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domenica 5 dicembre 2021

Il Presepe del Sagrestano

Don Abelardo lo guardò torvo, con quel talare nerissimo e quel corpicino magro, con il suo sguardo di vecchio arcigno e maledetto e con quegli occhi lampeggianti di latinorum e quella barbetta ispida da Giuda; poi accennò un sorriso, macché, un sogghigno freddo come i ghiacciai e infine, presolo ben stretto per le spalle con le sue mani scheletriche, lo scrollò.

«Sagrestano d’Inferno! Ignorante.. villano che non siete altro! Siamo in ritardo.. vecchio farabutto da forca; e voi, non avete fatto ancora nulla.. nulla!».

«Padre, La prego.. mi sta stritolando l’ossa!» supplicò il poveraccio con voce tremolante.

«Non abbastanza, vecchio idiota! Non abbastanza!... Per tutti i diavoli del vostro dannatissimo Inferno, entro questa sera lo voglio finito.. avete capito? Finito!».

«E sia, reverendo! Ma mi lasci, per favore.. questi scrolloni mi sconquassano la schiena. Insomma.. non abbiam.. non ho più una certa età».

«Allora, somaro che non siete altro, asino impareggiabile, ragliatore schifosissimo.. se non ne volete degli altri e in più qualche sberla in testa e sul muso andate sùbito al lavoro.. e lasciatemi in pace, in canonica, con il mio breviario!».

Don Abelardo mollò la presa e, dandogli un ultimo sguardo arcigno, come per dire che non era finita lì, se ne andò via strascicando il talare per tutta la chiesa, tanto aveva il servo e la perpetua che gli pulivano perfino i piedi.

«Ahi, che male all’ossa! E tutto per un presepio!... E che? Mi poteva andar pur peggio; ma certo me n’andrà se non obbedisco, quello le botte al muso me le dà davvero. Poveraccio! Picchiar un asino, si può fare. In che guai mi ficco e per di più con questa età… Lo diceva il figliuol mio “Babbo, non far da sagrestano a questo qua” e io, davver somaro, non ci ho dato retta sicché a volte mi chiedo se non stia servendo il diavolo in persona… E meno mal che non sente mormorare e che mi tengo tutto dentro; e c’ha pure una gran fortuna, il reverendo! ché se n’aveva un più giovane di me costui gliene tirava di belle a lui. Ma no, picchiare un prete? Non si può… Vecchio idiota, sta’ zitto e lavora!.. Pensa!... Ecco, qui dentro ci son le statue. Iniziamo!».

Così pensando il gran somaro era ben presso a delle casse di legno. Il baldacchino e il muschio, per fortuna, erano pronti, ma tutto mancava.. tutto!... Alzò il coperchio di una cassa, prese in mano una statuetta qualsiasi e senza nemmeno vederla..

«Ehi, nonno, non farci caso!” bisbigliò una voce di donna da quella statua… E quel somaro a momenti la infrange tutta con un gran “Sacramento!” che se, alla fine, non avesse avuto l’accortezza di riprenderla all’istante, sarebbe andata in mille pezzi e allora sì, che sarebbero state le botte sul muso.

«No! No! Non è possibile.. non può essere! Che io sia davvero rimbambito?” poi gridò «Ehi, chi c’è in chiesa?... Non è ancor ora della Messa!». Silenzio.

«Dai, su’, non prendertela! Anzi, grazie che m’hai ripreso, sennò finivo in pezzi» rispose la voce di prima.

Il sagrestano scoppiò a ridere: «Ma davvero son sì rimbambito?... E pensar che volevo essere meno mammalucco di quel che si diceva!».

«Ma no, nonno! Non sei ancora andato fuori.. non del tutto!».

«Ma, insomma» chiese quegli guardando la statua «chi diavolo siete?»,

«Come chi sono?... Non si vede?».

«Una statua».

«No, nonno! Guarda bene.. guardami!... Non vedi le maniche su, fino alla spalla, e la scollatura alla camisa e le caviglie ignude e i miei riccioli ai capelli sì che sembro una zingarella?».

«Siete dunque una zingara?».

«Sì e no! Io fui nei postriboli… Ah vedo dai tuoi occhi che non sai che cosa sono questi qua che ho detto.. io fui del lupanare… Insomma, hai capito.. come dire, una buona donna».

«Sacramento!» esclamò il sagrestano che, tenendo la statuina con la sinistra, si fece il segno della Croce.

«Ehi.. non sono mica il diavolo!».

«Ma se avete appena detto che..».

«Facevo un certo mestiere.., E beh?».

«Nulla.. e che.. insomma.. non siete una santa… E mi chiedo perché siete qui, in una chiesa».

«Davvero pensi che solo i santi vadano a pregare?».

«No.. è che.. non so.. perché in una statua? Ora le statue parlano?».

«Ma non sono una statua, nonno!... O meglio, lo sono adesso.. prima no… Prima ero donna in carne e ossa e facevo sì quel mestiere che ti scandalizza. Poi è successa una sventura e sono morta e ho pensato “Non posso presentarmi al Signore così, senza preavviso!”. Dovrò trovare un modo per chiederGli scusa, no?».

«Sì, sì, dite bene. Ora, però, perdonatemi, ma visto che c’avete tanta voglia di parlarmi.. che v’è successo?».

«Oh nonno! Son felice che tu me l’abbia chiesto, anche se sono triste. Ebbene, nel mestiere capita di innamorarsi per davvero.. e le cose, tutto sommato, filavano dritte. Poi un bel giorno arriva come cliente..».

Un sonoro urlo proruppe da un’altra cassa, questa volta una voce maschile e robusta «Sta’ zitta, vecchia strega!».

«Ohibò, c’è da impazzire.. un altro ancora!» esclamò il sagrestano tra il colpito e il terrorizzato «Ma no.. non ascoltate quest’altro, povera donna… Dite, che fu?».

«Fossi in te non direi niente!» insistette l’altro. Allora il sagrestano andò a tirarlo fuori e n’apparve così la statuetta di un vecchio avvocato, inghirlandato per bene tanto da sembrare un Ministro, macché, il Re stesso.

«Oh di nuovo te, vecchio bavoso!» proruppe la donnicciuola «Tu m’hai rovinata.. e per bene, anche!».

«Ma perdonatemi, poverella» chiese quel somaro «Eravate innamorata di costui che manco vale mezza lira?».

«Come osate?» urlò l’avvocato «Chi siete voi per dire questo? Ben lo vedo.. uno straccione, un cencioso vecchio e rimbambito.. un somaro di vecchia data che, se non fosse per le botte che vi dà il reverendo, vi farei prelevare io e bastonare in pubblico… Che pezzente! Dire così di un avvocato.. e di quale avvocato!».

«Già: di quale avvocato!» chiosò la donna «Di quei che non pagano le prostitute e rovinano loro i veri amori! Costui, il pover nonno, non sa nulla, ma io sì, ché se non fossimo in chiesa ti farei arrossire per bene, magari davanti ai tuoi patetici impiegati… Sei pazzo, nevrotico, folle e impenitente!... Oh se almeno tu andassi in giro vestito sporco come sporca è la tua Anima! Saresti ben tu lo straccione di turno».

«Lesa Maestà! Lesa Maestà!» ingiuriò l’altro «Accusare me di simil cose?... Ma che?.. siamo matti?... Svergognarmi così in pubblico?... No! Giammai! Tu andrai dritta all’Inferno e il tuo nuovo amante ti seguirà presto… E voi, orripilante essere non umano» disse rivolgendosi al vecchietto «rimettetemi dentro.. non voglio più avere a che fare con voi due… Via,, sciò!».

Il sagrestano, seppure sconcertato, ubbidì e ubbidendo sentì qualcuno che dentro una cassa si lamentava, piangeva e singhiozzava.

«E adesso costui chi sarà?» andò a vedere e ne estrasse un bel giovinotto, ma che continuava a lagrimare.

«Oh Edoardo! Edoardo!... Sei proprio tu?» domandò la meretrice.

«Sì, son io, oh crudele! che sei causa del mio pianto e della mia fine.. son io, quegli che è stato da te rovinato e gettato all’ignominia della disperazione e della morte.. io! io che pensavo che tu fossi una fanciulla onesta e che tu fossi sincera nel rivelarmi il cuore tra quei dolci abbracci e quegli accenni di baci che più casti di così non sapevo cosa ci potesse essere, se non il volto della Vergine stessa che, per colpa tua, oh disgraziata, non posso più vedere. Sì, son io, il tuo Edoardo.. tuo? Macché.. il tuo raggirato Edoardo, il tuo drudo da quattro soldi al quale non osasti chiedere nemmeno mezza lira per averti fatto da bracciere quella sera, a teatro.. oh perfida!... Che sia maledetto il giorno in cui ci incontrammo! Sembravate un Angiolo.. ma sei Satana in persona… E che? Aspettavi forse di spennarmi per bene? Di avvelenarmi col tuo talamo fasullo?... Ebbene, sì.. m’hai avvelenato ugualmente sì che davvero di veleno di mia mano dovetti soccombere.. e mi piangevi?... E lagrimavi?... No.. no.. nulla! Altri clienti passarono tra le tue sante braccia.. e adesso? Ti fingi forse la Maddalena?».

«Oh Edoardo! Edoardo! Se fui con te crudele quanto crudelissimo sei tu ora con me!... Davvero dubiti?... Ebbene, oh ingrato! Io t’amai dassenno e davvero in te vidi una liberazione… A che dirti tutto? Era necessario?... Non mi avresti più amato e tu lo sai bene. Oh povero Edoardo! Così ti avvelenasti?... Se solo fossi vissuto.. avresti visto la tua povera fanciulla essere arrestata e finire in prigione e a stenti i suoi giorni, per colpa di quel dannatissimo! Oh Edoardo.. lo vidi.. lo sentii poco fa.. ecco di chi sei vittima! Io ti amo.. ti amo.. e come vorrei essere in Paradiso con te!... Ma siamo quaggiù, di nuovo… E se chiedessimo scusa al Signore?».

«Oh crudele! che in più non comprendi!» esclamò il giovinotto «Quello che è stato fatto è irrimediabile.. per te? qualche speranza. Per me? No. Vedi.. sono ancora tremante come quando bevvi il veleno.. porto ancora in mano quest’anello.. e perfino il prete non mi celebrò il funerale».

«Per forza, siete un suicida.. un violento contro sé stesso, una di quelle teste calde da romanzo» chiosò un’altra voce maschile donde sùbito il sagrestano ne cavò fuori la statuina d’un fraticello «Voi giovani d’oggi, dalla testa bacata e che vivete in un mondo di fiabe per femminucce. Uccidersi? E per di più, uccidersi per una della peggior schiatta di Eva?... Voi siete matti!... E, signorino, dite un po’, volevate pure il funerale?... Se lo aveste voluto, sareste andato in guerra e, forse, ammazzato da un Turco o da qualche altro assatanato, benché fosse di vostro desiderio, si sarebbe chiuso un occhio… E mi danno ragione anche i vostri zii che potrete vedere insieme a me, nelle altre statue della mia cassetta».

«È vero!» dissero in coro delle voci che poi quel somaro di sagrestano vide provenire da delle statuette elegantissime.. e quel somaro stava davvero impazzendo!

«Ecco! La miglior borghesia, il Clero stesso, Iddio vi accusa, oh scimunito d’un giovine!... Volevate il funerale? Non dovevate amare persone indegne… E ora, silenzio, lasciatemi alla mia preghiera!».

«Hai sentito?» domandò il giovanotto alla sua fanciulla «Hai sentito quanto t’amavo, oh ingrata?... Ed ecco, io ti rendo l’anello che...».

«Che avevi disgraziatamente comprato da un povero venditore ambulante ebreo» disse immediatamente una voce nasale «Che poi è stato preso dai soliti sgherri, accusato di rivendere oggetti rubati e bastonato a sangue fino a farlo morire… Non che io non abbia mai rubato nulla.. facevo la fame. Ma nel caso di quell’anello la cosa era davvero diversa». Ne uscì allora la statua di un vecchio rabbino «Voi cristiani, considerate! Che siate o no peccatori la vita dura a noi, però, la fate, eh?... E quando c’è da bastonare chi altri se non l’Ebreo?... Vendevo un po’ tutto, alcune cose erano davvero rubate.. qualche frutta, un po’ di fogli… Ma quell’anello no! Mia mamma diceva “Vendilo a chi sa amare davvero!” e a voi l’ho venduto… Com’è andata a finire? Male vedo, e mi dispiace. Ma l’anello ormai, o giovinotto, è vostro. Non è il caso di fare i patetici anche dopo la dipartita».

E la discussione andò avanti ancora per molto e ogni tanto saltava fuori qualche borghesuccio immacolato che gridava a qualche scandalo, altre volte qualche povero ladro; e i due innamorati, nel frattempo, continuavano a scambiarsi accuse di ingratitudine e, insomma, le solite cose di chi fa pazzie per Amore… E quel somaro di sagrestano stava impazzendo, pensava di sognare e non sapeva più che fare.

Gli accadde anche di imbattersi in un coro di pecorelle, dalle statue guerce e mezze andate, che si lamentarono con lui di qualche brutto macello.

«Noi siamo le anime di poveri agnellini» dicevano «Non già di quelli sacrificati al tempo d’Abramo, ma di quelli sgozzati per farvi festeggiare la Pasqua! E che Pasqua! con la nostra carne!... Felici voi!... E non v’è mai venuto in mente che noi potremmo essere un po’ dispiaciuti di aver vissuto poco e di essere finiti tra i vostri denti?».

E dopo queste povere Anime, apparve ancora quella d’un cane randagio, abbandonato e morto di stento tra la neve e il ghiaccio perché i soliti borghesucci, suoi padroni, non lo volevano più per non so quale cosa, forse mangiava troppo, come se quei soliti borghesucci - i soliti santi - non avessero lire per nutrire un povero cagnolino.. o forse lo avevano abbandonato perché era passato in noia a chi prima lo voleva… Eh sì, gli animali e le persone per certuni sono come i soldi: adesso da ritirare, dopo da dar via.. per far girare non so quale mercato.
E dopo ancora apparve la statua di un airone stecchito, anch’esso morto di fame ché nessuno gli dava nemmeno mezza briciola di pane e, secondo quanto pensava quel somaro di sagrestano, apparve nell’Angiolo della capanna perfino il Diavolo in persona, tanto accusò tutti di essere degli imbecilli nel credere a Iddio. 

Perfino il bue si mise a parlare.. narrando la fatica di lavorare per i campi, a suon di pedate e di bestemmie, per poi finire dal macellaio. Un colpo secco alla gola e via.. non soffriva più. Certo era strano che l’unico a stare zitto fosse l’asino!

Ma il tempo passava e passava.. le ore trascorrevano e il sagrestano non aveva tempo di chiedersi tante cose anche perché non aveva ancora combinato niente, sicché gli venne in mente di far qualcosa per non beccarsi le botte sul muso da don Abelardo. 

Quando finì andò tutto allegro a chiamare il reverendo. Questi, strascicando il suo talare nero, e con una faccia più arcigna di prima, quasi scontenta di non menar botte, almeno sul momento, andò a vedere il presepio e…

«Diavolo d’un sagrestano! Idiota, imbecille! Villano.. eretico, apostata!» gli urlò in faccia con tutta la voce che aveva, riprendendolo per le spalle e strattonandolo violentemente «Che diavoleria è questa?... Una sgualdrina davanti al Bambin Gesù? E che è ‘sto cane del demonio vicino alla Vergine? E questo airone dannatissimo al posto dell’Angiolo?... E chi è quel giovinotto vicino a quella donnaccia e a San Giuseppe?... E poi, tutte queste pecore? Ma le avete viste, rimbambito che non siete altro? Guardate, idiota, come sono ridotte: sono statue mezze rovinate! Qui si fa brutta figura, razza di vipera!... E poi, queste pecore davanti così?... Dove sono le mie statue preferite: il mio avvocato, il mio fraticello, i miei mercanti?... Io vi ammazzo, lo giuro.. siete un protestante.. un luterano.. un Turco del diavolo! Che? avete pur messo un Ebreo?... Io vi faccio a pezzi.. vi rompo tutte le ossa.. eretico che non siete altro!... Svergognare così sé stessi, la chiesa, il Clero, la comunità e il Santo Natale!... Vi caccerò via.. vi farò fare la fame.. rimbambito da manicomio!». Poi lo lasciò e buttatolo giù gli diete due o tre bei pugni in testa «Così rinsavite!... E adesso aiutatemi a servire Messa… Ci penserò io a sistemare questo insulto alla fede cristiana!» e, detto questo, strascicando con quel talare nerissimo, se ne andò in sagrestia.

Il poveraccio, invece, con le ossa indolenzite e con un mal di testa mai provato fino ad allora, si alzò a stento… Guardò San Giuseppe, guardò la Vergine, poi il Bambin Gesù.

«Signore» disse «Ho capito perché l’asino non m’ha parlato: non è ancora morto. Ma quando morirà, lo sostituirò con quel povero randagio!».

Ma nessuna delle statue ormai parlava.. erano soltanto statue.. nient’altro. Quelle povere Anime, compresi il cane, l’airone e gli agnellini, erano ormai in Cielo, cullati dalla Luce del Signore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Domenica V Dicembre AD MMXXI.

Dipinto di Gaetano Previati (1852-1920), Madonna dei Gigli, Tardo-Romanticismo, Scapigliatura, Post-Impressionismo, Divisionismo italiano, 1893-1894. Olio su Tela. Galleria d'Arte Moderna, Milano.



lunedì 2 novembre 2015

Tre Odi di Prosa di un ultimo Poëta romantico

I. Maturità senescente

Selva di pruni, e di pioppi, e di sàlici
con me la sera allùmina, e le spoglie
frasche, e le ignude fronde, ombre di Notte,
e gli irrequieti faggi, e i tetri càrpini,
e queste nubi in sul far della Luna
che viene pàllida
dopo il passàr
del mio meriggio,
come argento àrido,
specchio d’un mar,
dove sta un riccio
che èsule dell’autunno è, e del castagno,
qui, in sulla via che io percorro in affanno,
io rimembrando l’ùltima mia estate,
e sconsolando il cuor nel mio sognare,
e gemendo io di làgrime infinite,
e allor d’indefiniti àttimi, e speni,
perché ‘l so: piàngere
debbo io a’ perduta
mia giovinezza,
il vespro d’ìncubi,
la fonte muta
della sua ebbrezza; e
perché io fantàsima
passeggio e ascolto
fosco silenzio,
tra i scialbi plàtani,
ricordo un volto:
labbro d’assenzio.
E così un altro giorno va a morire,
un dì che ho in meno da vìvere, e Morte,
e Fato, e Tempo d’intorno mi vàgolano,
dove so che beltà non fu che un sonno,
e Idëàle l’Amore, vero il duolo. E
come le Norne ròride
del pianto dei defunti,
e come le mie Sìlfidi
danzanti a’ piè congiunti,
e Villi, e Gnomi, ed Elfi,
fantàsimi dei Guelfi,
io corro a tramontàr.
E questo mio tramonto è una pena
che mi fa inquieta l’Anima, e convulsa
la mente, e bieca la cura, e inaudito
il petto. E per la mia campagna corro
a raccògliere gli ultimi miei fiori. 

II. Il Lamento del Bivacco

E canterò io alle fiamme della Luna,
mesto e perduto, e sepolto in mia Notte,
e urlerà il cuore mio agli astri che muòiöno,
nell’orizzonte oscuro di un Idillio,
e piangeranno gli Elementi indòmiti,
e ombra d’un sàlice
l’orma mia copre,
e il fuoco scialbo,
ombre fuggèvoli,
di Dèmoni opre,
presso il prunalbo.
Non temèr, folle! Non avèr paüra!
Un’ombra ha mai umiliato un uomo? Forse?
Ma canta! Canta! Qui spensïèrando
tu, in vêr la Luna del tuo focolare,
e della tua arpa, e dei sogni tuoi estremi,
màschere vagolanti e sempre inquiete
di Mostri di tue attese, e di Titàni
ribelli ai giuramenti orditi ai fùlmini,
e di questa giovinezza svanita,
e dell’indefinite speni tue!
E io urlando canto; io, ràpsodo
della melliflua Notte, e
del suo sudario fùnebre,
come Orfeo per le grotte
del più lùgubre lupo,
che da un fosco dirupo
qui lamentando ei sèguita
mestamente a ululàr.
Perché è questo che resta: questo dono
maledetto da Dio, la Poësia,
lungo questa giovinezza che muore,
e questo mio tramonto in una Vita
dove è peccato amare, e sognare ancora.

III. L’ultima Rosa dell’Estate

Ripenso: gli àttimi, e i tuoi, e i miei e orbi sogni,
e l’Alpe in fùlmini,
le rugiadose
perdute cime.
La vetta a un tùrbine ululava oscura:
roccioso ràpsodo,
e silenziosa
valle sublime.
E tu? Rosa melliflua, un dì piangevi,
tu prevedendo questo mio tramonto,
e questo mio silenzio, e questa Sorte,
portando tu nel cuore un tuo mistero,
che non volli io discèrnere. E fu un sogno.
Ricordo: i pàlpiti
del delicato
tuo giòvin seno,
che m’era un pètalo
tosco del Fato,
Destìn che temo.
E la Notte sovvenne, e giunse il tetro
sguardo dell’astro di una Luna cupa,
e poscia questo vespro, mi inghiottì
l’alba, e il sognàr mio, e l’ìride
dei tuoi singhiozzanti occhi,
e gli àttimi miei e gli ìncubi,
e il bronzo e i suoi rintocchi,  
l’eco pe’ i mesti vàlichi,
e il cuor a singhiozzàr.
E tu, pìccolo stame, rosa mia,
come il sogno tu fosti, e come il vento.
il più ràpido, e spenta sei alla fine;
e io - folle! - non t’ho mai il labbro baciato,
e nàüfrago in Dio.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro





In Dì Martedì XIX, Mercoledì XX Gennaio AD MMXV

mercoledì 14 ottobre 2015

Che cos'è la Vita?

Una larva è la Vita in un ballo mascherato,
dove sogghigna il pizzo della lince che copre gli occhi,
ora è virile, e ora è femmina irridente,
quando le sue gavotte brindano agli specchi dei fantasmi,
e l’oboe risuonando rapisce l’Anima,
il violino la vizia, il flauto la perseguita,
e alfine arriva il corno che la strappa dal cuore,
come un’eco di tomba che gela l’ultimo respiro.
Le maschere si altercano e si rispondono a menzogne,
e si prendono a braccetto e danzano i temporali dell’orchestra,
e pronunciano nomi, quelli più mendaci e ridicoli,
e scagliano il proprio Nulla nel giuoco delle carte e dei dadi,
dove ogni larva ha il diritto di ingiuriare al duello.
Ma sotto questi pizzi dorati, tersi di ciprie e di ambre,
oltre gli anelli di adamanti esotici e avari, e oltre gli orecchini,
dopo i sorrisi sogghignati dell’Amore e della Passione,
dell’Ira e dell’Invidia, e della funerea lussuria,
c’è sempre un cuore che si chiede profondamente d’Iddio,
e che non si acquieterà in nessun divertimento assoluto,
e all’alba di cento passi di danza e di balletto,
e al crepuscolo irrequieto di altrettanto cento anni
è lì, la Morte, l’ultimo approdo del nostro Destino
che nel nome d’Iddio ci rende tutti veri e tutti uguali.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Mercoledì XIV Ottobre AD MMXV

giovedì 24 settembre 2015

A una Rosa selvatica di Montagna

E mai ti rimirerò, dunque, o mia melliflua rosa rossa dell’estate e…
e mai più i tuoi incandescenti petali, e la tua, e la mia - e la nostra montagna - alta e irridente,
là, dove tra le selve delle vipere del tristo Fato ti mirai per la prima volta; e…
e mai gli occhi dei rosseggianti tuoi e giovanili e dolci stami, e…
e ne mai più e ancora intenderò novellamente quei tuoi profumi di miele,
che discendono dal tuo più gemmato crine, capelli di fiore, e…
e né mai le ambrate e addolcite tue guance fatte di una pòrpora sanguigna,
e sdrucite nella rimembranza or mentre le mattutine rugiade di adamanti ordite e composte,
discendono dal fresco e ottenebrato cielo e dall’ultimo argento di Luna piena. E…
e così dovrò forse anch’io assaporare l’incommensurabile e sempiterna tua assenza,
e la sua fuggevole impronta che si proietta ombra nel Nulla osceno che mi rimane:
questo vacuo e futile mare di sensi inappagati e storditi che tu mi abbandonasti,
dopo le impetuose folgori che su di me scatenarono le tue indomate Tempeste. Eh! No! Mai più ti ammirerò taciturno, e silenzioso e insofferente, e…
e incapace di gridare un Sentimento più dolce d’un favo di miele,
e mai più potrò rimirarti a rosseggiare d’accanto ai miei segreti sogni dettati dalle mie più secrete cure, e…
e solamente nei nuovi sogni che si susseguono come onde d’un Oceano selvatico,
tu mi apparirai, e sempre più giovane, e sempre bella, immortale e…
e eternata dall’invisibile plasmarti dei pennelli dell’occhio mio, l’amante dei fiori tuoi compagni,
immortalata in un affresco notturno che rimarrà una Vita inanimata,
e che sarà una quieta abnegazione della tua Morte.
Eppur non mi soddisfa, o rosa, quest’incauto sognare, né il ricordo della tua ombra che muore e…
e che si infrange sui più irrequieti e commossi scogli del Tempo e delle sue Furie,
l’Erinni dell’Ecate che il Tutto universale seppelliscono nella tomba, e…
un sognàr che non è che una debole nebbia autunnale,
ora lambita da un labbro che con il calòr del suo sospiro la allontana fendendola come un cuore trafitto e…
e che non può che essere che uno spettro di Nulla.
No! Mai più ti rivedrò, o fiorellino, e…
ed è per questo che sarà il canto che oserò lamentare:
e una nenia mortuäria e sconfinata e infinita, e una ghirlanda per il tuo ignoto sepolcro di montagna, e…
e non dovrò far altro che piangere e deplorare il nostro ormai separato Destino!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXIV Settembre AD MMXV

sabato 19 settembre 2015

Sensazioni e Ballerine

Fingere è l’Arte del Ballo e dei suoi corni, e…
e delle sue lagnanze e dei traversi flauti -
ov’è un fatuo fuocherello antico! - e…
e vanno maschere e, - ivi - e, - or - di donne in scialbi veli, e…
e sete leggere sulle forme e, -
pizzi fatali per l’occhio carnale che le osserva e; - nei giorni
delle lor orme, - ombre - e
delle campestri danze, - così tra i violini va il disgelo
sui fiorellini
dell’autunno eloquente che sovviene. - E - oh voi, Villi meste e, -
fanciulle danzanti e, -
Eumènidi e, - voi, oh Ondine e, - allegri e nudi tacchi
di soffice velluto bianco e, - che
avvolgono in abbracci i piedi infantilmente morbidi e, -
di seta, oh Sìlfidi e, - Ninfe, in melliflui e molli bivacchi,
dove bevete foglie, or
così ballando qui rallegrate le mie ombrose foreste e, - e…
e i miei boschi frementi, - e…
e nel vostro danzante tacchettìo -
con voi - oh sì! - danza anche, - sì! anche - in petto il cuore, - che è il mio
flauto d’un sogno magniloquente e puro, e…
un sogno che si sperde nel vespro, quando il cielo si fa più oscuro!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XIX Settembre AD MMXV