A un focolare un bivacco gemeva,
e tremule canzoni alzava al vento,
e l’orba sera in tenebròr splendeva,
e l’orizzonte urlava di tormento,
e una ronda la Notte n’attendeva,
e intorno andava con un passo lento,
e un nappo ergeva un brìndis militare
a Marte, del guerrier il Tutelare.
Alcuni prodi pulìvan lo schioppo,
ben altri si lustràvan gli stivali,
bevèvan l’ombre al ramoscèl d’un pioppo,
e un dado si lagnò ai giuochi fatali,
e un tamburino camminava zoppo,
e un’aria osava ai freddi maëstrali,
e seduti ai ruscèl di vil campagna
i prodi stàvan tra i gaudi e la lagna.
Nel cielo oscuro, frattanto, la Luna
a vestire le nubi s’apprestava,
e il ciel pareva un’argentea laguna
che le deposte spade illuminava,
e l’argento lunàr per questa bruna
Notte di campo, in effetti, brillava;
e lungi un lupo a costui asperse un canto,
negro di Furia, più cupo di manto.
Il sonno si fuggiva, e un occhio insonne
all’Inghilterra volse i desidèri,
e giòvin rammentava le sue donne
e i seduttori inganni e i menzogneri
baci alle pieghe dell’agili gonne,
e dei suoi campi i recinti e i sentieri,
ed egli - un seduttore! - aveva strazio
di questo ferro di sangue mai sazio.
La recluta pensava al sen materno,
e si tingeva di tetra paüra,
sonno gli apparve un sepolcro d’Eterno,
presagio infausto di cui n’ebbe cura,
e intorno il Cielo, il medèsmo, il superno,
di Morte tinse l’inquieta Natura,
e il fanciullìn tremava inerme, e poscia
fu vinto dai sospetti e dall’angoscia.
Nel frattempo un messèr col plaid d’un Scoto
la cornamusa trillava ai viventi,
e gemeva un cantàr, silenzio immoto,
funebre nenia dai trilli sgomenti,
e cattolico e ligio e pio e devoto
e con detti di sacri Sentimenti
mesto pregava coll’Ave
Maria,
gaëlico soffrìr di Poësia.
Un cavalier sfiorava il palafreno,
e mestamente scorgeva d’intorno,
e alla destra teneva un po’ di fieno
che l’animàl mangiò di sella adorno,
e di questo il mantèl brillava ameno
sotto le foglie d’un pioppo e d’un orno,
e tranquillo ignorava il suo Destino,
se vittorioso - e tanto - oppur meschino.
Un soldato scriveva a sua fanciulla,
lettera arcana d’un uomo che trema,
e sotto il crine d’un’orba betulla
forse ne impresse una parola estrema,
e l’avvenìr si cadeva nel Nulla,
e si tuonava forse un anatèma;
e alla fine vi scrisse: «Oh bella addio,
senso e speranza di questo cuor mio!»,
e si chiedeva con la menta avvinta
nei tristi sogni del spento tramonto
s’ella che abbandonò gli fosse incinta,
s’ei il bimbo avesse visto, e fece il conto
con quest’attesa di Morte dipinta,
e nell’ambascia finì il suo racconto,
e di tremore vivente moriva,
e il sonno vanamente l’assaliva.
Ricordava un galante una canzone
che si temprava di suoni d’Amori,
il violìn che gridava a un bel verone
tra i flauti e i clarinetti e i suonatori,
ed era un canto di viva passione,
d’alte preghiere e d’insani dolori;
ed egli con in man un po’ di vischio
la rammentava facendone un fischio.
Nella sua tenda con un caporale
freddo di cuore e d’animo agitato
gli ordini disse un fatal generale
che con un detto condannava al Fato
le tante gioventù, e all’estro geniale
del dèmon suo si piaceva innalzato,
e con questo ridìr caddero a mille,
vane le speni, e inutili le stille.
Òrdin di pattugliare: sì, eseguiti.
La ronda ha fatto? Ha intravisto il nemico.
I disertori: oramai son smarriti.
La batteria: al frumento, al gran aprìco.
Gli ordini intesi: certo, e poi capiti,
e disse il generàl: «Altro non dico»;
e decretava i volèr dell’Inferno,
le sante Furie del Ciel, dell’Eterno.
A recitàr se n’andava un rosario
un povero e straziato cappellano,
e pàrvegli che il consuetudinario
pregar ne fosse orribilmente vano,
e stringendone al petto un reliquario
per questi campi scorreva lontano,
e tra un’ombra di Morte oscura e oppressa
segretamente celebrò una Messa.
Adesso un miserabile a una viola
spaventato e tremando ed irrequieto
disse tra sé una fuggente parola
e d’un ruscello si sedette al greto,
e tosto caricava la pistola.
Ma non ebbe coraggio; e allor inquieto
le gesta di Cesare e d’Alessandro
dannando, s’attoscò coll’oleändro.
Quest’è la
Notte dell’accampamento,
Luna febbrile di sepolcri immani,
dove si regna l’eterno spavento,
dove suicìdi si tirano i cani,
e questo vespro ne danna al tormento
i prepotenti, i guerrieri e i sovrani,
e debole la
Vita qui si langue,
e vi sarà domàn un mar di sangue.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Mercoledì III Giugno AD MMXV