Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Ghiridone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ghiridone. Mostra tutti i post

lunedì 12 agosto 2019

Ricordi di Montagna

E voi, vette tumultuose, come foste a me amate e care,
e come mi deste sul volto carezze di gelido

vento, mentre rivolgea il Temporale estivo il suo fosco
sguardo e le sue sì tepidi säette e i suoi tuoni lontani,

dacché forse sognai, bramai udir Valchirie, mie figlie
di nordiche fole! E come voi parlaste ai miei passi,

tra la vagabonda piova che cadde sugli occhi di tante
aguzze pietre, sopra le mute pinete e sulle onde

angosciose dei ponti di legno incostanti sul vacuo
dei baratri profondi! E ora mi rimane nel cuore

il vostro mormorio, le vostre cascate tuonanti,
del Ghiridone il ridente sogghigno selvaggio e sassoso.

Oh! Saluti a te, oh mio Ghiridone, cui l'orizzonte
schiude le sue ale montane sulle valli elvetiche, e cui

l'acqua con le brocche io attinsi! Saluti a voi, laghi argentati
dal Sole dell'Estate... voi, torrenti viscidi... voi

roveti sulle pietraie solitarie e ignude sui vecchi
sentieri sopra i quali camminai frequente pe' boschi

animati d'Agosto!.... E mi prende forte un'insana
doglia: quasi un sentir di nostalgica ombra d'Autunno,

quasi un desio di arrestare l'immenso che scorre nell'attimo
dei Sogni perduti... di un'Estate essa stessa avvinta

dalle fauci della Morte.

Julius Lange, Un Torrente di Montagna, Accademismo tedesco, Seconda Metà del Secolo XIX


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Lunedì XII del Mese di Agosto AD MMXIX.

mercoledì 10 agosto 2016

Das Gridone-Lieder klein Gesang, ovvero Il piccolo Canzoniere dei Canti del Gridone

I. Preludio ai Piè dell’Erta

Qui, io sedendo e ansimando intorno, e io quieto
nel più muto singhiozzo delle ghiaie,
qui… a questa pietra, scrittoio di montagna
e lungo il guado ottenebrato e oscuro
dell’orizzonte elvètico e sublime;
qui, io ammirando i ruscelli - freschi e immòbili
come argento che cola al fàr del Sole -
e le vette e le selve, e i funestati
sassi delle ombre delle opàche nubi
che si prepàrano ora a un Temporale…
io, chiamando a’ il mio cuòr gli avìti spìriti
dei tristi Bardi di queste perenni
e antiche lande - io! - vorrei cantàr, qui,
come l’ùltimo dei sopravvissuti,
questi infiniti sensi, e queste angosce,
e queste lodi, e questi ansi quesìti,
e questa gioja che tanto mi ispìrano
i monti, e i loro ghigni di Titàni
invitti, e non più mai consunti da’ i
corvi alpini dei Fati irriverenti,
e i lor mesti naufragi nella mia Ànima,
in un eterno, e ansimante, e fuggèvol
anèlito vêr Dio.
‘Ve l’erta del Gridòne mi è un richiamo
alla funerea Croce.
Pietà di me!

II. Ave, Maria delle Vette

Ave, o Maria, regina delle vette
tempestose tu se’ e di questi vàlichi.
Maria… o Maria, più dolce donna in tra’
le altre donne, fugace sguardo immòbile e
eterno di un
occhio di fiori di montagna etèrea,
cerulèa rosa di un torrente ansioso -
la cera del Tramonto che va e cola
come candela di un Tempio vivente -
Tu, che il Senso e il Signòr di questa terrea
schiatta qui vanamente già scolpita
su orme di mari, e scogli, e monti e di onde,
in sèn ghermisci, e il Figlio e Padre tuo
Cristo Gesù;
Tu, Maria, oh Maria, di nome sereno
e placido e celeste,
Tu, oh santa Madre di Dio, oh Tu, Maria,
prega per noi peccatori errabondi
come viandanti sulle rocce incerte!
prega per noi
in questa Vita nostra e nella Morte…
finché non venga Iddio,
prega per noi!

III. Ode tormentata di Lamento ai Monti

Dimmi… dimmi, oh tu, montagna, tu, cima
perennemente immota, labbro senza
un nome, e senza fàüci, né un canto,
dimmi…. Forse ignorerò io il mio Destino,
l’avvenìr irrequieto, e inquieta runa
delle tue pietre, scolpite con fiamme
di adamànte lunare dalle Tre
più schelètriche Norne d’Ygdrasìl,
l’orba quercia del Fato;
e seppellirò io questa mia ansiosa Ànima
nel vòrtice dei tuoi sassi perenni,
e dei tuoi muti pensieri di roccia,
dove anche il sasso sogna,
pensa èssere torrente, e
dove sulle dipinte effìgi delle
tue pievi gràvano i fùlmini eterni
di eterno spettro di Valchirie elvètiche,
e di perduti Eroi, e perdute gioje,
e il lamento dell’Oro degli Dei
delle sacre acque nordiche del vento
di Erda, Madre-Natura, e
dove è sempre la Notte.
No!.... Tu, montagna, oh voi, monti, annientàtemi
questa inquietùdine infeconda e oscura
che percuote lo specchio del mio cuore,
vetro per folli Sogni,
e pazze brame;
e tu, ghigno famèlico del lupo
dell’occhio del Gridòne, e tu, orizzonte
fiocamente bagnato dalle fresche
piogge del Sole, dàtemi da bere…   
nel càlice di vostre immani cime,
un buon sorso di Dio.

IV. La Ballata delle Rondinella di Montagna

E cantava la ròndine del monte,
ed era un cinguettìo di Morte e Fato,
la fame delle schelètriche rocce;
e fu il pianto delle onde di un torrente,
il lamento funèreo di un Viandante
nel bàratro del suol.
E cantava la ròndine del monte,
spazïàndo le querce delle vìpere,
nel volo ella portando un fior di timo,
ella, sì… per acquietare ansia implacàbile
de’ il cuore di un volàtile romìto
nel bàratro del suol.
E cantava… cantava. Dimmi cosa,
monte? Le gioje del vìver di montagna.
E cantava… cantava. Dimmi cosa,
monte? Le gioje e i dolòr.
E cantava: «Portàtemi nel nido,
quando la fame mi avrà condannata,
là… tranquilla e distesa,
per morìr co’ i miei pìccoli fratelli
di piuma e volo…
là, tranquilla e distesa,
per avèr sepoltura tra le vette,
tra le vette e nel Sol!».
Oh Ànima ansante a Iddio!

V. Impressioni di Vette di Montagna

Eterna ombra, perenne Alpe, o tu,
con le tue pietre e i tuoi bàratri ascòsi -
ferètro della Vita -
tu, con i tuoi torrenti e la tua guancia
severa e scialba di rubina roccia
a un fior di Sol e dì…
tu, qui suonando i corni delle greggi
e delle mandrie, e gli ululati infermi
de’ i lupi che contròllano i tuoi pàscoli
nel tramonto dell’alba,
e concitando i Sogni delle pècore,
e piangendo le làgrime dei ghiacci,
e dormendo un risveglio sempiterno,
e ansando per le valli
attigue, ombre di mar e onde di sassi,
tu, ora e così mi ispiri un senso antico
di stupore sublime e meraviglia,
e mi fai l’eco all’Oltre che nascondi
a’ i miei occhi, appena oscurati dal mio ciglio;
e io, qui, in tra’ queste pietre forse - io! - assaggio
un àlito di Dio.
E la montagna mi è sempre sublime.

VI. L’Incubo dei nove Gufi. La Sete della Conoscenza

E veniva la Notte. Dalle orbe ombre
di un fràssino di un monte discendèvano
spettri oscuri di nòttole corrive,
nove spàsimi e crani animaleschi
delle crudeli fronde d’Ygdrasìl,
nove gocce di Fato,
nove stille di sangue.
E cantava… cantava il primo gufo,
huì… huì… huì:
«Ti svelerò io l’Eterno con un canto
profano e dolce, incantatore e folle,
e l’alba che verrà,
e il Nome della Notte!».
E cantava… e cantò il secondo gufo,
huì… huì… huì:
«Qui, io ti illuminerò con la più prima
stella del nuovo dì, io! per sempre questa
funèrea e argentea Luna mangerò,
e chiamerò per Nome
tutti i tuoi Sogni!».
E cantava… cantava il terzo gufo:ì,
huì… huì… huì:
« Sarò io il Silenzio del tuo insonne sonno,
l’ebbrezza della Vita tua fuggente,
le Erinni della gioja,
il fùlmine di un urlo!».
E cantava… cantava il quarto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io il Tempio del tuo dormìr fuggèvole,
l’altare delle tue chimere illuse,
nebbia di quel che sai,
e il Nulla del tuo cuore!».
E cantava… cantava il quinto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io le ombre dei monti dei Titàni
invincìbili e tristi dei tuoi Sogni
ribelli e opàchi,
l’irrequieto sospìr del tuo affannoso
riposo di Pöèta:
il tuo Destino!».
E cantava… cantava il sesto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io lo spettro di una Notte eterna
che Tutto inghiotte e dissolve e costringe,
che si crea e si consuma;
e sarò io il manto rosa-argenteo di ogni
tomba per il tuo Sogno…
per il tuo Dio,
sarò l’Inquieto!».
E cantava… cantò il sèttimo gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò per sempre la sete titànica
tua di conòscere i misteri orbati
del velato tuo cosmo!
Chiàmami Ìside-Dea!
che si spoglia e ti porge il seno ambito,
e il ventre dell’Io-so!
Con uno spàsimo eterno e un singhiozzo
di Pöèsia…
tu… tu… folle supremo!».
E cantava… e cantò l’ottavo gufo,
huì… huì… huì:
«E io svelo… e svelerò io ogni runa mia,
indecifràbile e orrenda e occulta,
quel che le Norne han deciso sul tuo
avvenire… l’Incògnito,
ignoto lito
di àttimo eterno!».
E cantava… cantava il nono gufo,
huì… huì… huì:
«Sono io l’ìncubo furïòso e tetro,
Sàtana che ti cerca e che ti insegue
voracemente e insano per deviàrti…
la Conoscenza del Bene e del Male,
il ghiotto frutto per la tua atea stirpe,
alla quale ti vorrei accòlito e ligio,
tu… uomo miseràbile e
ordìto con il fango,
uno sputo di Dio…
un àlito del Nulla!».
Va’… allontànati, Sàtana!  

VII. Un Canto funebre di Montagna

È morto…. Il cervo del Gridòne a’ i piè
di una vetta - ei! - defunse, qui… qui, sotto
i miei occhi attòniti e ardenti di làgrime,
ei, trucidato dall’ùltima strage
della mietente falce della Morte…
ei, in una caccia di corni incostanti,
vaticini del Destino e della Tomba,
e per sempre perduto in eco di ombre
di monti della Notte.
È morto…. Il cervo del Gridòne a’ i piè
degli ùltimi suoi Sogni… ivi, nel sangue
sognante di annientàrsi nelle sue erbe,
nel cuore che desìdera confòndersi
ne’ il verme che lo annienterà ben presto;
e la Vita non è che un solo Sogno
che troppo poco vive per esprìmere
tanti altri Sogni per poi inavveràrli
su’ un sentiero di Morte….
E là… oltre il Sogno… Iddio!

VIII. Il Sentiero, ovvero La Metafora del Viandante di Montagna

Oh Viandante, de’ i lupi stirpe antica
un dì nata allorquando Wòtan ebbe
a ghermìr sé medesmo in un Eròe
dei Wälsi delle Valchirie fuggèvoli
per le selle dei fùlmini
e delle nubi,
tu, oh straniero dovunque vada, e in suòl
natìo per sempre, dove Patria è l’Alpe, 
e il vàlico, e la cima tempestosa,
e il màr che si distende oltre le rocce,
e il fiòr e la pianura co’ i suoi boschi
e i suoi campi di Vita…
dove ovunque è l’Incògnito che dòmina,
e l’orizzonte ignoto si disperde
sopra i tuoi sassi sempre uguali, e sempre
diversi, i qual a volte ti sòn pane,
e i lor ruscelli vino, e i rami covo,
e gli antri albergo, e
le fronde letto;
tu, oh pellegrino perenne che fuggi
da un monte di cui non altro conservi
che una febbrile rimembranza oscura,
e cui vorace tu aneli e irrequieto,
tu inghiottendo le pòlveri di questo
viaggio di cènere, e le làgrime, ombre
della pioggia specchiata in sul tuo cuore
scolpito dagli àttimi
del vecchio Fato…
tu, che vesti le fauci della fame
del negro branco della roccia eterna,
i sanguigni sogghigni di Erda antica,
gli Eroi coperti da’ i peli di un lupo,
e i fulvi occhi del gufo della Luna,
solitario fantàsima di un grembo
sepolcrale e vivente…
tu, oh Viandante delle Alpi, va’! e continua
il tuo passo ferino, accompagnato
dalle belve dei fiumi più recònditi
della Veglia e del Sogno, e da altri e tanti
pellegrini di pietra, e sangue e carne:
da’ i tuoi compari… e prosegui! finché
non ghermirai tu un bacio alto e compiuto
dalle labbra di Dio. E
canta la tua canzone!
Canta la vaga beltà dei tuoi colli,
tu, viaggiatore inconfondìbile e àrido
di ogni inattesa spene,
e il fiore-fuoco del Sole che splende
come un opàco teschio in su’ una bara,
dove soltanto basta un caldo stràl
di questa fiamma,
e un ruscello sul qual esso si specchia
per fàr brillàr di argento un monte intiero,
e la sua eroica cima….
Canta! dove tu apprendi l’Invisibìle
orma del vento, e l’Immortàl che scorre
e si rigènera,
e il Genio-Tutto che ti ha fatto or qui
pellegrino del Sogno, e poi Viandante
della tua Veglia;
dove tu cogli l’Eterno con gli occhi
moltèplici di un cuore infinito
costretto a stare
tra due parèti di una viva tomba
di carne e sangue: un’Ànima di Dio.
Canta!

IX. Il Cantico della Montagna

Oh voi, montagne, ombre sublimi de’ i
titànici occhi delle nubi di acqua
che veggo io piòvere ora e che vedrò
sorrìdere domani,
e tuonare di sera…
voi, prepotenti come gli Dei nòrdici,
possenti sguardi di sì cieche rocce
dov’io spesso mi siedo,
voi, che specchiate nelle ignude vette
tempestose di un ghiaccio sempiterno -
che fàttosi acque io ho assaggiato e goduto -
le onde fuggèvoli e ardenti del Sole,
e che alle vostre vìscere chiamate
per l’eco sconfinata di una caccia
i Sogni delle cerve e dei famèlici
lupi, e gli istinti dei vèrgini boschi,
e gli impulsi dei làrici,
e ogni mio desidèrio;
voi, che io qui ammiro e che contemplo,
oh divini convìti delle allegre
arpe di Froh e dei più dorati pomi
delle beltà di Freya,
perduto io in tanti colpi di occhio di avverso
senso e di sì confusa e avvinta mente,
quivi, e che richiamate il Cièl sublime
donde di bèo,
oh voi… voi, dunque, siete qui non mèn di un
grazïòso orizzonte, un avvenìr
del giorno e del Tramonto, e di una Vita
che a’ i nembi anèla, oltre l’arcano
urlo dei corni, mònito di caccia 
per le sue illuse vìttime di carne,
e di ossa e di Destino,
vaticinio irridente delle spoglie
frasche del Dio Irminsùl,
e di ogni Norna!
Et tu, laudata sie, oh montagna bella,
pe’ il tuo messòr lo sasso, e sòra pietra,
et frate vàlico;
per le rune che sveli alle perenni
ombre di Dio,
l’Altìssimo che regna et che ti dòmina,
sorso di Eternità!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

H. William, Near Glen Orchy, Arte inglese di Romanticismo vittoriano, Seconda Metà del Secolo XIX



Nei Dì che vanno dal XV Luglio al IX Agosto, trascritte in Dì di Mercoledì X Agosto dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

Dedicato agli Organizzatori e ai Ragazzi e alle Ragazze dei Campi-Scuola a Olgia dell'Oratorio Santa Giuliana di Borgolavezzaro.

In Memoria di San Francesco di Assisi, con un Grazie anche a Papa Francesco, per la sua meditata Enciclica, Laudato Si'

martedì 20 ottobre 2015

Bèviti! E bacia il mio Sogno!

Oh Rose, oh Rose, infinita ombra del Nord, fanciulla, a’
betulle e al Ghiridone ascolti forse - tu? - il mio sogno,
e i miei febbricitanti sospir. Le ansie! E
ricordo: il solitario e là ombreggiato sentiero,
scendendo dalla piccola collina, e andando altrove,
verso Dìssimo forse. E muto ero io
tra le chine lontane e meste. Ove tu eri con me.
Oh Rose, perché… perché ora mi vergogno in miei sonni,
dove il mio cuore si lamenta? E piange!
È forse Amore un’onta d’un fanciullo che è inerme
per cui provàr vergogna v’abbisogna?
E questo sogno vaga… e va sul nero crepuscolo…
e sogna… e sogna come in tomba il verme. E
poss’io chiederti di baciarne? E il mio
visionario sentìr tramonterà in quel bacio
che tu allòr chinerai a un’ombra morente e sconsolata.
Oh Rose! Può esalare ove qui giaccio un freddo sogno
l’estrèm sospìr suo e l’Anima infamata; e tu… avrai
così raccolto con le rosse labbra e le tue gote
un respiro di Vita e di ricordo, e un sovvenìr
d’un istante defunto. Ed è la Notte che regna, oh Rose!
E il mistico baciàr piove al mattino
sulla tua bocca la fredda rugiada del mio Destino;
e per me sarà egli un sogno che muore d’accanto
per farmi accòglier da altri sogni insonni,
come uno scoglio l’onde del suo mare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XIX, Martedì XX Ottobre AD MMXV  

mercoledì 7 ottobre 2015

Una Messa di Montagna

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
al venìr della sera vanno al monte,
quando le nubi sono nebbie ardite,
e s’apprestano a dir la santa Messa.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
bramano celebrare a Iddio nei boschi
delle montagne sul far della Notte
vicino alla cappella della Vergine.

Senti? Ho paüra: ha lamentato il lupo,
sogghigna al prete il fedèl timoroso.
Senti? Ho paüra: ha lamentato il lupo.
Non è la vetta giusta per dir la Messa.
Sul Ghiridone non ci sono i lupi,
dice il prevosto, è un sogno del tuo cuore.
Sul Ghiridone regna il falco arcigno,
a niente un falco ha mai fatto del male.

Ulula, eppure, un gemito furioso.
Forse una lupa ha valicato il monte,
e ha partorito i figliuoli affamati.
Ulula, eppure, un gemito furioso.

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
sotto l’ombra dei faggi e presso il muro
della pieve cadente fan l’altare,
laddove i Celti han lasciato due pietre.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
si guardano nel volto e si sorrìdono,
l’uno con fede, l’altro con i dubbi,
e sulla roccia lambiscono un calice.

Senti? Sei sordo? Un lupo si tormenta,
contorce le sue fauci, è nero e impuro.
Senti? Sei sordo? Un lupo si tormenta,
vuole mangiarci, qui, alla nostra mensa.
Non farci caso: è Sàtana che grida,
che dòmina sui boschi e la Natura.
Non farci caso: è Sàtana che grida,
vuole farci morire di spavento.

Ma chi è mai questo Sàtana selvaggio?
È un sogno orrendo tra il dubbio e l’affanno,
una chimera nel Nulla del cielo.
Ma chi è mai questo Sàtana selvaggio?

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
fan penitenza sotto i faggi oscuri,
flagellati dal vespro che sovviene,
nell’incanto sublime di quest’Alpi.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
cantano il Kyrie sul vento che soffia,
mentre tremante una ràdice geme,
quando la Notte sovviene più nera.

Ma non senti che il Diàvolo ci insidia?
Con il suo soffio ha preso in man la Bibbia.
Ma non senti che il Diàvolo ci insidia?
Non è il Diàvolo, è il vento che si gela.
Togli dal cuore questi aspri pensieri:
Sàtana è un verme che pompa nel sangue.
Togli dal cuore questi aspri pensieri:
senti? Il silenzio d’intorno governa.

Non ci son lupi, e tace il Ghiridone.
Occhi di fiamme avvolgono il crepuscolo,
e l’incensiere profuma di zolfo.
Non ci son lupi, e tace il Ghiridone.

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
dìcon la Messa, e viene l’Offertorio,
è tempo di donare a Iddio una preghiera
perché s’effonda il suo Corpo e il suo Sangue.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
s’inginocchiano e pregano alla Vergine,
e hanno in mano un rosario di noce,
i cui granelli son occhi di fuoco.

Dov’è finito il pane che era all’ara?
L’ha divorato Sàtana, egli stesso.
Dov’è finito il pane che era all’ara.
Lo prese per non farlo consacrare.
Di’, l’hai mangiato perché avevi fame?
Non son blasfemo, non l’avrei mai fatto.
Di’, l’hai mangiato perché avevi fame?
È stato Sàtana, egli steso, ‘l giuro!

Dov’è Sàtana, l’immondo fantasma?
Tace la Notte, e Cristo non si mostra,
e l’incubo spaventa i suoi fedeli.
Dov’è Sàtana, l’immondo fantasma?

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
scrutano un gufo su un ramo di frassino:
ha tra gli artigli il pane che cercano,
muove la coda e questo cade a terra.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
si guardano tremanti e son sconvolti,
Sàtana è un’ala d’un bieco rapace,
e la nòttola li guarda infuriata.

Il sagrestano allor raccoglie il pane.
Lascialo stare: Sàtana lo ha vinto.
Il sagrestano allor raccoglie il pane.
Non raccoglierlo. Non è più del Santo.
Ma Iddio, di’, non può nulla? È il più potente!
No, perché ti contempla in fondo al cuore.
Ma Iddio, di’, non può nulla? È il più potente!
No! Perché sei tu Sàtana, il selvaggio.

Sàtana è il dubbio, il lupo del pensiero,
è la carne che trema nelle tènebre,
sogno represso nel cuore dell’uomo.
Sàtana è il dubbio, il lupo del pensiero.

E il sagrestano ascolta l’esorcismo,
e grida, e sbraita e vede i lupi infami.
E si mette a cantare il sabba e è in ridda,
e come un cigno, quando ha smesso il canto
cade supino a terra. Tace. È morto!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Ottobre AD MMXV