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giovedì 27 novembre 2014

Corona di Sonetti epici - Sangue e Tormento

Sen rugge la furia d’un’empia tempesta,
e splende la Luna nel cielo notturna,
e fiero un certame in sul Reno si desta,
e ‘l sangue e gli umori raccoglie nell’urna,

e trista e selvaggia e meschina e funesta
sen sta una ghirlanda che è taciturna,
col vischio è intrecciata, terribile e mesta,
n’aspetta funerea la tomba dïurna;

e un bruto guerriero n’innalza la scure,
del lasso rivale colpisce la gola,
ne chiama alla pugna dall’orride alture

un corno furioso che uccide una viola,
e ‘l calle s’inebria di scarne sventure,
colui che si salva fia un’anima sola…

e va la carola
del bardo ch’ai morti nostalgico inneggia,
e un nembo di Morte gemendo lampeggia.

D’Odino la gloria si veste di spade,
di Dönner rosseggia l’infausto martello,
i fiumi e i torrenti, l’ombrose contrade
ne tengono fulvo di lapidi ‘l vello,

e i granuli biondi dell’aride biade
si sanguinan acri, ne strilla l’augello
di queste tragende, e un indomito invade
un’avida terra, un eroico drappello,

e vanno le spade le lòriche a urtare,
l’usbergo si scioglie alle scuri sì ardite,
di cruore sen scorrono l’acque d’un mare,

qual fiori mietuti, si spengon le Vite,
e l’ultimo prode desidera orbare
di spiro e di speme le schiere smarrite;

e muor l’aspra lite:
di sangue e di teschi son colme le grotte,
dell’arse capanne scintilla la Notte.

Sen riedono invitti, di pelli vestiti,
ne tengon i prodi le formide spoglie,
intorno ai lor fochi n’ascoltano i miti,
un bardo divino trionfale li accoglie,

e i cani irrequieti, e i figliuoli assopiti
salutano sozzi d’umori e di doglie,
ne bevono fieri i vinelli un dì orditi,
d’un salce e d’un vischio ne mangian le foglie,

e spremono lagrime ai nobili estinti,
ne mondan le lame dal collo squartato,
ne irridono allegri gl’immobili vinti

che in pugna subirono l’ultimo Fato,
e veggon la Luna da’i steli discinti
de’i fiori notturni, lo stral indorato;

e sta inargentato
un bosco ch’è freddo di pruni e betulle,
e vittime e nòttole n’hanno le culle.

Frattanto gli spettri combattono ancora,
le lance spettrali trafiggono ‘l vento,
e prima che giunga novella l’aurora,
pel campo de’i morti s’irrora un lamento,

e fere la spada, la scure s’accora,
s’infuria e si gela l’aëreo elemento,
e cade ‘l guerriero e fatal lo divora
degl’Inferi ‘l Divo ch’è re di tormento.

Si lagna la salma che spira irrequieta,
l’estremo sospiro nel vento svanisce,
coll’arme sen vola alla funebre meta

del sonno perenne che ovunque colpisce;
e i spettri l’accolgono, non hanno più pièta,
e d’avida Morte d’eterno perisce…

e ‘l cor suo ruggisce,
e mira gemente pe’i nugoli in suso,
e sogna al sepolcro uno stuolo confuso.

Allora s’espande ‘l lamento d’un corno,
la Notte lampeggia ferale e iraconda,
i nugoli tònano e l’eco d’intorno
calpesta - di lagne - di sangue quest’onda,

e viene una donna, di vischio n’ha adorno
il polso guerresco e la chioma ch’è bionda,
ne tiene alla destra, fulminea qual giorno,
la lancia feroce, crudel, furibonda;

e sella un destriero che s’erge alle stelle,
d’usbergo n’ha ‘l seno, n’ha l’elmo ai capelli,
la seguono tosto l’eguali sorelle

che spargon terrore perfino ai ruscelli,
e sono fanciulle e terribili e belle,
e giovini e bionde dai negri mantelli…

e sembran augelli,
e mòvono ratte ai defunti guerrieri,
le ciglia fian dolci, ma i guardi son fieri.

I monti innevati rispondono ai canti
che queste Valchirie ne fan cogli scudi,
ed esse sorridono ai gemiti e ai pianti
de’i giovini prodi che morti son crudi,

e vanno in tra’i nembi de’i biechi adamanti,
ne veston le lòriche, gli elmi son rudi,
e corrono triste, proseguono avanti,
i fianchi n’han lugubri, i piedi son nudi,

e cantano nenie del vento in sul fischio,
percorrono i tòni del Nume adirato,
ne bevono intrugli di rorido vischio,

ne scagliano lampi di cener dorato,
e balzano insane, non cale mai ‘l rischio,
son posse dell’Infero cupo e infocato;

e ‘l spir esalato
de’i morti ne prendono come trofei,
e lodi di guerra ne fanno agli Dei.

Allor i cadaveri s’alzan spettrali,
ne sembrano nebbie che forme han umane,
e i corni s’impazzano e sono ferali,
e copron le vette - perfin più lontane -

e l’ansie Valchirie gli accolgon fatali,
e sono pietose e cherubiche e vane,
ne gridano ultrici le lodi gioviali
che della vittoria son verba sì arcane.

Ma sta una Valchiria che piagne in segreto,
che l’alto Vallhalla in mister maledice,
il cor di tal femmina giace irrequieto

chè geme all’amato, un trafitto infelice;
e colle sorelle svanisce e all’inquieto
lagnarsi del prode una prece ne dice,

e più non le lice
un’orrida Vita ch’è priva d’Amore,
ai piè del destriero, v’è un mar di dolore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XXVII Maggio AD MMXIV, Revisionata in Giorno Giovedì XXVII Novembre AD MMXIV

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