I. Maturità
senescente
Selva di pruni, e di pioppi, e di sàlici
con me la sera allùmina, e le spoglie
frasche, e le ignude fronde, ombre di Notte,
e gli irrequieti faggi, e i tetri càrpini,
e queste nubi in sul far della Luna
che viene pàllida
dopo il passàr
del mio meriggio,
come argento àrido,
specchio d’un mar,
dove sta un riccio
che èsule dell’autunno è, e del castagno,
qui, in sulla via che io percorro in affanno,
io rimembrando l’ùltima mia estate,
e sconsolando il cuor nel mio sognare,
e gemendo io di làgrime infinite,
e allor d’indefiniti àttimi, e speni,
perché ‘l so: piàngere
debbo io a’ perduta
mia giovinezza,
il vespro d’ìncubi,
la fonte muta
della sua ebbrezza; e
perché io fantàsima
passeggio e ascolto
fosco silenzio,
tra i scialbi plàtani,
ricordo un volto:
labbro d’assenzio.
E così un altro giorno va a morire,
un dì che ho in meno da vìvere, e Morte,
e Fato, e Tempo d’intorno mi vàgolano,
dove so che beltà non fu che un sonno,
e Idëàle l’Amore, vero il duolo. E
come le Norne ròride
del pianto dei defunti,
e come le mie Sìlfidi
danzanti a’ piè congiunti,
e Villi, e Gnomi, ed Elfi,
fantàsimi dei Guelfi,
io corro a tramontàr.
E questo mio tramonto è una pena
che mi fa inquieta l’Anima, e convulsa
la mente, e bieca la cura, e inaudito
il petto. E per la mia campagna corro
a raccògliere gli ultimi miei fiori.
II. Il
Lamento del Bivacco
E canterò io alle fiamme della Luna,
mesto e perduto, e sepolto in mia Notte,
e urlerà il cuore mio agli astri che muòiöno,
nell’orizzonte oscuro di un Idillio,
e piangeranno gli Elementi indòmiti,
e ombra d’un sàlice
l’orma mia copre,
e il fuoco scialbo,
ombre fuggèvoli,
di Dèmoni opre,
presso il prunalbo.
Non temèr, folle! Non avèr paüra!
Un’ombra ha mai umiliato un uomo? Forse?
Ma canta! Canta! Qui spensïèrando
tu, in vêr la Luna del tuo focolare,
e della tua arpa, e dei sogni tuoi estremi,
màschere vagolanti e sempre inquiete
di Mostri di tue attese, e di Titàni
ribelli ai giuramenti orditi ai fùlmini,
e di questa giovinezza svanita,
e dell’indefinite speni tue!
E io urlando canto; io, ràpsodo
della melliflua Notte, e
del suo sudario fùnebre,
come Orfeo per le grotte
del più lùgubre lupo,
che da un fosco dirupo
qui lamentando ei sèguita
mestamente a ululàr.
Perché è questo che resta: questo dono
maledetto da Dio, la Poësia,
lungo questa giovinezza che muore,
e questo mio tramonto in una Vita
dove è peccato amare, e sognare ancora.
III.
L’ultima Rosa dell’Estate
Ripenso: gli àttimi, e i tuoi, e i miei e orbi sogni,
e l’Alpe in fùlmini,
le rugiadose
perdute cime.
La vetta a un tùrbine ululava oscura:
roccioso ràpsodo,
e silenziosa
valle sublime.
E tu? Rosa melliflua, un dì piangevi,
tu prevedendo questo mio tramonto,
e questo mio silenzio, e questa Sorte,
portando tu nel cuore un tuo mistero,
che non volli io discèrnere. E fu un sogno.
Ricordo: i pàlpiti
del delicato
tuo giòvin seno,
che m’era un pètalo
tosco del Fato,
Destìn che temo.
E la Notte sovvenne, e giunse il tetro
sguardo dell’astro di una Luna cupa,
e poscia questo vespro, mi inghiottì
l’alba, e il sognàr mio, e l’ìride
dei tuoi singhiozzanti occhi,
e gli àttimi miei e gli ìncubi,
e il bronzo e i suoi rintocchi,
l’eco pe’ i mesti vàlichi,
e il cuor a singhiozzàr.
E tu, pìccolo stame, rosa mia,
come il sogno tu fosti, e come il vento.
il più ràpido, e spenta sei alla fine;
e io - folle! - non t’ho mai il labbro baciato,
e nàüfrago in Dio.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
In Dì Martedì XIX, Mercoledì XX Gennaio AD MMXV
Nessun commento:
Posta un commento