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mercoledì 26 novembre 2014

Poemetto romantico - Il Martirio di Santa Giovanna d'Arco

Era Notte, e tacea lo sguardo in pianto
di questa dama, giovin prigioniera,
e nell’oscur del suo giaciglio affranto
inginocchiata stava e colla fiera
catena a’ polsi e a’ piedi, e un mesto canto
al Ciel strillava e bianca come cera,
e d’in su’ un finestrel splendea la Luna
in sulle pietre della cella bruna.

Come candida bruma questo strale
scendea gentile e lieto a’ sassi grezzi
del pavimento e del muro ferale
‘ve degli ossami giacevano i lezzi,
e questo raggio n’era pio e immortale
nell’orror cupo, un fior di molli vezzi;
e fuor strillava oscena una civetta,
cantando a’ scarni Inferni e alla vendetta.

Or tra questo cantar e questo insulto
la scialba Luna in Notte n’era alterna,
e nel suo cupo manto e nell’occulto
d’intorno ‘l nembo gemea una viverna,
e col foco represso in reo singulto
pendea dall’alto - in cella - una lanterna;
e sotto ‘l volto di questo bel lume
una fanciulla stava a orar il Nume.

Ella vestìa di bianche lane e avvinta
e prona giacque a dir preci al Divino,
le man congiunte al petto e alla discinta
spalla n’ebbe, dannata a reo Destino,
e la pupilla avea di Morte pinta,
onde finìa precoce ‘l suo cammino;
e al sòn mellifluo e dolce or d’una lira
celeste attese ‘l foco della pira.

Cupo e muto l’avel di questa pietra
di Notte orrenda e folle la copriva,  
e come un strale che indarno penètra
l’orba e candida Luna la feriva
chè dessa stava terribile all’etra
come un ossame, di tomba una riva;
e la fanciulla fu la pia Giovanna
e n’attendeva l’estrema condanna.

Dicea ‘l suo labbro in spasmo le preghiere
de’i morti inermi e pur dell’agonia,
e all’occhio suo n’apparvero le sfere
e i Ciel, le stelle e del Divin la via,
ed ella che fatal fu un cavaliere
piangea supina alla vergin Maria,
e lenta e santa e casta un pio rosario
urlava muta a un tristo reliquario.

Allor sognava i campi ‘ve piccina
iva a solcar la terra e ‘l biondo fieno,
il cardo e ‘l mirto, e la rosa e la spina
e del ginepro l’amato veleno,
e fuvvi un giorno antico ‘ve divina
or chiamava la Sorte ‘l suo bel seno,
ed ella n’ebbe una sacra visione,
la Francia e ‘l rege, i Cieli e la Passione.

Ansio ‘l ciglio di questo sogno beava,
e delle spade atroci e degli ostelli,
e in tra le nebbie notturne ammirava
in sul vagheggio le pugne e i duëlli,
e de’i trabocchi i sassi ne scrutava
come in cielo ‘l volar de’i negri augelli;
e poscia scorse l’infame Borgogna,
e ‘l tradimento, e la prigion, la gogna.

Sognò pregando in spasmi i fieri assalti,
e l’alte torri e i ponti e i cavalieri,
e gl’Inglesi crudel che dagli spalti
scagliavan dardi di Morte forieri,
e delle pugne i formidi ribalti,
e mai compiuti, i saccheggi sì altèri,
e ‘l dardo insan che la colpì in sul core
‘ve la salvò d’Iddio l’eterno Amore.

Ora tremava, e senza sonno giacque,
e smorta e bianca e inquieta in sulla cella
posava ‘l spento guardo, e poscia tacque
come spettro fugace, e a quella sella
che usò cotanto ripensar le piacque,
e nella Sorte orribile e rubella
pregando prona le nuvole e Iddio
alla sua terra dicea estremo addio.

Ma nel frattempo, in vicin monastero,
cantâr i frati oscuri ‘l Miserere,
e spettri orrendi e rei d’un cimitero
sclamavan cupi l’istesse preghiere,
e tristo andava e all’ombra d’un gran cero
contra la dama santa l’Avversiere,
e come un spettro ora la provocava,
e pel suo nome dolce la chiamava.

Era come un fatal chiaror di brume
in sul mador di questa Luna bianca,
e qual nottola n’ebbe l’ala implume
e la bocca feroce e trista e stanca,
e ne irrideva iniquo ‘l santo Nume
come ‘l ghigno di belva che n’abbranca,
e alla pulzella ‘l guardo torvo affisse
e sibilando poscia - e istrione - disse.

«Giovanna, ascolta!» sclamava ‘l Demonio:
«A me t’inchina e salva avrai la Vita:
come una fresca brezza in sullo Iönio
poss’io placar la fiamma e far sopita!».
Ma ella rispose: «Vattene, e ‘l tuo conio
alla mia Sorte mi lasci smarrita!»,
e allor l’infame urlando ne svaniva,
e col suo grido la donna colpiva;

e costei ne spasmava, e a’ questi gridi
a terra cadde e ansiosa, e Iddio pregava,
e sol poiché n’avea gli acciar infìdi
la sacra Croce al petto non segnava,
e ‘l reo Demòn d’in su’ suoi terrei lidi
crudo e bieco e ferino ancor n’urlava,
e intanto ‘l coro de’i Domenicani
cantava i salmi da’i chiostri lontani.

Più la fanciulla giacea in sua paüra,
e come larva n’era e si gemeva,
e del villaggio suo tornò la cura
e delle ripe amiche che perdeva,
e invan la tomba in mezzo alla Natura
a’ Santi, a’ Nembi e a’ Ciel tosto chiedeva,
e un stral di Notte le baciò la bionda
chioma pallente, e casta e pudibonda.

Stesa al suol ne pregava, e sue catene
vincer bramava sibben fosse vano,
e n’era assorta e strutta dalle pene
che le serbava degli Angli ‘l sovrano,
e malediva dell’Anglia l’arene
e di Borgogna ‘l duca e ‘l capitano,
e rimirava l’ansie e ree battaglie,
corti i capei e ricolmo ‘l sen di maglie.

Tonò ‘l cannon funereo e al baluärdo
correan i prodi e altèri in su’i Normanni,
e smorti questi fuggìan ed Edoardo
contra la dama ne tramava danni,
e in tra le feste ‘ve sonava ‘l bardo
ei ne commise terribili inganni:
corse fiera la dama alla Borgogna,
e qui tradita fu e n’ebbe vergogna.

Or la pulzella in codesti pensieri
ne passava la Notte estrema e negra,
e vani i freddi sogni e i cavalieri
erano sempre e la tenzone allegra,
e ancor del Male i gridi atroci e fieri
tornâr funesti all’alma sua ottusa, egra;
e questa volta in sembianza di donna
l’empio Demòn le provocò la gonna.

Come bella e melliflua e pia fanciulla
apparve un spettro nobile vestito,
al velo un fior di docile betulla
e al labbro e schietto e dolce un detto ardito,
e su’ un’impronta di pallido Nulla
or n’aleggiava per magico rito,
e palesando a Giovanna un reo letto
sclamò gentil aggrottando l’aspetto:

«Quivi si dorme ‘l rege Carlo, e imene
invan n’attende da sterile sposa.
Spezzar saprei le tue crudel catene
se fossi tu del re la dolce rosa.
Ore di lusso, e molli e pie e serene
n’avrà colei che con costui si posa;
tu saresti felice e più divina,
di Francia spada santa, e poi regina!».

Ma la pulzella ‘l guardo al spettro volse,
e gridava severa un gran scongiuro,
e questa larva in petto allor lo colse
come un dardo scagliato d’alto muro,
e tosto e in beffe nell’aër s’avvolse
come nebbia fatal nel cielo oscuro,
e Giovanna lodava ‘l santo Amore
che ‘l mondo regge e i Ciel, Cristo Signore,

e sempre bianca in volto udiva ‘l coro
che d’in sul chiostro andava e salmodiante,
e pel letto ferin e cupo e moro
della prigione ne stava tremante,
e rosso come un foco e come l’oro
il labbro suo piagneva ed era orante,
e la Notte spremeva orrendo gelo,
le ragne bianche al muro, e l’occhio al Cielo.

Scorse nel sogno l’antica capanna
e sicuro e fulgente ‘l focolare
‘ve un prete un dì chiamòlla - e pia - Giovanna
e della Patria amena ‘l sacro altare,
e i fior de’i boschi amici e l’orba canna
del malto e l’orzo, e ‘l Tempio tutelare,
e in mezzo a’ fanghi ‘l dorato frumento,
tra le spiche un passaggio e ‘l quieto vento,

e vide ‘l gregge stanco e i suoi pastori,
e i rigàgnoli freschi e i bei prunalbi
onde allegri e sereni i lor cantori
cantavan odi a questi armenti scialbi,
e sotto ‘l nembo, del Sole gli ardori
posavan dolci in su’i pii campi falbi;
ed ella poscia orava assorta e ancora,
ed era presso ‘l venir dell’aurora.

Cantava ‘l gallo ‘l fiore antelucano,
e più tremava ansiosa la pulzella,
e poscia un’ora da Domenicano
Satana ‘l crudo ancor tentò la bella.
Ei, infatti, schiuse ‘l porton - chiave in mano -
e mentre in ciel splendeva la sua stella
volle ingannar la mesta in confessione
presso l’istante della sua Passione.

Or dassenno ei pareva un uom di Fede,
‘l manto negro e lungo e ‘l capo raso,
la Croce in man e ‘l sandalo in sul piede,
e in lui nulla sembrava fosse invaso;
ma non si puote ingannar mai chi crede
quando si vien dall’infernale baso,
chè questi adesso n’ebbe l’ardimento
da chieder Morte oppure ‘l pentimento…

e, infatti, ‘l bieco e ‘l reo benediceva
e la Scrittura tenea in man negletta,
e alla fanciulla preghier ne diceva
con voce orrenda, e bruta e maledetta,
ed ella udiva e perplessa taceva
e ‘l fraticel l’era un’ombra sospetta,
ed ei sclamava: «Se ti fai pentita
confessa tosto, e salva avrai la Vita!».

Ma Giovanna ne tacque e nulla disse,
e a lui davante ‘l Ciel pregava - e solo! -
e poscia al Mostro ‘l guardo santo affisse
e riconobbe ‘l sovrano del suolo,
e dianzi a lei che poco alfine visse
questi irridendo ne spiccava ‘l volo.
Allora un raggio di Sole n’entrava
e la pulzella di Luce abbracciava.

Ella stava tuttor inginocchiata
e coll’occhio scrutava ‘l ciel schiarito,
e parea assorta e quieta ed estasiata,
e molle l’era ‘l lembo del vestito,
la chioma bionda e bella all’ombra guata
del spettro istrione appen spento e smarrito;
e santi e belli e casti stavan gli occhi
del campanil al sonar di rei tocchi.

Sognava i dolci fior del suo villaggio,
e l’ampie pievi e la chiesetta antica
‘ve un dì chiamata fu a tanto coraggio
mentre giacea in sul grembo d’una spica,
e l’aër lieto che nel pìcciol maggio
andava a’ campi d’una rada aprìca,
e questa imago al finir della via
le parve allegra e sana e pia elegia.

Or della cella l’antro si dischiuse,
e sgherri d’arme n’entravan furenti,
presêr la dama pelle chiome sfuse,
l’alzâr e questa ne avanzava a stenti,
e l’orrende catene e brute e ottuse
n’eran cagion d’orribili tormenti,
e dell’Anglia funesta ‘l segno amaro
di costor sen giacea in sul torvo acciaro;

e la donna tra’ braccia avvinta e stretta
tremava tanto e le sfere implorava,
e tra quest’oste terribile e gretta
al suo supplizio di foco n’andava,
e di quest’Angli n’era la vendetta
che dalla Chiesa pur trista tonava,
ed ella giunse alfine in sulla piazza
tra un stuol d’armati e di picca e dell’azza.

Salì la pira e la legâr a un legno -
le man congiunte e pie e dietro l’ischiena -
al collo un laccio e un ferro e un drappo indegno
e ‘l boja infame a preparar la pena,
e or venìa un sacerdote, e ‘l santo segno
posò alla fronte smorta e sanza lena;
e mentre un bruto n’alzava la fiamma,
ella pregava al padre e alla sua mamma.

Divampava l’incendio, e gli aspri fumi
velâr la dama di nebbiosi spasmi,
e i legni in foco e di pruni e d’agrumi
divènner fiamme d’infernal fantasmi,
e della pira in sull’alba i rei lumi
n’andâr furiosi co’i loro miäsmi,
e la fanciulla bruciando pregava
e ‘l nom di Cristo soffrente gridava;

e la folla sen stava a queste verba
or spaventata, e or lieta e divertita,
e i tronchi, e i ceppi e i legni e ‘l fieno d’erba
cangiâr in foco, e uccidevan la Vita,
e poscia un’ora in sulla pira acerba
la pulzella non fu chè incenerita.
Morì l’incendio; e tra’l cener d’orrore
un osso in sangue e un non bruciato core.

Ma all’alma santa s’aprìa ‘l Paradiso,
e lieta n’era e immemor de’i martìri,
bianca vestita come un fiordaliso
co’i piedi in sulle tinte - e pur! - dell’iri,
e ne stava lo sguardo al Ciel conquiso,
eterno e fresco stral di bei respiri.
Ave, oh Pulzella di Francia! Oh Signore,
Re della Terra, e Messagger d’Amore!

Ave! Ave! Ave!


In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  



Venerdì XXX Maggio AD MMXIV

Massimiliano Zaino di Lavezzaro


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