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lunedì 17 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Sogno del Cuore

Sogno del cuore, che cosa tu brami?
Forse un ritorno alle fresche Alpi e ai monti,
all’ombre mattutine di alti rami,
e nella sera i montani orizzonti.
Oro, ricordi? è il crepuscolo alpestre,
tra le nubi di sangue e l’infinita
eco dei ghiacci ove, Anima smarrita,
tu contemplavi il ciel dalle finestre.
Ma attimi sono d’un dì tramontato;
e ora ti preme e ti resiste il Fato!
Insonne sogno del sonno dell’Io,
è dunque all’Alpe che senti d’Iddio?

Sonni irrequieti, perché spasimate?
Siete più muti del chiostro più nero,
freddi e spettrali, e insicuri tremate.
Non rivivete! Dov’è il cimitero?
Quivi vi attende la negletta bara,
e la Notte vi mostra e l’ossa e i crani,
e non siete che spettri umidi e vani.
Non è vèr che la Vita è tanto amara?
L’Alpe dilegua nel vespro del giorno,
e cosa vi rimane, ahimè, d’intorno?
I campi dei sepolcri e delle lagne,
l’atee e irredente e funeree campagne!

Insonne sonnecchiàr, che mai ricordi?
I fiori alpini e le possenti cime.
Tu eri - sognavi! - sui nordici fiordi,
Wòtan tuonava con urlo sublime.
Eri tu presso una vetta indomata,
gli Angeli e il soffio del Nume vivente,
e passavano l’ore e lente, e lente.
Ma questa sera oramai è tramontata!
Sogno del cuore, che cosa tu pensi?
Forse è meglio annegàr tra i nembi densi!
Eppur alla tua guancia in pianto e falba
verrà il Sole. Ma come sarà l’alba?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XVII Agosto AD MMXV 

domenica 16 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. Ode al Lamento d'un Contrabbandiere

Hai tu dell’oro, oh bandito irredento?
Senti! Va’ al monte e compra la tua Vita,
sì, lei che un dì hai perduta; e nel vento
ascolta! Suona il ciel d’un’eremita.
Oh piacèr del fugace contrabbando!
I boschi scruti, e hai timòr dei fucili,
ghigni vi sono più oscuri e più vili,
e il tetro sterpo può esserti nefando.
Orsù! Orsù! Bevi il liquòr della Luna,
sfida la Sorte, e la vana Fortuna!
Non senti che il pugnàl preme le spine?
È Notte tarda. Dov’è il tuo confine?

Taci! Nascondi il tuo sigaro. Senti?
V’è un frèmer di lanterne e di mastini.
Se muori, dimmi: cosa emani ai venti?
Sogni d’Amore, e angosce di Destini.
Ma qui i tuoi passi camminano lenti,
e riparo ti sono i neri pini.
Fermati! E pensa! Cos’hai nel tuo cuore?
Torna al paëse, ritorna al tuo Amore!

Zingara alpina la Notte t’avvince,
docile danza coi veli lunari,
e l’Alpe ha un occhio come d’una lince;
e ora sei un’ombra, sottìl più dei mari,
e al seno della roccia ti giaci al sicuro,
e invochi i Santi, quelli tutelari.
Così a un castagno nudo e tristo e impuro
la sera inghiotti, l’Infinito oscuro!

La ronda s’allontana. Non la intendi?
Varca il confine, e compi il tuo mestiere!
Ora tu compri, contratti e poi vendi,
e dei banditi tu sei il cavaliere.
Allor tu puoi tornàr alla tua donna;
ma attento, oh folle, oh tu, alle carabine.
Non sognàr già le guance femminine,
e la temente e spasimante gonna!
Hai comprato la Vita; e vuoi morire?
Scappa! Stai quieto! Ora è meglio fuggire!
E se il tuo cuore tormentando sogna,
sappi: t’aspetta o la forca o la gogna!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XVI Agosto AD MMXV
 

mercoledì 3 giugno 2015

1815 - Immagini d'Accampamento di Vita notturna

A un focolare un bivacco gemeva,
e tremule canzoni alzava al vento,
e l’orba sera in tenebròr splendeva,
e l’orizzonte urlava di tormento,
e una ronda la Notte n’attendeva,
e intorno andava con un passo lento,
e un nappo ergeva un brìndis militare
a Marte, del guerrier il Tutelare.

Alcuni prodi pulìvan lo schioppo,
ben altri si lustràvan gli stivali,
bevèvan l’ombre al ramoscèl d’un pioppo,
e un dado si lagnò ai giuochi fatali,
e un tamburino camminava zoppo,
e un’aria osava ai freddi maëstrali,
e seduti ai ruscèl di vil campagna
i prodi stàvan tra i gaudi e la lagna.

Nel cielo oscuro, frattanto, la Luna
a vestire le nubi s’apprestava,
e il ciel pareva un’argentea laguna
che le deposte spade illuminava,
e l’argento lunàr per questa bruna
Notte di campo, in effetti, brillava;
e lungi un lupo a costui asperse un canto,
negro di Furia, più cupo di manto.

Il sonno si fuggiva, e un occhio insonne
all’Inghilterra volse i desidèri,
e giòvin rammentava le sue donne
e i seduttori inganni e i menzogneri
baci alle pieghe dell’agili gonne,
e dei suoi campi i recinti e i sentieri,
ed egli - un seduttore! - aveva strazio
di questo ferro di sangue mai sazio.

La recluta pensava al sen materno,
e si tingeva di tetra paüra,
sonno gli apparve un sepolcro d’Eterno,
presagio infausto di cui n’ebbe cura,
e intorno il Cielo, il medèsmo, il superno,
di Morte tinse l’inquieta Natura,
e il fanciullìn tremava inerme, e poscia
fu vinto dai sospetti e dall’angoscia.

Nel frattempo un messèr col plaid d’un Scoto
la cornamusa trillava ai viventi,
e gemeva un cantàr, silenzio immoto,
funebre nenia dai trilli sgomenti,
e cattolico e ligio e pio e devoto
e con detti di sacri Sentimenti
mesto pregava coll’Ave Maria,
gaëlico soffrìr di Poësia.

Un cavalier sfiorava il palafreno,
e mestamente scorgeva d’intorno,
e alla destra teneva un po’ di fieno
che l’animàl mangiò di sella adorno,
e di questo il mantèl brillava ameno
sotto le foglie d’un pioppo e d’un orno,
e tranquillo ignorava il suo Destino,
se vittorioso - e tanto - oppur meschino.

Un soldato scriveva a sua fanciulla,
lettera arcana d’un uomo che trema,
e sotto il crine d’un’orba betulla
forse ne impresse una parola estrema,
e l’avvenìr si cadeva nel Nulla,
e si tuonava forse un anatèma;
e alla fine vi scrisse: «Oh bella addio,
senso e speranza di questo cuor mio!»,

e si chiedeva con la menta avvinta
nei tristi sogni del spento tramonto
s’ella che abbandonò gli fosse incinta,
s’ei il bimbo avesse visto, e fece il conto
con quest’attesa di Morte dipinta,
e nell’ambascia finì il suo racconto,
e di tremore vivente moriva,
e il sonno vanamente l’assaliva.

Ricordava un galante una canzone
che si temprava di suoni d’Amori,
il violìn che gridava a un bel verone
tra i flauti e i clarinetti e i suonatori,
ed era un canto di viva passione,
d’alte preghiere e d’insani dolori;
ed egli con in man un po’ di vischio
la rammentava facendone un fischio.

Nella sua tenda con un caporale
freddo di cuore e d’animo agitato
gli ordini disse un fatal generale
che con un detto condannava al Fato
le tante gioventù, e all’estro geniale
del dèmon suo si piaceva innalzato,
e con questo ridìr caddero a mille,
vane le speni, e inutili le stille.  

Òrdin di pattugliare: sì, eseguiti.
La ronda ha fatto? Ha intravisto il nemico.
I disertori: oramai son smarriti.
La batteria: al frumento, al gran aprìco.
Gli ordini intesi: certo, e poi capiti,
e disse il generàl: «Altro non dico»;
e decretava i volèr dell’Inferno,
le sante Furie del Ciel, dell’Eterno.

A recitàr se n’andava un rosario
un povero e straziato cappellano,
e pàrvegli che il consuetudinario
pregar ne fosse orribilmente vano,
e stringendone al petto un reliquario
per questi campi scorreva lontano,
e tra un’ombra di Morte oscura e oppressa
segretamente celebrò una Messa.

Adesso un miserabile a una viola
spaventato e tremando ed irrequieto
disse tra sé una fuggente parola
e d’un ruscello si sedette al greto,
e tosto caricava la pistola.
Ma non ebbe coraggio; e allor inquieto
le gesta di Cesare e d’Alessandro
dannando, s’attoscò coll’oleändro.

Quest’è la Notte dell’accampamento,
Luna febbrile di sepolcri immani,
dove si regna l’eterno spavento,
dove suicìdi si tirano i cani,
e questo vespro ne danna al tormento
i prepotenti, i guerrieri e i sovrani,
e debole la Vita qui si langue,
e vi sarà domàn un mar di sangue.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì III Giugno AD MMXV