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lunedì 8 ottobre 2018

L'Astinenza

Una fanciullina quasi terrorizzata dalla nuova vita in questo sperduto e dimenticato villaggio.... I suoi occhi, allora, traspiravano un inquieto sentimento di melanconia, un non so che di nostalgico misto a un lontano strale di speranza; e andava a raccontare quella sua esistenza che, trascorsa in una piccola città, era ancora breve e immacolata, oppure semplicemente fragile come una foglia di primavera nel bel mezzo di una tempesta: come poteva resistere alla pioggia scrosciante, alle urla feroci dei tuoni, alla furia dei lampi e alla grandine, così correva il pericolo di staccarsi dal ramo, di precipitare in una pozzanghera o nel fango, e di morire. E chi mai non è stato fragile da bambino?.... Ebbene, una fanciullina che giuocava a correre intorno a un vecchio tronco, e che era sorvegliata da un uomo, sicuramente il padre. 
Una fanciullina! Così se la ricordava il Signor Rodolfo, giovine maestro di scuola che, ogni giorno dei mesi scolastici, passando per irti e sassosi sentieri di montagna, doveva scendere dal villaggio di O. fino alla cittadella sottostante. Lo sguardo sopra la via; gli occhi a contemplare le nebbioline del Gheridone.
Una fanciullina allora insignificante come la comparsa del più inutile degli araldi in più di una di quelle Tragedie che egli aveva poi letto... una femminuccia, sì... carina, gentile, bella, con i suoi modi diggià cittadini... ma pur sempre una femminuccia. Non che odiasse le donne, s'intende; ma Rodolfo non comprendeva bene e non comprese questo strano e bizzarro mistero per cui per ogni specie vi sono il maschio e la femmina... anzi, tutto ciò lo imbarazzava anche. Del resto l'assillo della sua vita fu questo: "Perché esisto? e perché son uomo?".
Sia chiaro, ai tempi egli stesso era un fanciullino; e come tale, innocente, fragile e immacolato. Eppure sentiva un non so che di spirituale così come qualcosa di erotico dinnanzi a una donna; e tutto ciò lo turbava. Forse, di fronte a questa pargolina, si sentiva spinto da qualche forza soprannaturale e sovrumana a un mondo di Angioli, di Cherubini e di Ideali; e, nonostante ciò, già immaginava come potesse essere questa bambina una volta cresciuta: la fragranza dei suoi capelli lisci e corvini, sì, quei capelli che sognava di baciare o dei quali immaginava sciogliere ogni piccola treccia; la sensualità dei suoi occhi; la bellezza di quel petto contro cui il cuore prima o poi avrebbe dovuto battere cadenzato da palpiti di spirito e di carne... e chissà, forse quegli istinti sarebbero stati spesi e spremuti proprio per lui! No! no! Che vergogna pensare e immaginarsi queste cose! Perché mai rendere immonda la fanciullezza spensierata con queste immagini peccaminose?....
E poi la fanciullina, in fin dei conti, in merito a certi vivi campanilismi, era una estranea... una straniera. Benché fosse ella pure del Regno che s'era appena, appena formato, benché l'accento fosse chiaramente di quelli che tuttora si ritrovano nella parte più alta del Piemonte e che molte persone un po' più meridionali prendono sovente in giro, e benché arrivasse soltanto da quella cittadella che stava circa sei miglia più sotto, ebbene, ella era come una straniera... come se fosse arrivata dalla Svizzera, nemmeno quella del confine, ma quella del nucleo più teutonico. 
Giuocarono... sì, di questo Rodolfo si ricordava; e si rimembrava altrettanto attentamente che la fanciullina aveva espresso il fatto che si rendeva conto di essere un'estranea, una da evitare... una con la quale tutti avrebbero giuocato ma senza legami profondi e indistruttibili. Probabilmente, se fosse stato un fanciullo avrebbe spesso richiamato qualche monello dalla città e avrebbe fatto a botte con questi zoticoni di paese... Rodolfo compreso. Probabilmente, il futuro maestrino avrebbe agito in tal guisa; anche se, in realtà, non era proprio quello giusto per fare a pugni con qualcheduno.
Giuocarono, sì... ma dopo quella volta, dopo quella sera di fine agosto, in cui da entrambe le parti serpeggiavano numerose le preoccupazioni per la scuola ventura, dopo quei piccoli momenti di svago e di tensione, non si rividero mai più. Almeno, con il senno di poi e con i più dolci e amari ricordi, Rodolfo pensava che non la avrebbe mai più rivista.
Ora che si sbagliava, però, ora che aveva riconosciuto questa fanciullina in una giovine donna che tutto d'un tratto gli era apparsa in mezzo a' libri e con la quale aveva intessuto brevemente degli elogi ai volumi del Signor Nievo, queste ricordanze gli tornavano in mente tempestose, turbinose... come Furie inesorabili slanciate alla caccia da un Destino non meno misterioso e fors'anche crudele... come se tutto, fin dall'inizio, ossia fin da quell'incontro fanciullesco, fosse stato scritto... scritto a caratteri leggibili per Dio, certo, per un uomo un po' meno.
In ogni caso a Rodolfo sembrava quasi che quella volta, quella sera di fine agosto, la Vita stessa gli si fosse presentata e gli avesse destinata come compagna e sposa quella fanciullina... quella donnicciuola che adesso gli stava di fronte, e che andava ad accennare discorsi su libri e poesie. Che bellezza! Che maraviglia! Ella conosceva molto bene i versi de' bardi inglesi e gli consigliò di leggerne qualcuno; e quasi per incanto, gli parve che ella sapesse bene delle sue inclinazioni poetiche. Sì, quella sera turbolenta d'una passata e lontana estate, era interesse... era amicizia... era Amore il silenzio che intercorse tra i due bambini, ora cresciuti e ora di fronte l'uno all'altra, forse pronti e destinati a un abbraccio inesistente, a una dichiarazione fatta di mute parole. Cosa dissero e cosa avrebbero potuto dire i loro occhi in quei nuovi momenti di riscoperti legami mai esistiti, di forzato Destino, oppure, di Fatalità che li forzava nella morsa sua furiosa, nelle sue fauci dissacranti e demoniache, contrarie a Dio! Cosa disse Rodolfo con il suo sguardo, e cosa ne avrebbe potuto comprendere la giovine donna!.... E tra una piccola e breve critica letteraria e un'altra, il maestrino faceva scorrere fugacemente lo sguardo alle mani della fanciulla, analizzandole ogni dito... in cerca spasmodica e patetica, probabilmente grottesca e ridicola, di qualche pegno d'Amore altrui, d'altrui onore o impegno... d'un anello. Egli, infatti, non si sarebbe mai perdonato di amare una donna già impegnata.... Ciò, pur involontario e nato da ignoranza, sarebbe stato adulterio, un gravissimo peccato dinnanzi a Dio... e Rodolfo aveva molta fede in Dio.
Il prete del villaggio e molti compaesani, non a caso, lo vedevano forse in vesti talari... a entrare in seminario, a consacrarsi. Così anche la Signora M. la proprietaria e l'ostessa della locanda in sulla piazza, quella vicino alla chiesa, dove se un giorno vi fossero capitati de' carabinieri, più di mezza vallata sarebbe finita in prigione, tanto quel luogo era colmo di que' contrabbandieri i quali, giurando con noncurante blasfemia sulla Madonna del Sangue, si figuravano immense imprese oltre i confini. Così perfino il Signor C., un vecchio energumeno di più di ottant'anni, un gigante, diciamo, un contrabbandiere in congedo, il quale maravigliava sempre i giovinetti con la sua incantevole maestria nel maneggiare con semplicità e senza fatica tronchi per i quali la recluta più forte e prestante, al contrario, avrebbe palesato un certo imbarazzo. Ma Rodolfo, silenziosamente, senza rimostranze a costoro, o semplicemente pensando senza riscontro alcuno che queste persone stessero macchinando questi pensieri, non ne voleva poi sapere. Quante inclinazioni aveva all'Amore tra l'uomo e la donna! Quanti passati e sprecati ardori platonici! Sì... un po' gli dispiaceva non essere chiamato da Dio all'altare o al monastero. Si figurava, infatti, che la via della Consacrazione fosse la migliore per la salvezza, per farsi salvare... aveva questa malsana idea per cui un religioso, quando adempisse con semplicità a' suoi più minimi doveri, sarebbe sicuramente salvo. Ma non aveva questa vocazione; e in fin dei conti, andava bene così. 
E ora la sua inclinazione all'Amore iscoppiava prepotentemente ancora una volta nella sua vita. Infatti, quella fanciulla, quel nuovo incontro gli rimasero così impressi nella sua mente che ormai tutto ruotava intorno a questi. I suoi sogni, i suoi desideri orbitavano intorno alla giovinetta sua; i suoi respiri erano davvero respiri se degni di essere sprecati per lei... di essere consumati per sognarla di tenerla a braccetto per le vie o del villaggio o della città, di attenderla furtivamente nel crepuscolo vicino a un bosco, e contemplare con lei la bellezza del tramonto... la melanconia di quelle tinte che invadono il cielo quando il sole decide per natura di essere stanco di alluminare questa parte di mondo, e fugge altrove, pur rimanendo fermo... inesorabile, al centro di un piccolissimo e insignificante sistema... di un sistema, sì, Dio l'ha detto, che non è niente davanti all'Eternità... è pur tutto davanti a un uomo solo, ma poco di fronte a un uomo che stringe a sé la propria donna. Oh potenza dell'Amore! E Rodolfo appunto sognava... sognava il tramonto, l'Universo raccolto in un abbraccio... Iddio che si manifesta nella sua Divinità in un bacio e dice "Adoratemi nell'Amore, oh amici mortali! Accoglietemi nello schiocco silente delle labbra che si incontrano per manifestarvi, l'uno con l'altra, quel tutto me stesso che nascostamente è sempre stato ne' vostri cuori!".... Sognava, ma non agiva! Sperava, ma non combatteva!
Così passò un giorno... una settimana... un mese. Passarono i mesi. Ogni pomeriggio, ogni sera venivano da lui sprecati a cercare volontariamente un incontro... un finto incontro casuale con l'oggetto de' suoi santi desideri: e passava vanamente per la sua via, e l'attendeva vanamente per i sentieri sui quali ella moveva spesso i suoi passi, e l'attendeva di nuovo indarno presso i libri. Nulla! Niente! Lo sforzo era vano... era una Vanità assoluta.
"L'ho perduta! L'ho perduta!" allora esclamava sovente ne' più tetri e velenosi momenti di sconforto e di disperazione... "L'ho perduta!" continuava a dire e a ripetere, i suoi pensieri rivolgendo verso questa persona che, in realtà, non ebbe mai. E si disperava... e a stento fermava le lagrime agli occhi.
"L'ho perduta!" così diceva, dopo che una volta la giovinetta si era ripresentata in mezzo a' libri, ma non si trattenne più di tanto, anzi, fuggì quasi subito via indicando come cagione di tutto ciò l'incomebenza di un oneroso impegno. "L'ho perduta!" ripeteva "Del resto non è stolida, se ne sarà accorta... e non vuole aver nulla a che fare con me"... e mentre sussurrava a sé queste parole, ispirato da una forza occulta, divina o demoniaca che fosse, iniziava a scrivere - e scrisse - poesie profonde, versi in uno stile romantico che la gente eletta avvicinava a Leopardi e che avevano come tema la Gioia... la Gioia di amare, di sognare... di soffrire per tutto questo. Ma non era davvero tutto!
Ora Rodolfo le scrisse una lettera - che avendola nervosamente e stupidamente gettata in uno di que' sentieri da entrambi percorsi, a lei non pervenne mai - in cui si complimentava con lei per certi suoi dipinti ritraenti la bellezza e la serenità della Natura, nelle sue ripetute e sempre belle stagioni; ora si immaginava che ella sarebbe ritornata e allora, quando questo fosse accaduto, sarebbe stato bello metterle un'altra lettera più intima... d'Amore all'interno di un libro, consigliargli quest'ultimo... darglielo e, che Dio ne sostenga! E, ancora, non era tutto....
"Me ne impipo se a settembre inizia la scuola", "Al Demonio i mocciosi e gli ignoranti!", "Mi butti pur fuori a calci un qualche ministro", "No! No! Impegnarsi per cosa?", "E se mentre insegno, proprio in quell'istante, diavolo! ella passasse finalmente dove l'ho sempre attesa?"... queste erano frasi che ultimamente diceva tra sé, e in cuor suo aveva pure propositi di trascurare il mestiere. Rodolfo! Un tipico e proverbiale inetto a vivere... non uno scansafatiche... non uno di quelli che scaldano la propria sedia alle spalle di altri; eppure un pazzo... un folle che si ripeteva che, alla fine, il lavoro non conta niente se non si ha l'Amore. "Venga l'Amore e poi venga il lavoro"... il primo serve per vivere, il secondo per il pane. "Quale de' due è il più importante?". Oh! Certamente tutt'e due... ma un inetto questo non lo sa. In realtà, tale inetto non sa bene che è inutile sfidare il Fato, combattere contro di esso... altrimenti sarebbe un po' presuntuoso, un po' come se si stesse sfidando a duello il Demonio in persona, come se, ignorando la Croce di Cristo, si volesse conciare per le feste questo grande Accusatore... farlo a pezzi, con le proprie mani; e dire prima a se stessi poi a Dio "Ecco! Il Diavolo giace trafitto a' miei piedi!".... Oppure, sarebbe come se si stesse ergendo una spada minacciosa direttamente a un intervento della Provvidenza la quale, tante volte, è solita usarsi del Male per correggere l'uomo e riportarlo sulla buona via. No! L'inetto non sa queste cose... è una specie di mellifluo e contraddittorio egoista aperto all'Altro e alla nullificazione di se stesso... un narcisista all'incontrario... uno che non vuole godere di soffrire eppure si mette nella situazione in cui si soffre e, allora, un po' gode non dico di provare sofferenza ma di essere capace di non rifiutarla.... E Rodolfo, appunto, era un inetto!
Poi cosa dire? Nella sua inettitudine si sentiva anche un miserabile provinciale: sarà stato un maestro, un poeta... ma rimaneva uno stolto abitante di una terra montuosa e sperduta, fuori del mondo e della sua storia. Come poter tessere durature relazioni con una persona che, invece, da' suoi discorsi, traspariva aver veduta l'Europa, le grandi città... l'Inghilterra! La giovine donna, infatti, era stata ad Albione; e lì, Rodolfo la immaginava contemplare le grandi opere letterarie de' vecchi e nuovi bardi, o inchinarsi lievemente e con grazia dinnanzi al passaggio della vecchia amata Vittoria e del seguito suo che, nella vecchiaia, la sorreggeva, oppure tener salotto da qualche Lord, accanto a un'infinità di diversi sapori di Té. No! non poteva minimamente stare vicino a una persona così aperta, europea... acculturata; una persona che, se avesse ella voluto, avrebbe fors'anche fatto dell'insegnamento e della poesia di lui una totale, completa... assoluta maceria... una rovina. No! se Rodolfo fosse stato con lei, le avrebbe certamente rovinata la Vita... l'avrebbe quasi costretta, anche involontariamente, nel silenzio dell'Amore, a un'esistenza ancorata a un villaggio di due capanne e una chiesetta... alla piccolezza di un mondo sconfitto dalla contemporaneità e dal progresso... alla sua visione poetica e bucolica oramai sulla via del tramonto. No! la fanciulla aveva bisogno di incontrare un uomo di città, un grande finanziere, un ambasciatore... o un impresario... un che da Milano l'avrebbe poi portata nel cuore di Parigi, di Londra, di Vienna... di Berlino, che la avrebbe fatta conoscere ne' migliori salotti... per i più prestigiosi e nobili palchi d'Opera. Oh! se questo fosse accaduto! La giovine donna avrebbe potuto acculturarsi ancor di più, coltivare maggiormente qualche vena artistica, e riscoprirsi tra le più alte sfere che reggono l'Umanità!.... No! Rodolfo non poteva fare tutto questo tant'era piccolo e insignificante dinnanzi alla grandezza del mondo e de' suoi uomini!
E poi... tutto quell'argomento scandaloso e fonte di vergogna: i sensi, il loro appagamento! Che fare? Non si è soltanto di spirito! Da una finestra, di notte, traspare un fioco lume. E Rodolfo sa che in quella dimora abitano due nuovi sposi. Se la immagina: una finestra un poco aperta, l'oltre di quello che protegge nascosto da piccole tende; la gaiezza di due sguardi che si osservano naufragandosi l'uno con l'altro; i respiri frementi... agitati, i sospiri; parole sussurrate alle orecchie solleticate da reciproci piccoli, impercettibili morsi; petali di rosse rose al centro delle candide lenzuola; il conflitto di due Anime unite da Dio e separate da due corpi... il gentile scontro di questi ultimi... se ne va la purezza, se ne va l'Amore... Cristo di nuovo è crocifisso... è crocifisso sulla nudità di questo Adamo e di questa Eva... e attende... attende in Croce che possa risorgere da un germe... dal ventre di una donna che perderà il suo nome per farsi chiamare madre... e Cristo risorge... e poi? Tutto si ripete, ricomincia... muore di nuovo crocifisso sopra i vermi di un sepolcro. Oh Umanità! Oh Umanità! lo crocifiggi sempre questo tuo Dio! E allora, "Allontanati, Satana! Allontanati, Satana!". 
Rodolfo si concentra... fa un grande respiro, butta fuori il Demonio e torna a concentrarsi sul mestiere. Addio, Amore, per sempre! Addio, gaia felicità d'amare! Vengano gli impegni... la fatica... il sudore.... l'Amore è sconfitto!
Un giorno, dopo queste tempeste, il maestrino stava camminando in città, placido... sereno. Usciva da scuola; e la lezione da lui impartita ai monelli doveva essere andata bene. Nonostante tutto, lui sì che si impegnava, mica come altri... veri scansafatiche! A un certo punto, lungo una via, incontrò la giovine donna. Un sussulto lo irrigidì... il suo sguardo, il suo corpo... tutto di lui, anche se continuava a camminare, pareva immobilizzato... intorpidito... i suoi rigidi occhi cercavano di guardare in alto... in alto, in cielo.
"Buongiorno, Rodolfo!" gli disse la fanciulla.
"Buongiorno!" egli le rispose con la freddezza di un impiegato che fa vedere i precisi, infallibili conti della giornata al proprio capoufficio.
Egli tira dritto, non riesce nemmeno a volgere un mezzo sguardo per guardarla; ella non sembra poi così tanto colpita... accenna a un sorriso, poi prosegue... proseguono entrambi, per parti opposte. 
Il cuore di Rodolfo piangeva... ma egli non se ne accorse. Prese soltanto coscienza che un'ignobile marea oceanica di imprecazioni represse e mai dette gli scendevano dalla testa, pronte a uscire di forza dalla bocca e a scandalizzare ogni cosa. Ormai la Vita si era drammaticamente separata da lui, ormai era nell'Anima più morto che vivo; e per un'altra definitiva volta, la fanciulla per la quale distillò sogni, desideri e speranze divenne nient'altro che una comparsa... la comparsa di una Tragedia umana per cui Iddio stesso prova un'infinità di dolore.

John Maler Collier, Lady Godiva, Pre-raffaelliti, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, Seconda Metà del XIX Secolo


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica VI del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

martedì 6 settembre 2016

Romanticismo in Elegia di una Ballata lirica a un Ricordo di Montagna

Mi ricordo dei monti; e un mese fu
dacché io non rivedo le erte, e il Tòce
e il Melèzzo privato della voce,
e le croci delle pievi
bianche, splèndide come le alte nevi,
e la valle della Svìzzera d’intorno
da cui io vedèa rinàscere il mio giorno,
e la chiesetta bella di montagna,
l’alba che bagna
i campi dei trifogli e degli ovìli,
e i falbi pètali ingrigiti e ansiosi
lungo i fienili
delle pècore, e il pianto dei vitelli
dove forse sorgèvano castelli,
là… un dì, quando Brunnìlde raccoglieva
la mietitura degli Eroi più forti,
i cavalieri morti…
e il Sogno trapassò, e divenne il regno
di questa ricordanza.
Mi ricordo dei monti; e un mese fu
dacché più ivi io non scorgo andàr al pozzo
coperte con gli stracci come un mozzo
le ombre possenti delle femminine
cime, dal confine,
l’eco delle scarpette delle valli,
la montagnìna bella dei miei Sogni
che rimembro nei sonni,
il baldo corno che ìncita alla caccia,
l’orgoglio d’un tristo arco
che la vìttima attende presso il varco,
con un dardo la manda in su’, nel cièl,
sguardo di Tell…
la quiete delle frasche e delle fonti,
la bellezza dei plàcidi orizzonti.
E il Sogno trapassò, e divenne il regno
di questa ricordanza.
Mi ricordo dei monti; e un mese fu
dacché più non ascolto il rumòr dei
bïàcchi e degli augèi,
e l’Ave che risuona, fatta sera,
per la pietrosa schiera,
la campana che chiama alla raccolta
la piccolina scolta
del pàësello solitario e muto,
quasi perduto,
alla tìmida Messa del Signore,
e del Sole i singulti di tepore,
e le fole di nomi innominàbili
che dèstano il sorriso
segretamente ai labbri di ogni viso:
la vecchia fiaba di uno spettro nero,
l’infelice Gualtièro….
Ed io?.... Di’!…. ed io?
Stavo vicino, cullato da Dio!
E il Sogno trapassò e divenne il regno
di questa ricordanza. E
la fanciulla dei monti va alla danza:
tra i pastori è contesa pe’ i sponsali,
la scorgo da una tènera finestra,
hanno in màn la balestra…
chi colpisce dovrà sposàrla e sempre
vìverle accanto,
e penso or mentre:
oh mia perduta e ardita gioventù,
smorta e fuggita su’ un cenno di canto!
E il ricordo mi è tomba dei sospiri,
scrigno geloso di ìncubi e deliri.
E nel vacuo confusamente io prego
di questa orma di ciò che fu, e ove annègo.
Mi ricordo dei monti; e un mese fu…
e il Sogno trapassò e divenne il regno
di questa ricordanza.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Homer Dodge Martin, Fiume e Montagne, Tardo-Romanticismo statunitense, Seconda Metà del Secolo XIX



Nei Dì di Lunedì V e Martedì VI del Mese di Settembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

mercoledì 10 agosto 2016

Das Gridone-Lieder klein Gesang, ovvero Il piccolo Canzoniere dei Canti del Gridone

I. Preludio ai Piè dell’Erta

Qui, io sedendo e ansimando intorno, e io quieto
nel più muto singhiozzo delle ghiaie,
qui… a questa pietra, scrittoio di montagna
e lungo il guado ottenebrato e oscuro
dell’orizzonte elvètico e sublime;
qui, io ammirando i ruscelli - freschi e immòbili
come argento che cola al fàr del Sole -
e le vette e le selve, e i funestati
sassi delle ombre delle opàche nubi
che si prepàrano ora a un Temporale…
io, chiamando a’ il mio cuòr gli avìti spìriti
dei tristi Bardi di queste perenni
e antiche lande - io! - vorrei cantàr, qui,
come l’ùltimo dei sopravvissuti,
questi infiniti sensi, e queste angosce,
e queste lodi, e questi ansi quesìti,
e questa gioja che tanto mi ispìrano
i monti, e i loro ghigni di Titàni
invitti, e non più mai consunti da’ i
corvi alpini dei Fati irriverenti,
e i lor mesti naufragi nella mia Ànima,
in un eterno, e ansimante, e fuggèvol
anèlito vêr Dio.
‘Ve l’erta del Gridòne mi è un richiamo
alla funerea Croce.
Pietà di me!

II. Ave, Maria delle Vette

Ave, o Maria, regina delle vette
tempestose tu se’ e di questi vàlichi.
Maria… o Maria, più dolce donna in tra’
le altre donne, fugace sguardo immòbile e
eterno di un
occhio di fiori di montagna etèrea,
cerulèa rosa di un torrente ansioso -
la cera del Tramonto che va e cola
come candela di un Tempio vivente -
Tu, che il Senso e il Signòr di questa terrea
schiatta qui vanamente già scolpita
su orme di mari, e scogli, e monti e di onde,
in sèn ghermisci, e il Figlio e Padre tuo
Cristo Gesù;
Tu, Maria, oh Maria, di nome sereno
e placido e celeste,
Tu, oh santa Madre di Dio, oh Tu, Maria,
prega per noi peccatori errabondi
come viandanti sulle rocce incerte!
prega per noi
in questa Vita nostra e nella Morte…
finché non venga Iddio,
prega per noi!

III. Ode tormentata di Lamento ai Monti

Dimmi… dimmi, oh tu, montagna, tu, cima
perennemente immota, labbro senza
un nome, e senza fàüci, né un canto,
dimmi…. Forse ignorerò io il mio Destino,
l’avvenìr irrequieto, e inquieta runa
delle tue pietre, scolpite con fiamme
di adamànte lunare dalle Tre
più schelètriche Norne d’Ygdrasìl,
l’orba quercia del Fato;
e seppellirò io questa mia ansiosa Ànima
nel vòrtice dei tuoi sassi perenni,
e dei tuoi muti pensieri di roccia,
dove anche il sasso sogna,
pensa èssere torrente, e
dove sulle dipinte effìgi delle
tue pievi gràvano i fùlmini eterni
di eterno spettro di Valchirie elvètiche,
e di perduti Eroi, e perdute gioje,
e il lamento dell’Oro degli Dei
delle sacre acque nordiche del vento
di Erda, Madre-Natura, e
dove è sempre la Notte.
No!.... Tu, montagna, oh voi, monti, annientàtemi
questa inquietùdine infeconda e oscura
che percuote lo specchio del mio cuore,
vetro per folli Sogni,
e pazze brame;
e tu, ghigno famèlico del lupo
dell’occhio del Gridòne, e tu, orizzonte
fiocamente bagnato dalle fresche
piogge del Sole, dàtemi da bere…   
nel càlice di vostre immani cime,
un buon sorso di Dio.

IV. La Ballata delle Rondinella di Montagna

E cantava la ròndine del monte,
ed era un cinguettìo di Morte e Fato,
la fame delle schelètriche rocce;
e fu il pianto delle onde di un torrente,
il lamento funèreo di un Viandante
nel bàratro del suol.
E cantava la ròndine del monte,
spazïàndo le querce delle vìpere,
nel volo ella portando un fior di timo,
ella, sì… per acquietare ansia implacàbile
de’ il cuore di un volàtile romìto
nel bàratro del suol.
E cantava… cantava. Dimmi cosa,
monte? Le gioje del vìver di montagna.
E cantava… cantava. Dimmi cosa,
monte? Le gioje e i dolòr.
E cantava: «Portàtemi nel nido,
quando la fame mi avrà condannata,
là… tranquilla e distesa,
per morìr co’ i miei pìccoli fratelli
di piuma e volo…
là, tranquilla e distesa,
per avèr sepoltura tra le vette,
tra le vette e nel Sol!».
Oh Ànima ansante a Iddio!

V. Impressioni di Vette di Montagna

Eterna ombra, perenne Alpe, o tu,
con le tue pietre e i tuoi bàratri ascòsi -
ferètro della Vita -
tu, con i tuoi torrenti e la tua guancia
severa e scialba di rubina roccia
a un fior di Sol e dì…
tu, qui suonando i corni delle greggi
e delle mandrie, e gli ululati infermi
de’ i lupi che contròllano i tuoi pàscoli
nel tramonto dell’alba,
e concitando i Sogni delle pècore,
e piangendo le làgrime dei ghiacci,
e dormendo un risveglio sempiterno,
e ansando per le valli
attigue, ombre di mar e onde di sassi,
tu, ora e così mi ispiri un senso antico
di stupore sublime e meraviglia,
e mi fai l’eco all’Oltre che nascondi
a’ i miei occhi, appena oscurati dal mio ciglio;
e io, qui, in tra’ queste pietre forse - io! - assaggio
un àlito di Dio.
E la montagna mi è sempre sublime.

VI. L’Incubo dei nove Gufi. La Sete della Conoscenza

E veniva la Notte. Dalle orbe ombre
di un fràssino di un monte discendèvano
spettri oscuri di nòttole corrive,
nove spàsimi e crani animaleschi
delle crudeli fronde d’Ygdrasìl,
nove gocce di Fato,
nove stille di sangue.
E cantava… cantava il primo gufo,
huì… huì… huì:
«Ti svelerò io l’Eterno con un canto
profano e dolce, incantatore e folle,
e l’alba che verrà,
e il Nome della Notte!».
E cantava… e cantò il secondo gufo,
huì… huì… huì:
«Qui, io ti illuminerò con la più prima
stella del nuovo dì, io! per sempre questa
funèrea e argentea Luna mangerò,
e chiamerò per Nome
tutti i tuoi Sogni!».
E cantava… cantava il terzo gufo:ì,
huì… huì… huì:
« Sarò io il Silenzio del tuo insonne sonno,
l’ebbrezza della Vita tua fuggente,
le Erinni della gioja,
il fùlmine di un urlo!».
E cantava… cantava il quarto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io il Tempio del tuo dormìr fuggèvole,
l’altare delle tue chimere illuse,
nebbia di quel che sai,
e il Nulla del tuo cuore!».
E cantava… cantava il quinto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io le ombre dei monti dei Titàni
invincìbili e tristi dei tuoi Sogni
ribelli e opàchi,
l’irrequieto sospìr del tuo affannoso
riposo di Pöèta:
il tuo Destino!».
E cantava… cantava il sesto gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò io lo spettro di una Notte eterna
che Tutto inghiotte e dissolve e costringe,
che si crea e si consuma;
e sarò io il manto rosa-argenteo di ogni
tomba per il tuo Sogno…
per il tuo Dio,
sarò l’Inquieto!».
E cantava… cantò il sèttimo gufo,
huì… huì… huì:
«Sarò per sempre la sete titànica
tua di conòscere i misteri orbati
del velato tuo cosmo!
Chiàmami Ìside-Dea!
che si spoglia e ti porge il seno ambito,
e il ventre dell’Io-so!
Con uno spàsimo eterno e un singhiozzo
di Pöèsia…
tu… tu… folle supremo!».
E cantava… e cantò l’ottavo gufo,
huì… huì… huì:
«E io svelo… e svelerò io ogni runa mia,
indecifràbile e orrenda e occulta,
quel che le Norne han deciso sul tuo
avvenire… l’Incògnito,
ignoto lito
di àttimo eterno!».
E cantava… cantava il nono gufo,
huì… huì… huì:
«Sono io l’ìncubo furïòso e tetro,
Sàtana che ti cerca e che ti insegue
voracemente e insano per deviàrti…
la Conoscenza del Bene e del Male,
il ghiotto frutto per la tua atea stirpe,
alla quale ti vorrei accòlito e ligio,
tu… uomo miseràbile e
ordìto con il fango,
uno sputo di Dio…
un àlito del Nulla!».
Va’… allontànati, Sàtana!  

VII. Un Canto funebre di Montagna

È morto…. Il cervo del Gridòne a’ i piè
di una vetta - ei! - defunse, qui… qui, sotto
i miei occhi attòniti e ardenti di làgrime,
ei, trucidato dall’ùltima strage
della mietente falce della Morte…
ei, in una caccia di corni incostanti,
vaticini del Destino e della Tomba,
e per sempre perduto in eco di ombre
di monti della Notte.
È morto…. Il cervo del Gridòne a’ i piè
degli ùltimi suoi Sogni… ivi, nel sangue
sognante di annientàrsi nelle sue erbe,
nel cuore che desìdera confòndersi
ne’ il verme che lo annienterà ben presto;
e la Vita non è che un solo Sogno
che troppo poco vive per esprìmere
tanti altri Sogni per poi inavveràrli
su’ un sentiero di Morte….
E là… oltre il Sogno… Iddio!

VIII. Il Sentiero, ovvero La Metafora del Viandante di Montagna

Oh Viandante, de’ i lupi stirpe antica
un dì nata allorquando Wòtan ebbe
a ghermìr sé medesmo in un Eròe
dei Wälsi delle Valchirie fuggèvoli
per le selle dei fùlmini
e delle nubi,
tu, oh straniero dovunque vada, e in suòl
natìo per sempre, dove Patria è l’Alpe, 
e il vàlico, e la cima tempestosa,
e il màr che si distende oltre le rocce,
e il fiòr e la pianura co’ i suoi boschi
e i suoi campi di Vita…
dove ovunque è l’Incògnito che dòmina,
e l’orizzonte ignoto si disperde
sopra i tuoi sassi sempre uguali, e sempre
diversi, i qual a volte ti sòn pane,
e i lor ruscelli vino, e i rami covo,
e gli antri albergo, e
le fronde letto;
tu, oh pellegrino perenne che fuggi
da un monte di cui non altro conservi
che una febbrile rimembranza oscura,
e cui vorace tu aneli e irrequieto,
tu inghiottendo le pòlveri di questo
viaggio di cènere, e le làgrime, ombre
della pioggia specchiata in sul tuo cuore
scolpito dagli àttimi
del vecchio Fato…
tu, che vesti le fauci della fame
del negro branco della roccia eterna,
i sanguigni sogghigni di Erda antica,
gli Eroi coperti da’ i peli di un lupo,
e i fulvi occhi del gufo della Luna,
solitario fantàsima di un grembo
sepolcrale e vivente…
tu, oh Viandante delle Alpi, va’! e continua
il tuo passo ferino, accompagnato
dalle belve dei fiumi più recònditi
della Veglia e del Sogno, e da altri e tanti
pellegrini di pietra, e sangue e carne:
da’ i tuoi compari… e prosegui! finché
non ghermirai tu un bacio alto e compiuto
dalle labbra di Dio. E
canta la tua canzone!
Canta la vaga beltà dei tuoi colli,
tu, viaggiatore inconfondìbile e àrido
di ogni inattesa spene,
e il fiore-fuoco del Sole che splende
come un opàco teschio in su’ una bara,
dove soltanto basta un caldo stràl
di questa fiamma,
e un ruscello sul qual esso si specchia
per fàr brillàr di argento un monte intiero,
e la sua eroica cima….
Canta! dove tu apprendi l’Invisibìle
orma del vento, e l’Immortàl che scorre
e si rigènera,
e il Genio-Tutto che ti ha fatto or qui
pellegrino del Sogno, e poi Viandante
della tua Veglia;
dove tu cogli l’Eterno con gli occhi
moltèplici di un cuore infinito
costretto a stare
tra due parèti di una viva tomba
di carne e sangue: un’Ànima di Dio.
Canta!

IX. Il Cantico della Montagna

Oh voi, montagne, ombre sublimi de’ i
titànici occhi delle nubi di acqua
che veggo io piòvere ora e che vedrò
sorrìdere domani,
e tuonare di sera…
voi, prepotenti come gli Dei nòrdici,
possenti sguardi di sì cieche rocce
dov’io spesso mi siedo,
voi, che specchiate nelle ignude vette
tempestose di un ghiaccio sempiterno -
che fàttosi acque io ho assaggiato e goduto -
le onde fuggèvoli e ardenti del Sole,
e che alle vostre vìscere chiamate
per l’eco sconfinata di una caccia
i Sogni delle cerve e dei famèlici
lupi, e gli istinti dei vèrgini boschi,
e gli impulsi dei làrici,
e ogni mio desidèrio;
voi, che io qui ammiro e che contemplo,
oh divini convìti delle allegre
arpe di Froh e dei più dorati pomi
delle beltà di Freya,
perduto io in tanti colpi di occhio di avverso
senso e di sì confusa e avvinta mente,
quivi, e che richiamate il Cièl sublime
donde di bèo,
oh voi… voi, dunque, siete qui non mèn di un
grazïòso orizzonte, un avvenìr
del giorno e del Tramonto, e di una Vita
che a’ i nembi anèla, oltre l’arcano
urlo dei corni, mònito di caccia 
per le sue illuse vìttime di carne,
e di ossa e di Destino,
vaticinio irridente delle spoglie
frasche del Dio Irminsùl,
e di ogni Norna!
Et tu, laudata sie, oh montagna bella,
pe’ il tuo messòr lo sasso, e sòra pietra,
et frate vàlico;
per le rune che sveli alle perenni
ombre di Dio,
l’Altìssimo che regna et che ti dòmina,
sorso di Eternità!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro

H. William, Near Glen Orchy, Arte inglese di Romanticismo vittoriano, Seconda Metà del Secolo XIX



Nei Dì che vanno dal XV Luglio al IX Agosto, trascritte in Dì di Mercoledì X Agosto dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

Dedicato agli Organizzatori e ai Ragazzi e alle Ragazze dei Campi-Scuola a Olgia dell'Oratorio Santa Giuliana di Borgolavezzaro.

In Memoria di San Francesco di Assisi, con un Grazie anche a Papa Francesco, per la sua meditata Enciclica, Laudato Si'

martedì 20 ottobre 2015

Bèviti! E bacia il mio Sogno!

Oh Rose, oh Rose, infinita ombra del Nord, fanciulla, a’
betulle e al Ghiridone ascolti forse - tu? - il mio sogno,
e i miei febbricitanti sospir. Le ansie! E
ricordo: il solitario e là ombreggiato sentiero,
scendendo dalla piccola collina, e andando altrove,
verso Dìssimo forse. E muto ero io
tra le chine lontane e meste. Ove tu eri con me.
Oh Rose, perché… perché ora mi vergogno in miei sonni,
dove il mio cuore si lamenta? E piange!
È forse Amore un’onta d’un fanciullo che è inerme
per cui provàr vergogna v’abbisogna?
E questo sogno vaga… e va sul nero crepuscolo…
e sogna… e sogna come in tomba il verme. E
poss’io chiederti di baciarne? E il mio
visionario sentìr tramonterà in quel bacio
che tu allòr chinerai a un’ombra morente e sconsolata.
Oh Rose! Può esalare ove qui giaccio un freddo sogno
l’estrèm sospìr suo e l’Anima infamata; e tu… avrai
così raccolto con le rosse labbra e le tue gote
un respiro di Vita e di ricordo, e un sovvenìr
d’un istante defunto. Ed è la Notte che regna, oh Rose!
E il mistico baciàr piove al mattino
sulla tua bocca la fredda rugiada del mio Destino;
e per me sarà egli un sogno che muore d’accanto
per farmi accòglier da altri sogni insonni,
come uno scoglio l’onde del suo mare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XIX, Martedì XX Ottobre AD MMXV