu Lurlina[1],
donna del Fiume,
e visse miserabile,
e mesta e timida,
ignorata e meschina
in fin dal Nume;

e intanto l’acqua ergèvasi,
i ciel grondavano,
la Notte rosseggiava
d’ansie saëtte,
ed ella lamentevole
ancor gemèvane,
e ancora ne inquietava
anche le vette.

Ma d’un tratto in sul rapido
scoglio balzavasi,
e svelta ‘l peplo sciolse,
e ignuda n’era,
e al suo - dinnanzi al fascino -
l’acque quietàvansi,
e un balzo al Reno volse
e all’onda in cera,

e nuotando in tra l’àlighe
ne scorse i nugoli
tosto placarsi, e intanto
al labbro fiero
men atroce lagnàvasi -
anzi, più flebile -
in fiore un dolce canto
al vespro nero,

e all’onde fresche e tremule
e quete e limpide
e in un bagno di Luna
andò a’ fondali,
e ripeteva andandoci
in lieti spiriti
e in mezzo a Notte bruna -
placate l’ali -

che vendicata omai
ella fu… ella medesma
la mesta Lorelei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Domenica IV Gennaio AD MMXV




[1]  Altro nome con il quale si può indicare la leggendaria Lorelei o un’altra ninfa la cui storia è simile a quella della celebre sirena del Reno.